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Acquaforte di Castel del Monte del 1860 circa

Il Castello del Monte
in Terra di Bari

Studi e pensieri

di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)


I.
Federico II. di Svevia

Al primo entrar del secolo XIII. una scena singolare di tumulti e di guerre e quasi una smania di conquiste agitava le menti degli uomini.

Gravi e perenni contese aveva avuto il Re Francese Filippo Augusto per discacciar dal suo regno gl’Inglesi; e se la battaglia di Bouvines aveagli fortificato il trono, non però ei ne quetava, ma andava divisando novelli trionfi.

Sorgeva in Inghilterra per la debolezza del terzo Errico, e per la dappocaggine di Giovanni Senza-terra la Casa dei Comuni; perdevansi le conquiste continentali; e per turpe accidia dei principi e del popolo andavan dileguandosi ogni dì più que’ tanti elementi di potenza, e di civiltà che la mente sublime del Magno Alfredo avea saputo creare.

Gli Arabi, i Castigliani, i Navarresi si disputavano le province della Spagna: e mentre, a seconda dei casi della guerra Moresca, tramutatasi la stabilità della reggia nella mobilità del campo, aggiravansi ed agitavansi que’ valorosi principi Cristiani pe’ monti e pei boschi di Pirene, strenuamente e prosperevolmente resistevano i Califfi Saraceni; e tra la buona e la mala fortuna, andavansi sempre più estendendo le conquiste del Re di Granata.

Il Latino Impero era succeduto in Bizanzio all’Impero Greco, ed erane anzi passata la dominazione dalla casa di Courtenay in quella di Brienna; ma le dispute e le contese non mai cessavano tra gli emuli gareggianti Signori, e qual fosse per essere il finale assestamento di quel quasi postumo impero Romano, preveder non si poteva.

Agli Arabi Califfi obbedivan le coste dell’Africa, obbediva l’Egitto, e la Soria [=Siria]; ma i feroci popoli del Caucaso, i selvaggi pastori del Tanai, e dell’Ararat già s’avvicinavano minacciosi alle amene sponde del Bosforo, avendo oramai invasa ogni parte dell’Asia Minore.

Le Crociate in Terra Santa, e le crudeli persecuzioni degli infedeli e dissidenti alla fede insanguinavan l’Asia e l’Europa, disertavano e ammiserivano i popoli, facendo vano ogni preesistente elemento di civiltà.

Bene di ciò si vede quanto triste e calamitosa fosse in quei tempi la condizione degli uomini; perocché la forza e la violenza s’avean preso il posto del diritto e della ragione, e la guerra era addivenuta la più nobile, e quasi l’unica occupazione dci popoli.

Men barbara e selvaggia, ma non men agitata o guerriera, e più assai sventurata era in quel tempo l’Italia. I Principi, le Città, i popoli, le famiglie vi eran divisi e scissi in parti, e chi per l’imperio teneva chi per la Chiesa; chi pel suo Signore, e chi per se stesso pugnava — Alcuni Pontefici ambiron fama di belligeri; ebbero altri vaghezza di conquiste; soffiarono altri nel fuoco che forse avrebber potuto e certo dovuto estinguere.

Né estinto era quello ardentissimo della Lega Lombarda; ché se il Barbarossa era morto crociato sul Cidno, viva e possente era ancor Casa di Svevia in Alemagna e pronta sempre a mettersi in qualunque impresa accennasse a predominio sulle cose Italiane. Dei Signori poi chi l’aquila di Cesare seguiva, e chi per le papali chiavi parteggiava; chi il suo stato difendeva e chi l’altrui invadeva. E il popolo intanto miseramente schiavo, e stolidamente feroce, in quella perenne conflagrazione di guerra intestina, se parti e colori, mutando signori, cangiava, speranza aver non poteva di cangiar sorti giammai. Imperocché i soldati d’oltremonti, quei de’ principi Italiani, gli eserciti della lega, e quelli del Pontefice insanguinavano, saccheggiavano, bruciavano le mal difese case, gli aperti campi, i miseri abituri del popolo più che le turrite magioni dei grandi, e i ben guardati palagi del Clero.

In quella perenne vicenda poi di breve e precario dominio, in quel non cessante mutamento di legittima signoria, invalido riusciva il presidio delle Leggi, confuse disordinate cangianti. E chi di scienze, e di lettere avesse in quel tempo ricercata la luce, solo in Bologna, ed in Sicilia, presso gli Arabi meglio che presso i Cristiani, ne avrebbe scorto qualche vestigio.

Copertina
Federico II - dipinto di Onofrio Bramante, 1985 (Municipio di Andria)

In questa epoca tumultuosa, in mezzo a queste indomabili perturbazioni della mente umana venne al mondo Federico II.

Di bella e graziosa persona, alto robusto aitante, di pel biondo, di nobile e signoril portamento, d’altissimo ingegno, era egli nato Italiano in Jesi delle Marche, e nelle scienze e nelle lettere Italiane era stato per quindici anni in Italia erudito. Sette lingue parlava; dell’Aristotelica dottrina era zelante cultore; con immenso affetto le naturali scienze, secondo i tempi portavano, avea studiato; ed in ogni disciplina i più grandi ingegni della sua corte avanzava.

Tutto quel che egli era, e tutto quel che egli sapeva, all’Italia riferivalo, ed agli Italiani erane grato; epperò a tutte le parti del suo impero l’Italia anteponeva e preferiva. Laonde, avendo, in breve, composte a miglior forma di civil reggimento nei Comizi di Erfurt, le cose della Germania, ed assicuratavi la concordia tra i Principi Alemanni, venivasene giovanetto, e piena la mente di nobilissimi disegni, a riveder la sua patria, e cangiarne in meglio le sorti miserevoli.

E questa egli chiamava la terra dei Cesari e degli Eroi, e questa si divisava di ergere a sede di un nuovo Impero Occidentale, restaurando sul trono dei Pontefici l’antico trono dci Cesari Romani. Nobile follia, sublime errore di anacronismo, cui fece guerra aspra incessante la barbarie dei tempi, non più Romani, e non ancora Italiani, che comprender non potevano la immensità del benefizio che tanto pervicacemente respinsero.

E qui comincia la dolorosa iliade delle pontificali persecuzioni contro Federico. Vedetelo, per comando del papa, respinto dai Milanesi, che ricusangli la corona di ferro, e gli chiudon le porte sul viso. Vedetelo indi umiliato in Roma, dove a condizioni durissime vien sommessa la sua incoronazione; e d’onde è poi sospinto a guerreggiar senza lodo e senza frutto in Oriente. Vedetelo accusato di perfidia, e colpito di scommunica perché i contrari venti ritenevan sua flotta in Brindisi, indugiando il suo passaggio in Soria.

E quando, alla fama del valor suo, gli ebbe Meledin ceduto Nazaret, e Gerusalemme, ecco il Patriarca, che gli ricusa la ben conquistata corona, e lo discaccia dal Tempio, perché non ancor purgato dalla pontificale scommunica!

Né ciò è tutto. Profittando della sua assenza, il Pontefice gli suscita contro lo stesso suo suocero Giovanni di Brienna, che invade le Puglie, e se ne fa signore; ed indi bandisce una Crociata, chiamando tutti i principi della cristianità contro l’Imperatore, il quale per rabbonire il Pontefice perigliavasi in Palestina, facendovi, trionfare il vessillo della croce.

All’udir di tali nuove, ritorna in Italia l’indignato Federico, e la sua forzata assenza maledicendo, che aveagli mutato in nemici gli amici e gli avea volti in competitori ed usurpatori i suoi stessi congiunti, mette in armi un possente esercito; ricupera le perdute città delle Puglie, conquista il Ducato Beneventano; invade le Marche, e Spoleto, e minaccioso presentasi alle porte di Roma, dove i ribellati popoli tenevano poco men che assediato il Pontefice.

Ma pur generoso e magnanimo stende l’Imperatore la mano al suo nemico; riverente e sommesso lo accoglie nel suo campo, cercando i modi più onesti per farlo inchinevole al buon diritto della Casa di Svevia. Indarno. Benigne pacifiche paterne suonano le parole del Papa; mentre i suoi Legati gli han già suscitato a ribellione il proprio figlio Arrigo. Ma Federico lo vince la prima volta e gli perdona in Vormazia, lo vince e lo punisce la seconda volta in Magonza, e lo rilega nelle Puglie.

Quietati poi i torbidi di Germania, ritorna lo Imperatore in Italia, e poiché avversa nemica ed armata aveagliela ridotta il suo nemico, circondasi dei suoi Baroni, chiama a sé Ezzelino da Romano con gli altri signori Ghibellini, e dopo molti e gravi danni cagionati ai suoi nemici, espugna Vicenza, s’impossessa di Padova, e sconfigge a Cortenova gli eserciti della Lega Lombarda; dove vien nelle sue mani il figliuol del Doge Tiepolo, e, glorioso monumento della vittoria, il Milanese Carroccio.

Questo brievissimo accenno di fatti volli io premettere alla descrizione del Castello del Monte; perocché veramente a me pare, aver dovuto in que’ fatti ingenerarsi la idea prima di quella vaghissima costruzione. Senza di che, bene si intende siccome i tempi, e i fatti stiano in gran parte tra le cause delle opere dell’uomo; né di queste avvien che portisi retto giudizio, ove di quello siaci ignoranza.

Giungeva appena al settimo lustro Federico quando, reduce dalla Palestina, ebbe a sedare la tremenda tempesta suscitatagli dai suoi nemici; ma in uno spazio sì corto di vita ben può farsi ragione averne egli vissuto il doppio. Imperocché la moltiplicità e la gravezza dei casi ne’ quali erasi avvenuto, le amare e perenni delusioni che avea dovuto subirc, i viaggi compiuti, i corsi pericoli, le create istituzioni non alla vita di un solo uomo, ma a quella di molti, sembrano appartenere.

Valoroso nelle armi, alla guerra, ciò nondimeno, che prometteva conquiste a prezzo di sangue, anteponeva la pace che consolidava la potenza degli Stati, e ingentiliva i costumi dei popoli. Eppur la pace aveangli sì a lungo turbata coloro che meglio di lui avrebber dovuto bramarla e richiederla.

Nato in Occidente, e desideroso di farsi strumento di bene per gl’Italiani, egli erane stato calunniato e perseguitato; ed avea destato invece più ammirazione ed amore in Oriente. Sicché per lui, il ricostruir Bizanzio con lo Impero di Costantino assai più agevole opera sarebbe stata del far risorgere dalle sue ceneri ed evocar dalle sue memorie la Roma di Augusto e di Trajano.

Addolorato e stanco delle fraudi, e delle insidie dci suoi nemici; afflitto dalla ingratitudine dei suoi congiunti, e dei suoi beneficati, chi vorrà meravigliarsi del suo amore per la solitudine, del suo desiderio della campagna, e della sua brama di occupar la mente negli ameni studî delle lettere e le membra nella operosità della caccia?

E poiché tra tutte le città della Puglia oggetto della sua predilezione era la città di Andria, sempre alla sua causa fedele, Andria, dove era sepolta la deplorata sua moglie Jolanda, Andria posta sotto cielo purissimo, in mezzo ad amene campagne, circondata da boschi, abbondante di caccia, quivi, ei fe’ pensiero di ricovrarsi e viver vita tranquilla, tutte le volte che i gravi affari dell’immenso suo impero glielo avrebbero consentito. Né della sua fedele città, e della privata sua condizione facendosi contento, prescelse di edificarsi un palagio sur un facile colle, che a poca distanza da Andria, tra fitta boscaglia sorgeva; ed ivi godersi di que’ piaceri, che la tumultuosa Napoli, la clamorosa Palermo, od altra città più nobile e popolosa avrebber potuto concedergli.

Fu questa, e al ver m’appongo, la origine del Castello del Monte da Federico fatto costruire nel 1237 dell’Era Volgare.

Veggiamo ora quali erano in quel tempo i luoghi ne’ quali sorgeva quella maraviglia architettonica del XIII Secolo. Imperocché fallace giudizio porterebbe della mente di Federico, chi si avvisasse di censurar la scelta del luogo, guardando alla condizion presente della collina e delle circostanti campagne. Oh ben diversa era a tempi di Federico questa regione, siccome egli medesimo lascia intenderlo dalle sue lettere, chiamando dilettevoli, e felici le campagne del suo Castromonte.


[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 9-17]