San Francesco

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Facciata di San Francesco

Chiesa di S. Francesco

di Giacinto Borsella (1770-1856)
Volgendo l’aprile del 1230, e sgombri già da gran tempo i Templari ed i Teutonici da Andria, l'Archimandrita di Assisi reverentemente si accolse, non senza gaudio e frutto degli Andriesi, che innamorati di sua santitate, e caldi dei suoi paterni consigli, eressero ad onor suo due case, di Conventuali la prima, l'altra degli Osservanti, concedendolo Federico II profondo ammiratore del Patriarca, alto amatore di nostra Patria. Svolto questo tratto storico torniamo al nostro proposito, toccando la Chiesa de’ conventuali. La quale, come pur dinanzi è detto edificossi nell’alba del XIII secolo alla gotica, secondo mostrano le sue porte di pietra viva, site la prima nel frontespizio, e la seconda a fianco.
La prima di varii fregi e contorni ingegnosamente ornata, elevasi giusto lo stile consueto, ad angolo acuto rabbellita da una fascia larga tre dita a modo di cornice, tramezzata da otto quadretti, quattro a dritta e quattro a sinistra, distanti fra loro palmi due, al pari di quelli di S. Agostino ognuno offre un rosone di vario lavoro, ricinto di foglie, oltre le belle cornici arcuate, che ricorrono nel vano del triangolo, che estollesi dall'architrave sino alla punta. La prima di esse scanalata, lascia negli opposti fianchi due cornici a cilindro ritorte, formando un arco di circa palmi quattordici. La seconda solcata a cordoni orizzontali, percorre l’arco in palmi dodici. La terza anche scanalata si estende fra due cilindri levigati, ed incurvasi per circa palmi dieci. La quarta tappezzata a guisa di ghirlande forma l’arco di palmi otto. A’ lati delle colonnette con capitelli e basi si sono sculti due dragoni alati mordendosi la coda. Accanto l’architrave in due nicchie stanno allogate le statue di S. Francesco, e S. Antonio, di stucco. Le fascie che fiancheggiano questa gran porta, hanno i capitelli traforati sul gusto gotico, nonché i loro zoccoli. Sull’angolo dove termina il frontespizio, scorgesi un Agnus Dei, anche di pietra in memoria del Pontefice che celebrò l’incruento sacrificio, che potrebbe essere stato Onorio III che nel 1220 coronò in Roma Federico II [1]. Che mal comportandosi verso la chiesa venne privato dell’Impero da Innocenzo IV nel Concilio di Lione del 1245.
La seconda porta formata anche a triangolo dall’architrave in sù presenta da cima a fondo cornici più capricciose a fianco lavorata a zita ed a spire orlata di fini merletti, cosparsa di giglietti, secondo lo stile fantastico di quel tempo. In mezzo al triangolo sorge la figura a scheletro di G. C. da cui il patriarca senti imprimersi le sante stimme nelle mani, nel cuore ed in petto. Più sotto un’affresco, che rappresenta un S. Antonio di Padova col Bambino. Ha il suo pregio.
Le antiche finestre strette ed arcuate, in testa, vennero ampliate nel 1346; epoca in che il tempio formossi, e s’ingrandì come a caratteri pur gotici leggesi attorno un’antica porta del chiostro — MCCCXLVI Sub Pontificato Domino Domini nostri Clementis VI Papæ, per Magistrum Bonnanum de Barulo — così nella storia D’Urso.
Entrando in chiesa vedi prolungarsi su una nave fino al presbitero, freggiati di marmorea balaustra, con volta ben elevata non senza ornati di stucco. Ai fianchi dell’entrata trovansi le fonti di marmi color piombo, con eleganti spalliere per l’acqua benedetta con fregi di contorti cornici che poggiano sopra piedi a festone. Il pergamo a cono troncato rabbellito di Angioletti, e dall’emblema dell’ordine, non che da calcavoce con fregi dorati in cima, palesano quei quattro confessionarii la maestria di Giuseppe Gigli nostro concittadino che costruilli.
L’altare maggiore elevasi su quattro gradini di marmo bianco aventi due Serafini ai due lati, che stringono fra le braccia il piè dei candelabri. La costruzione è magnifica o si guardino i lavori, o la forma, ovvero le diverse qualità di marmi, che il compongono. In mezzo al frontone spicca una stella di Similoro infissa in cerchio di lapislazzuli. Accanto sporgono due teste di Angioli. La mensa è sostenuta da piedistalli corniciati a varii colori. Il primo gradino della stessa è abbellito con sei coretti lunati, come scudi, aventi nel centro cerchietti di marmo giallo.
Il secondo gradino ha delle foglie bianche ricurve sopra marmo cipollino. Non mancano a destra e sinistra altri ornamenti con piccole frondi. La portella del ciborio offre il Salvatore che sazia i suoi discepoli, col pane della vita. I gradini dell’altare, fasciati di giallo e nero, rendonsi vistosi.
Sonovi eretti sei altari cinque di stucco in buoni lavori, ed uno in marmo. Il primo è intitolato al gran Patriarca d’Assisi, sdraiato, sparuto, languente sopra una sdrucita stuoia, che stringe il crocifisso, sua speme e conforto; avendo a manca un’urna da mantenere acqua ed una scodella di creta che sembran rilevate dalla tela con un libro. Ai piedi un cappello di paglia più che naturale, il Divo è assistito dal suo compagno in atto di leggergli la salmodia, o la scrittura. Dall’alto scende un cherubino a consolarlo col suono della lira. Leggesi nella di lui vita perciò che avendo inteso una volta una sola arcata di viola per mano d’uno spirito celeste cadde tramortito per la dolcezza. Questo altare come ben si addice, gode delle indulgenze locchè appare dalla iscrizione apposta in lastra di marmo dietro al pergamo, del tenor che segue: Altare hoc omnipotenti Deo in honorem sanctus Patris Francisci dedicatum privilegio quotidiano perpetuo ac libero pro omnibus defunctis ad quoscumque Sacerdotes vigore brevi Benedicti Papæ XIV dies nonas Octobris 1751 insignitum; a reverendo Ministro generali die XI Mensi Iunii fuit insignitum.
Circa la espressione di questo dipinto ci limiteremo a dire che la perfezione del pennello si fa comprendere anche dai mezzanamente istruiti. Quindi passiamo oltre. In cima un ovato con S. Chiara, che ha in mano la sacra pisside. Questa figura è lavoro della mano istessa del primo.
Il secondo altare è dedicato all’Addolorata, sculta in legno riposta in nicchia di cristalli con gran fascia di noce. Ha le spade d’argento che le trafissero l’intemerato seno. Il di lei volto, il suo vestire in gramaglia con ricche fimbrie di argento, in gran manto cinta il capo di diadema prezioso; la mestizia che appalesa nei santi lumi, l’angoscia immensa, che l’accora, la macia del volto ispirano tale e tanta venerazione, che ogni bel cuore sentesi commosso a venerarla, ed a ripeterle quei versi del Petrarca nella canzone che incomincia:
Vergine bella, che di sol vestita,
Coronata di stelle, al sommo sole ecc.
Vergine quei begli occhi,
Che vider tristi la spietata stampa
Ne’ dolci membri del tuo caro figlio,
Volgi al mio dubbio stato
Che sconsigliato a te viene per consiglio
.
Questa statua preziosa lavorata in Napoli insiem con l’altare di fini marmi devonsi alla pietà della famiglia Iannuzzi. Il ciborio è architettato a forma di tempietto, con colonnette laterali, non isfornite di zoccoli, e capitelli. Il piccolo architrave sporto in fuori porta in fronte un cornicione a triangolo. La portellina della custodia tien l’emblema raggiante dell’Ostia sacrosanta. In cima dell’altare, vedesi un semicerchio di ottone con creste rabescate dal quale nei giorni solenni pendono sette lampade d’argento a devozione della famiglia Spagnoletti. La settima collocata nel mezzo più grande e ragguardevole delle altre, ha l’emblema dei sette dolori della Vergine. L’ovato di questo altare offre S. Vito Martire, accanto a cui, un cane di manto tappezzato, ritto sulle zambe sta in atto di leccargli le piaghe.
Nel terzo altare la madonna degli Angioli, cui soggiacciono S. Biagio, S. Antonio Abate e S. Bonaventura; la di cui berretta di porpora gli viene presentata da due Serafini. Nell’ovato S. Bernardino da Siena in abito claustrale, con lunga stola.
Nel quarto ti si presenta S. Antonio nella più vaga forma di sembianze angeliche, che venera genuflesso il Bambino, a piè due angeli, uno con un libro aperto, e l’altro col giglio della purità. Nell’ovato vi è il ritratto di S. Caterina in abito monastico con a fianco un cagnolino armellino, con macchiette nere.
Sussiegue la Immacolata con diadema di stelle, ispirata dal celeste amore, che tutta la investe col fulgore dei vividi suoi raggi. Vien fiancheggiata dagli Angioli, poggiando sopra argenteo sgabello di nubi, dalle quali sporgono le teste di altri angioletti, che la riveriscono con gli altri. Nell’ovato è dipinto la Madonna di Costantinopoli col bambino, avente la testa entrambi cinta di aureole, in vestiti alla greca.
Venerasi nel sotto altare S. Giuseppe da Copertino, che sorvola in faccia la Croce. Ai suoi piedi due monaci compresi, da alto stupore, che ben lo appalesano ne le mosse del volto, e delle mani. Di questo santo si venera la statua lavorata da’ nostri artisti Brudaglio. Lo stesso sta genuflesso a pié del legno della croce che sostengono due serafini, e sulla base sono rilevati due faccette di Angioli alati. L’ovato contiene l’Arcangelo Raffaele.
Circa il merito dei descritti quadri con altri due grandi appesi a fianco del coro, l’uno di S. Francesco, e l’altro del Redentore chiodato nel santo legno, con Maria e col prediletto Giovanni, che ne deplorano lo strazio, diremo, che sono opere del medesimo pennello, e che con mezzana lode impartirà all’artista chiunque prenderà ad imitarli.
Dall’umbilico dell’arco, che divide il presbitero dalla navata, scende una lumiera di cristallo. A fianco dell’altare maggiore sporgono due cornucopii d’ottone, maestrevolmente lavorati per li ceri, che accendonsi nelle festività. Alle pareti della Chiesa sonovi sedici specchi con cornici dorate, e con la divisa di S. Francesco. Accesi rendono fulgidi lampi di luce.
Bella e grande magnificenza spiega poi la piramide a smalto verde, dorata ad oro di zecchino, che si erge da sopra il coro fin sotto la sublime volta, portante in cima uno scudo con lo stemma di S. Francesco. L’artista in dar questo traslucido risalto all’organo immaginava forse le occhiute penne del superbo pavone, che gemmis caudam stellantibus implet come esprimevasi il Sulmonese. (Metam. L. I), o come scrisse Plin: (L. 10, c. 20) Gemmantes laudatus expandit colores adverso maxime sole, quia sic fulgentius radiant. Comunque, dessa è tale questa massima, che si offre di fronte allo spettatore, che ben a ragione il commuove, o per la magnificenza, o per la elevazione, o per gli ornamenti, con angeli aventi trombe alla destra, teste di fiori e traforate, corni tutto in oro, oltre una grande ghirlanda in cima allo stemma. Tre ordini di canne sono intramessi nel mezzo di questa piramide, il maggiore nel mezzo rilucenti, come l’argento. L'opera porta l’epoca 1766, e vuolsi formato per le mani dello stesso Porziotta che lavorò il trono episcopale.
Vi è sottoposto il coro, a due file di stalli di solida noce, il superiore di 24 oltre quello di mezzo, ove sedea il Provinciale, e l’inferiore di sedici sedili. Comincia con una spalliera, che da adito ai gradini, nel quale e rilevato un cornucopio con cornice in arco da cui esce fuori un grappolo d’uva, con lo stesso modo termina dall’altro lato. Gli stalli, e superiori e inferiori sono conformi a quelli del coro della Cattedrale avendo ognuno alle spalle un quadretto levigato con eleganti cornici e con bracciuoli a ferro di cavallo, e colonnette striate ai lati forniti di piedistalli e capitelli corintii, in testa di ogni sedile avvi una specie di scudo convesso con un motto che comincia cosi: Deum, Ante … Corde vagantes. Si cor non orat. Joannum lingua laborat. Anno Domini 1699. Opus hoc fuit completum. Soli Deo honor et gloria Amen Amen. Le fascie che ricingono i due ordini di stalli sono simili per larghezza a quelle del coro della suddetta Cattedrale, con la differenza che le fascie del primo, sono sculte con puttini, animali diversi, stemmi episcopali, pesci, fiori, aquile e simili. Le fascie di questo contengono rabeschi, stelle, fiori svariati, fogliami e simili capricci. Nel piedistallo della sola prima colonnetta vedesi una maschera tragica, dalla di cui bocca escono delle foglie che diramansi, e così pure nell’ultima colonnetta per la simmetria. La sedia del Provinciale è più che ingegnosamente lavorata con due colonnette, ritorte, coi loro piedistalli e capitelli sottoposti all’architrave. Questo sporge dal muro due palmi, coperto aduso di baldacchino, fregiato a rabeschi e con dentellate cornici. Chiunque fermasi per poco ad osservare i lavori del primo coro e quelli del secondo, conchiuderà tosto senza esitanza che sono opera dello stesso artista, o che venne questo secondo eseguito dallo scalpello di abile discepolo del Bagnolese Infante.
A lode di questo egregio artista notiamo, che in Bagnoli sua patria ha lasciato un monumento più che singolare del suo ingegno, avendo in quella Cattedrale lavorato il coro in cui sono mirabilmente sculti i fatti più classici della Bibbia in istatuette. Ed egli forse lavorò l’altro coro di Montecassino pure con rilievo di statue, collocando nel mezzo S. Benedetto con tutte le riforme, che uscivano dalla regola di questo patriarca, anche cavalleresche come avremo occasione di far rilevare nella iscrizione del Tempio della Madonna d'Andria. Dicasi a suo encomio col Fulvio Testi nella canzone da lui composta in morte di Ferrante Bentivogli:
Che se vita comun non vive il forte
Perché cogl’altri aver comun la morte?
Vivon secoli intier timide cerve
L’angue ringiovanisce
L’orientale augel, morto rinasce
L’uomo che ad opre maggiori in terra nasce,
Come lampo svanisce
O come spuma in mar, quand’ei più ferve
.
Sulla sedia del Provinciale è eretto un quadro del Ganganelli in trono di Maestà, con insegne pontificie. La giovialità, la espressione più che viva, e parlante, la imponenza del volto, e la spaziosa fronte sono i pregi del dipinto. Nel muro del coro istesso è affisso altro quadro di S. Francesco genuflesso d’avanti il crocifisso, che sta su di un tavolino; la cui macie, e le calde lagrime, che gl’irrigano le sante gote son tali che sublimano il pennello dell’artista. L’angelo che gli è sottoposto, il teschio di morte con la disciplima, che gli stan d’avanti, la mossa più che dimessa del capo incanutito, eccitano commiserazione e tenerezza; senza. parlar della maestria che vedesi nelle pieghe molteplici dell’abito che indossa. Rimpetto osservasi altro quadro del Redentore sulla croce con Maria e Giovanni.
Questi dipinti benché pregevoli, fia che cedono in merito ad un S. Tommaso Apostolo, in atto di mettere il dito nel sacro costato del divin maestro, in presenza di altro discepolo. Saper l’autore di questa pittura, basta per profonderle degne lodi. Fu opera di Salvator Rosa, il cui solo nome chiude un elogio. Questo soggetto è stato tutto, pittore, poeta, musico, suonator di liuto, cantore, improvvisatore, incisore, soldato, cospiratore, attore, autore drammatico, e quasi brigante. Povero come Gilbert, ricco come un Papa, repubblicano come Masaniello sotto cui militó, voluttuoso come Sardanapalo, storico come Epitteto, incisore come Democrito, piagnucoloso come Eraclito, orgoglioso come un buon destriero, colerico come il mare, amator del mondo, desioso della solitudine; Salvatore per la vita, e uno degli esseri più completi che abbian mai esistito. Fu allievo di se stesso e della Natura. La sua satira, era la bella e nobile satira, la satira che parte dall’anima, la satira di Giovenale, tutt’altro che quella di Orazio. E se egli fece piovere dalle sue nubi dei tratti mordaci, lo fa per difendere le statue delle tre somme Divinità, della Trinità terreste, l’arte, la verita, la virtù.
In questa medesima Sagrestia è affisso nel muro un mezzo busto in marmo d’un dignitoso soggetto dell’Ordine, con ufficio semichiuso in mano, sculto da valente scalpello, che tocca la perfezione, in tutte le sue parti. L’aria è imponente, la iscrizione che gli sta a piedi è la seguente:
D. O. M.
Frater Gabriel Maria Pisani ab Andria
Artium et Sacræ Theologiæ Magister
Prædicator zelotypus Minister Provincialis
Et Commissarius Generalis æquissimus
Sacristiam hanc suppellectibus auxit
Fundo dotavit
Cessit e vita III Nona Novembris
Anno ætatis suæ LXXV mens. X Die XIII
Vulgaris autem aere MDCCLXII
Et ne tanti viri memoriam sœcula occultarent
Patres Conventus
Memoriæ et beneficentiæ ergo
Hoc posuere monumentum
.
A tutto ciò si arroge la statua del Santo d’Assisi che raccoglie nel volto l’ansia più devota in contemplare l’uomo Dio trafitto e sospeso in croce, che medita fra le mani. Chiunque scit pretia rerum, saprà per fermo huic operæ pretium dare. Senza far motto delle altre statue di S. Antonio con ricco giglio d’argento in mano, di S. Chiara, e della Concezione le quali comunque riguardevoli, non ponno stare a paragone della prima. Non è per altro a negarsi, che quest’ultima spicchi in tutte le sue parti. Quella sua veste color lattimo è finemente lavorata, con manto cilestre stellato ad oro puro, parendo che non fossero lavoro dello scalpello, ma stoffe. Le cinge il capo un diadema di dodici stelle d’argento, e le grazie del volto l’aggiungono decoro. Non lasciamo di far parola, che in questa Chiesa è eretta la congrega di S. Chiara, che gareggia nelle funzioni con l’altra dell’Addolorata di cui qui appresso terrem discorso. La ridetta congrega possiede un ricco pannetto apposto al crocifisso di argento, nonchè statuette di argento in cima di una mazza che si porta in mano dal sagrestano nelle processioni. Doni largiti alla stessa dal Confratello N. N.
Ben costrutto, sublime, e superbo il campanile di questa Chiesa eseguito dal nostro Paesano Vito Ieva nel 1772, onde le aggiunge non poco ornamento.
Nel chiostro veggonsi tuttavia dei ritratti di buon pennello dei santi dell’ordine, a fresco. Ivi sono quattro porte di pietra a sesto acuto. Una che immetteva nella chiesa, è contornata da tanti cerchi troncati. Nei vani son formati dei triangoletti, con certe alette di uccelli a traforo. Sussiegue altra cornice più stretta, che è lavorata come la prima. Queste due cornici vengon difese da una terza, infissa di taglio nel muro onde rafforzarle per la maggiore adesione, e lavorata al di dentro in tutto simile alla prima, che forma l’ornato della gran porta di S. Agostino, da noi minutamente descritta. Sicché esser debba opera dello stesso scalpello, o di altro artista di quel tempo. E quivi pure non mancan, come in quella, dei giglietti nella orlatura. Gli stipiti sono semplici. Alla punta dell’angolo havvi lo stemma di un albero di quercia, con due porcelli, che si satollano delle ghiande, stemma della famiglia Porgiotta, o Porciotta. Superiormente sporge un mezzo busto in tufo colorato, che rappresenta un monaco con questa epigrafe:
D. O. M.
Fratri Ioanni Portiotto Andriæ Theologo insigui
In præcipuas Italiæ Urbes Concionatori præclaro
S. Nicolai Provinciæ ob virtutis præstantiam
Ad Provincialis munus evecto
Fratres eius monita animo seu pridem
Auribus aurire cupientes
Neve ejus usus memoria
Annorum vetustate aboleretur
Erexere A. D. MDCXXVI
La seconda porta a fianco, ad uso del Sagrestano in tempo della Religione, è fregiata intorno intorno, come da tanti ventagli, che si succedono, con frangie in punta. La terza dall’architrave in su mostra una cornice ritorta ad arco. L’ultima ha una fascia di fiori a quattro foglie da cima a fondo, disposti in croce, che vengon chiusi da tanti cerchietti di due opposte trine, che serpeggiando s’intersecano fra loro. La elevazione di queste tre porte a sesto acuto è di circa palmi 18 [18 palmi napoletani corrispondenti, dal 1480 al 1840, a m 0,263333367 = circa m 4,74; dopo il 1840, a m 0,2645502645 x 18 = circa m 4,76].
In altra stanza interna del Chiostro scorgesi altro mezzo busto di altro religioso, con una lapide, o mensola che il sostiene, del tenor seguente:
D. O. M.
Fratri Angelo Vigenio Andriæ Theologo suæ memoriæ principi, qui S. Nicolai Provincia iterum gubernata Gymnasio Neapolitano et Patavino scientiis aucto Bononiam tandem illustraturus Ferraria discedens, curru effracto axe, vigesimo post die obiit ætatis suæ (manca la età) Frater Christophorus Palmerius beneficus alumnus cum prius Provincialis Anno Domini 1566 apud montem Pilosum patribus ad provincialia comitia vocatis prefuisset, et nunc Anno Domini 1580 huius almi conventus Guardianus iterum ponendum curavit.
Resta a far parola di due altre iscrizioni in marmo la prima nell’ingresso della Chiesa:
Missæ omnes ad altaria hujus Ecclesiæ pro
Summis Pontificibus, Cardinalibus Protectoribus
Ordinis ac fratribus defunctis ab ejusdem Ordinis
Dum taxat Sacerdotibus quandocumque celebratæ,
indulto altaris privilegiati perpetuo gaudent,
vigore Brevis Benedicti Papæ XIII die XXXI
Ianuarii 1725 Insuper missæ omnes
in obitus, vel alio die pro iisdem enunciatis
personis, æctiam pro vice protectoribus
Ordinariis loci, et temporalibus Benefactoribus
ipsiisque Fratribus, ac Monialibus Ordini
Subiectis, horumque tantum genitoribus a
quovis sacerdote celebratis eodem perpetuo altaris
privilegio gaudent ex indulto Benedicti Papæ
XIV Die IV Septembris 1751
La seconda sulla tomba dei Monaci è la seguente:
D. O. M.
Hunc pro Fratribus ac Sororibus
Tertii Ordinis
Turnulum
Huius Cœnobii Patres instaurandum
Curarunt vulgaris ære
Anno 1759
Passiamo a far conoscore altra piccola lapide in caratteri gotici dietro il portone in cui vi è la scala, per la quale si sale sul Convento. La stessa è così concepita:
«Hoc sepulcrum Magistri Iohannis Ferrerii fecit heredibus eius [2]».
In questa Chiesa è fondata la Congrega dell’Addolorata, che possiede dei preziosi arredi a lei donati dalla pietà dei confratelli. La corona della Vergine donossi da D. Ottaviano Spagnoletti, un secchietto col suo aspersorio da D. Riccardino Porro, la sfera ben rilevata del SS. Sacramento fu regalo di D. Riccardo Iannuzzi, e la Signora Mariangela Zeuli, moglie di D. Ferdinando Spagnoletti, le regalò un incensiere. Si osservi finalmente che nel frontespizio di un’antica finestra gotica ora chiusa, adiacente alla porta piccola della Sacrestia a mezzogiorno, veggonsi due quadri di pietra in cui sono rilevati due animali, che sembrano volpi, creduti stemmi della nobile famiglia Volponi, o Volpicelli. Ma ben considerati son Filandri, secondo il Buffon, o al dire amanti della loro specie. Essi tengono sotto il ventre una specie di sacco, in cui serbano i loro nati onde difenderli dalle aggressioni di qualunque fiera. Questa spiega combacia con la regola di S. Francesco tanto caritativa verso i poveri, mentre abbisognevole di tutto, e sì propensa ad albergare, e somministrare il vitto a chiunque ne ha bisogno. Questo emblema spiega inoltre la ritiratezza della vita monastica. Gli animali in parola portano al collo i collari, perché di natura agresti, non sicuri. Alla punta della coda hanno un fiocco.

[integralmente tratto dal libro “Andria Sacra” di Giacinto Borsella, edito a cura di Raffaele Sgarra per i tipi di Francesco Rosignoli, 1918, pagg. 172-187]

[1] Bisogna ignorare affatto la storia, per sapere quanta affezione questo Sovrano mostrò in diversi rincontri al popol nostro quanto mai questo a lui. Basta risovvenirsi di quei tre versi, che lasciò a sua lode, per lasciarne appieno convinto
Andria fidelis nostris affixa medullis
Absit, quod Federicus sit tui muneris iners,
Andria vale felix, omnisque gravaminis expers
.
Cresceva sempre più il di lui attaccamento in osservare, che il cuore degli Andriesi non cambiossi mai, specialmente nelle fiere persecuzioni. che ebbe a soffrire non a torto con le fulminategli censure della S. Sede a causa che ripromessosi non una volta colla stessa per la conquista di terra Santa coi suoi crociati, non faceva che sempre mai sotto diversi pretesti dilazionare la impresa e crescendo perciò l’odio della corte Romana contro di lui fra le sue amarezze sperimentò sempre fedele questa città. Ed una fiata onde non avesse dubitato mica di tale attaccamento. Andria spedigli cinque giovanetti delle primarie famiglie coi seguenti versi
Rex felix, Federice, veni Dux noster amatus:
Est tuus adventus nobis super omnia gratus
Obsides quinque tene, nostri signamine amoris
Esse tecum volumus omnibus diebus et horis.
Onde ben si deduce a qual grado giungesse la nostra divozione verso di lui, mentre e per le di lui consorti Iolanda ed Isabella, tumulate in questo Duomo; per la nascita fra noi del suo figlio Corrado, ed insieme per lo divertimento della caccia nel nostro Castel del Monte, non che per la inespugnabile sicurezza che ivi trovava nei suoi infortunii nonché per quella splendida regia, che gli offriva, nasceva che preferisse questo nostro ad ogn’altro comune. Da qui l’imperatore mosse per Benevento che erasi sottratta dalla sua giurisdizione. Ed ivi incontrato avendo viva resistenza, la chiuse di assedio, che durò per molti giorni. Cadde infine nelle sue mani con saccheggio e con le altre misure della guerra. Federico allora volendo rimproverare ai Beneventani la loro sconsigliata condotta pose loro sott’occhio la fedeltà di Andria scrivendo questi versi
Andria tua soror multo te prudentius egit
Ad nos quæ venit, cum nobis pœmate legit
Propterea incolumis permansit inultaque nobis
Quod tibi numquam erit in multis implicita globis
.
Finalmente avendo più coll’arte e coll’ingegno, che con l’armi chiamato alla sua divozione molte città, e terre a lui ribellate, vedovo pensò impalmare novella sposa. Venne occupato il suo cuore da Isabella, sorella di Arrigo re d’Inghilterra, e fu questa la terza sua moglie. Le nozze furono con molta felicità celebrate in Vormazia nel 1235 avendone da Roma ottenuta la dispensa. Ma incontrò costei la stessa sventura dell’infelice Iolanda. Correndo l’anno 1241 venuta col consorte in Foggia quivi sorpresa immaturamente dalle angosce del parto nel dì 21 Dicembre cessò di vivere. Alla infausta notizia s’impegnarono a gara le primarie città del suo dominio onde aver l’onore di tumulare l’augusto cadavere, anche per guadagnarsi una particolar protezione. Ma egli o perché sentiva sempre presenti le affettuose e fedeli rimostranze degli Andriesi, o perché volesse rendere indivise le ceneri di quelle, che si erano succedute alle sue tenerezze, decretò che la spoglia dell’amata Isabella fosse condotta in Andria, ed avesse avuto tomba onorata accanto quella della diletta Iolanda. Gli Andriesi per questo nuovo attestato di predilezione volendo sempre più esternare all’Imperatore la loro alta riconoscenza, profusero somme immense per la funebre pompa di quest’altra imperatrice. A lei fu creato nell’istesso soccorpo della cattedrale, non lungi da quelli di Iolanda il secondo mausaleo non differente dal primo. (ved. Murat[ori]. negl’Annali, anno 1241 e Giannone Lib. 17.
[2] Nel chiostro di questa casa religiosa intorno intorno sono dipinti in affresco i varii eroi che decorarono l’ordine, con pennello di buona scuola, oltre i miracoli del Patriarca, e la promulgazione della regola che esponea ai suoi.