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Acquaforte di Castel del Monte del 1860 circa

Il Castello del Monte
in Terra di Bari

Studi e pensieri

di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)


XI.
La Congiura dei Baroni

In una delle grandi sale del Castel nuovo, insigne monumento de’ sovrani Angioini restaurato da Re Alfonso d’Aragona, due diverse, ma non disuguali malvage nature di uomini, nei primi giorni del 1483 tentavan di venire in concordia di sentenza in danno di molti.

Era Re Ferrante, che in segreto ed intimo colloquio con Alfonso suo figlio duca di Calabria erasi ristretto, per avvisare ai mezzi di far sicura e durevole la ingrata loro dominazione nel Regno.

Torbido cupo sospettoso, il primo; avventato, superbo ed arrogante, il secondo; entrambi di animo truce e crudele; avari entrambi, e di ricchezze insaziabilmente affamati. Ma in Ferrante suprema arte di impero era il nascondere sotto le apparenze della giustizia, o almeno della necessità il suo malfare; in Alfonso unica ragione al maleficare la utilità e l’ambizione, unico mezzo la forza. Temeva Ferrante, e simulava; né, se non quando del buon successo e della impunità fosse certo, a danno altrui si levava. Spregiava Alfonso i suoi nemici, e nelle rischiose imprese esultava, né per pudore arrestavasi, né per ostacoli recedeva dai suoi mali propositi. C’era del Tiberio nel padre; del Nerone, e del Caligola nel figlio si trovava. Specchiavasi il primo e modellavasi in Luigi XI di Francia; si avea il secondo tolto a modello il temerario Carlo di Borgogna; e i miseri popoli, che il tristissimo governo di re Ferrante imprecavano e maledicevano, a buona ragione temevan del peggio, e paventavano le più dure calamità delle quali eran minacciati dal costui successore.

Ora in quel colloquio acremente, e molto assai più che al men rispettoso figliuol si addicesse, dolevasi il duca di Calabria col padre per la sua mansuetudine, com’ei la chiamava, a tollerare la soverchia e ogni dì più crescente potenza dei baroni del regno.

«Attenderem noi indolenti e imprevigenti che si levino e ci vengon contro collegati ed armati? Come mai soffrir potremo in pace la superbia di casa Sanseverina che in sì gran parte del nostro regno estende sua dominazione? E come soggiacere all’arroganza di casa del Balzo, la qual di tanti ricchissimi stati, e di sì numerosi e forti castelli ha signoria?
Il timore e solo il timore varrebbe a mantenerli in soggezione; ed ove questo non abbiam noi mezzi a destare, vano e inefficace sarà per riuscire qualunque altro argomento a conseguir verace e durevole obbedienza. Nella ricchezza, e nella gran copia di armati che questa consente, sta la potenza dei baroni; nella benevolenza, e nella soverchia arrendevolezza alle loro dimande, sta la nostra debilità. Essi non sentono in verun modo quanta sia la distanza che da noi li divide; epperò si tengono, e ci trattano, e con noi usano come se fossero nostri eguali.
Oh non aveste voi mestieri di associarvi ai traffichi mercantili d’un vostro suddito per uscir dalla miseria che vi affliggeva? E costui nol faceste voi conte di Sarno, e di molte altre signorie? — non lo elevaste tanto alto che or ci schiaccia, e con la sterminata sua potenza ci insulta? — Trasse il grande Alfonso dal fango il miserabile plebeo Antonello Petrucci; ed or numerate, se ve ne basta l’animo, i titoli, dei quali fregiasi la sua casa, i suoi nobili parentadi, le sue ampie signorie, le sue ingenti ricchezze!
Ove ci condurrà mai cotesto improvvido consiglio di arricchire, e di tollerare in pace che ricchi si facciano i nostri nemici? — E il peggio è che essi son tra loro uniti e concordi, e la causa di ciascuno, causa comune estimano e fanno! Or che mai vi affida? Le apparenze forse della forzata devozione, il freno della mendace gratitudine, la magia del nome, lo splendor della corona del Sovrano? In tempi a me pare di vivere che in gran conto sventuratamente non tengonsi le esterne e vuote apparenze; e per la gratitudine poi, e lo amor dei soggetti verso il principe non mi è mai uscito di mente l’aforisma di Cornelio Tacito “infirma vincula charitatis, quæ ubi removeris, qui timere desierint, odisse incipient”.
Io per me temo, i1 confesso; ma solo del vostro timore io temo, che dal por mano alla suprema ragion dello stato, la forza, or vi trattiene. Chi travasi in luogo difficile da perversa fortuna costituito, (lasciate pur ch’io mi permetta di parlarvi secondo mio consiglio) non deve mettersi pei traghetti, e temporeggiare, e adombrar nei ragnateli; ma deve risolutamente provvedere, e audacemente operare, seguane che può; né opera da re forte io estimo il simulare, e il dissimulare, il destreggiare e il fingere. Presso cui è la forza sta puranco il diritto, se pur meglio non convenga il dire, la forza costituire il diritto. Fate, che il Ciel vi guardi! di metter la forza dal vostro lato, e voi vi avrete, senza pensarlo, pur collocato il diritto. E tutte le strade io buone estimo per conseguire uno scopo tanto essenziale alla potenza del principe; perocché de’ mezzi non credo che questi abbia a tener ragione, né fare argomento, allorché ne va della sicurezza, e della incolumità della sua dominazione.
Nuove taglie adunque, e più duri balzelli aumentino il vostro, diminuiscano il censo dei baroni; le mal concesse terre, i floridi stati, i grassi stipendi, per simulati pretesti, ritornino alla corona; dei più possenti e temibili signori ci liberi la industre e spero non immeritata accusa di crimenlese; dei più ricchi la confiscazione e la forzata prestanza. Aspregiateli, umiliateli, disuniteli; né, finché un solo ne rimanga indomato, il flagello, e la scure deponete. Fiavi indice e consigliere il timore, ché di più sicuro non saprei indicarvene. Caggia il Sarno, e con lui il Petrucci; vengan giù i Sanseverino, e i del Balzo, e un plumbeo livello, se fia possibile, adegui al suolo le troppo eminenti cervici dei signori della vostra corte.
Per tal modo soltanto il gran padre vostro faceva forte lo stato che gli diè la conquista; ed a tal fine intendeva quando ei puniva l’arrogante Cotronese, e i suoi nobili congiunti. Così il primo sovrano Andegavense, e così Carlo di Durazzo, e il figliuol suo Ladislao; ed ove il loro esempio non vi paresse conveniente di imitare, badate che mal non ve ne incolga, e che non vi cavin di seggio coloro i quali non ti basta l’animo di abbattere or che la forza ne avete.»

«Ed io pur temo, o figlio»
Ferrante rispondeva (guardando intorno timido c sospettoso)
«pur io temo, o figlio; ma soltanto della tua avventata e rischiosa audacia io temo, che a tristi partiti trarrà per certo la nostra casa. Quella che tu chiami inconsulta mansuetudine altro non è se non prudente simulazione di benigna natura, nei lacci della quale raro è che non caggia chi ripone sua fede. Nelle dolci parole è arte, arte è nel silenzio; c’è arte nel dare e nel beneficare, ed arte puranco nel tollerar l’altrui arroganza; ché il nemico il quale tu spegner non puoi, e tu dei carezzare e vezzeggiare — Cresce intanto, tu dici, la potenza e la ricchezza dei baroni, e troppo talun d’essi fu da me esaltato perché siaci a temere di vedercelo venir contro in caso di mal prospera nostra fortuna. Ma con le ricchezze c con gli onori di pochi nacque e crebbe la debilità di tutti, ché la invidia e l’ambizione generan discordia e tradimento; e giammai più certa e sicura stette la dominazion monarcale quando tra discordi e contendenti sudditi. Il Divide ut imperes, è adagio antico quanto il mondo, vero di secolare, e quotidiano esperimento; né c’è argomento men fallibile della ambizion destata, e della invidia eccitata per promuovere scisma, e dar luogo a contese — Senza di che bene saper tu dovresti non esserci più sicuri strumenti di tirannide, né più risoluti nemici d’ogni specie di novità quanto gli uomini di recente nobiltà, di recente opulenza; e rammentar dovresti quel che di costoro diceva il tuo Cornelio Tacito: Novis ex rebus aucti tuta et præsentia quam vetera et periculosa malunt.
E come vorresti che senza tema e sospetti io me ne stessi della sterminata potenza di casa Sanseverina? Certo io la temo; certo io ne sospetto. Ma siam noi forti abbastanza per dar mano audace ad abbatterla, e così rinunziare all’unico presidio che ai non sicuri principi rimane, l’apparenza della giustizia? — E che parli tu di forza, o di diritto? Tenni io mai di questo ragiono quando di quella ebbi copia? Ma che nel dritto e nelle sue apparenze sia forza tu non devi ignorare; né maggior timore aver devi quanto delle non urgenti ingiustizie; perocché nel principe lo errore è di più fatali conseguenze fecondo che non la colpa e il delitto. Nei tempi felici della ragion politica, nel massimo splendore della difficile arte di imperiare, e tu ben sai ch’io vò dir de’ tempi del mal giudicato Tiberio, fu la giustizia elemento più che argomento di forza pel principe; avvegnaché il popolo in essa vedeva l’unico ma pur prezioso trionfo del suo diritto sull’arbitrio del potente: Leges si majestatis exceperis, bono in usu. Calcolo di ragion di stato, e non consiglio di benigna natura, temperanza di mezzi, e non difetto di forza fu pel magno Tiberio la rigorosa amministrazion della giustizia.
Grande è la potenza di casa del Balzo, io ne convengo, ed insita e veterata in essa la superbia Angioina; ma quella superbia e quella potenza le ha concitati nemici senza fine; e se non fosse della sua colleganza per parentado con tanti signori del reame, poco sarebbe a temere
Del conte di Sarno non sto senza sospetto, ché troppo oltre misura ricco lo vedo e potente, e ben vorrei fiaccarne la potenza dispogliandolo dei suoi stati; ma ragioni non trovo, né appicchi so vedere per ciò fare senza che mal me ne incolga; né tempo opportuno a me sembra cotesto che corre per metter mano nelle sostanze dei baroni; potendo io aver per taglie, e balzelli quel che alla violenza sarebbe con molto dubbio successo certamente contrastato.
In miglior concetto il segretario Petrucci io non tengo, perocché ricco di stato e di moneta oltre ogni termine di uom privato lo conosco, e grande estimo l’ambizion sua, e quella dei conti di Policastro, e di Carinola suoi figliuoli. Purtuttavolta l’ardimento costoro non banno pari all’ambizione, e temono di perdere più che sperino di acquistare. Oltreaché molto mi affida la virtù singolare del Petrucci, e quella non meno rara del Sarno; e questo tu dei ben sapere che la virtù del suddito vuole esser mezzo e non fine nelle arti di impero del principe
Nel Guevara metter fede non posso, ché troppo amico, e per recenti nozze congiunto e collegato è al principe di Altamura; né nel conte, di Lauria io confido, perocché è forse egli il solo che per singolare perspicacia di mente abbia letto nel mio animo, e sembrami ch’ei tema d’essermi io accorto ch’egli mi intenda.
Degli altri, e non son pochi, so bene che star debba io in sospetto ed in guardia; né d’altronde soccorso mi attendo se non dal tempo, a noi giovevole, ai nemici nostri fatale.
Nemico abbiam pure il pontefice, che solo di opportunità ha mancato finora per muovercisi contro — Torbida e minacciosa Venezia che non sarà tarda, né molto si lascerà pregare per ingrossare il numero de’ nostri avversari.
Di casa Medici non temo, ché noi corriam la stessa sorte; e troppo oltreacciò ha mestieri di pace Fiorenza per impigliarsi in esterne contese.
Di Spagna oltre ogni dire io pavento, avvegnacché troppo siami nota l’ambizion prepotente di Ferdinando d’Aragona, e l’ansia di impero di Isabella di Castiglia; e so che di appicchi non avrebber penuria per accorrere al sospirato conquisto del nostro reame; perocché delle papali bolle, e dei diplomatici trattati essi tengon quel conto che giustamente si deve; e per tanto solamente le rispettano per quanto forze non abbiano per proclamarle invalide, e inefficaci. — Guardati, guardati, Alfonso, da casa Aragona; ché sol di colà ho triste pensiero che abbiano a venire i più forti colpi di scure al tuo trono.
Ardente troppo e precipitoso, né molto da te dissimile estimo il giovin Carlo di Francia. Troppo in ogni occasione commetterebbe egli allo azzardo ed all’audacia; epperò sarebbe torrente di micidiale ma breve corso, né vestigio se non di devastazione, e di maledizioni si lascerebbe alle spalle.
Di quanto a te or dissi bene veder tu dovresti, siccome sola ed efficace arte di governo per noi esser debba lo evitare e il non dar causa a qualunque specie di novità; perocché niente di meglio attendano i nostri nemici per insorgere; e molto dubbioso a me appare l’esito d’una conflagrazione di guerra intestina con esterni aiuti, e con ambizioni trasmodanti di principi forestieri.
E che dici mai di novelle taglie, di più gravosi tributi, di confiscazioni, e di condanna nel capo! Un mio nemico darmi per fermo non vorrebbe un miglior consiglio di questo. E li par tempo cotesto per tentar nuova strada; per aspreggiare, come tu dici, per reprimere e conculcare, facendo così crescere il numero degli scontenti che tanto poi agevolmente convertonsi in aperti e furiosi nemici?
Nella sicurezza imprevigente dei baroni star deve l’unica nostra speranza; ché se nel loro animo caggia il sospetto, e destisi il timore, molto non istaranno ad unirsi, e collegarsi, e daremo ad essi quel vantaggio che ora è tutto nostro. Io cerco, ed io ciò mi vo industremente adoperando, che si addormentino i loro sospetti, e i loro timori; vorresti destarli, e volgerli in necessità di aperta ribellione?
A che rammenti gli antichi esempi, quando è ancor sanguinante la piaga che alla nostra casa fece il principe di Taranto, il qual ci pose sull’orlo dell’abisso di nostra perdizione? E dimmi, furon le armi, e la violenza, ovver l’astuzia, e le arti della politica che ce ne trassero incolumi? E a che non ti volgi a mirare qual fine quasi ieri abbia avuto la violenta azzardosa politica del temerario duca di Borgogna. Guai, guai, Alfonso, se tel proponi a modello; ché la temerità tua addiverrà strumento di sicuro trionfo pei tuoi avversari.
Non è già ch’io condanni lo ardire, e riprovi lo esercizio incoercibile della potenza del principe: ma grande differenza io pongo tra il cunctando, e l’audendo; e ritengo il primo più utile e consentaneo alle arti d’impero, siccome quello che meno offre allo azzardo, e crede il secondo più assai giovevole e propizio al popolo, che insorge, e si propone di scuotere il giogo della regal dominazione; perocché, se dà tempo alle difese, riesce impotente, e se sovrapprende improvviso, toglie luogo al consiglio, ed annulla ogni forza.
Bada, bada, o figlio, che ove semina l’ira miete poi il pentimento. Bada che la parola fu all’uom largita men per significare che per nascondere gl’interni sensi dell’animo. — Fa senno una volta, e presta orecchio ai miei consigli.»

Non trovavan benevolo e persuadibile uditore le parole di Re Ferrante; ché il Duca di Calabria, cui quel cauto destreggiarsi del padre non sapeva del buono, ghignando replicava.

«Presto, padre mio, vi accorgerete a qual fine conduca sempre l’indugiare; e tardi vi avvedrete, esser men dannoso il nemico manifesto che il falso amico, e men pregiudizievole il delitto che lo errore. Ci ajuti Fortuna se vuole, e il Tempo se può, perocché ben vedo che al loro arbitrio tutte vi piace commetter le nostre sorti!»

2.

Nella sala maggiore del Castel di Salerno, insigne monumento della dominazion Longobarda, pochi mesi trascorsi dal colloquio che testé narrai, vedevansi riuniti a parlamento tutti i Baroni che levaronsi in armi contro il Principe Aragonese — I timori di Ferrante eran dunque giusti; la temerità di Alfonso avea già portato i tristi suoi frutti; il freno della obbedienza era rotto; le conseguenze e i giuochi della sorte preveder non si potevano — Ed eccone le ragioni. — La cupa simulatrice politica del padre avea più volte riprovata e derisa Alfonso, aggiugnendo irreverentemente che, e non terrèbbene verun conto, e governerebbe a suo modo le faccende dello stato. E, poiché, per inconsulto e intemperante amore paterno, avea Ferrante nelle mani del figliuolo abbandonate le redini del governo, erasi costui dato ad aspreggiare senza misura i baroni, cacciandone taluni dai loro stati, altri taglieggiandone, ed altri minacciando di peggio. — Con superba arroganza usava coi più nobili signori del reame; all’onor delle loro donne non portava rispetto: insolente richiedeva; con mal piglio accoglieva; o quale avesse ad esser da Re chiaramente da Duca di Calabria dimostrava — Inutili i consigli, vani i rimproveri del padre; non curati gli ammonimenti del sapiente suo segretario Giovanni Pontano; spregiati gli avvisi del suo virtuoso fratello Federico — Sul ducale berretto portava per insegna una scopa, sull’arcione della sella avea per emblema le taglie, e voleva dire, esser suo intendimento il mondare il regno dai ricchi, e percuoter tutti con le taglie. Or quel che avvenne ben si poteva prevedere, ed erasi previsto.

L’ambizione o l’invidia avea disunito; l’interesse e la paura ricongiunse e collegò i minacciati Baroni. La necessità della comune difesa avea fatta obliare ogni rivalità. — Soffiò d’iniqua ragione il Pontefice nel fuoco — Destaronsi le antiche controversie dei Principi Italiani — Sterminate ambizioni irruppero, e presero forza dal silenzio dei congiurati — La guerra intestina, alla quale in breve venne a congiungersi la guerra esterna pose in orrenda conflagrazione tutto intero il reame.

Se ne fè accorto l’iracondo Duca di Calabria, e pose mano al punire, all’imprigionare, al martoriare, al confiscare; cominciando dalla occupazione del contado di Nola, rinchiudendo in Castelnuovo la contessa e i suoi figliuoli. — Levaronsi allora in armi i Baroni di Casa Sanseverina, e quei di casa Del Balzo, i signori del Vasto, di Acquaviva, di Nardò, di Melito, e di Lauria, con tutti i loro parenti ed amici; ed ebbero compagni il Conte di Sarno, e il segretario Petrucci, coi suoi figliuoli.

E costoro coscrisser milizie, munirono i loro castelli, fortificarono i loro palagi; e in un tratto si vide il regno tutto in tumulto, le strade rotte, tolti i commerci, chiusi i tribunali, ogni luogo pien di disordine e confusione.

Dissimulava Re Ferrante la tremenda ira sua; l’ardente bramosia di vendetta nascondeva; dolevasi mansuetamente ch’egli non fosse ben conosciuto dai suoi bene amati baroni, e protestava al Principe di Bisignano Girolamo Sanseverino, esser suo desiderio di starsene in pace con tutti i signori del regno, e pronto dicevasi al venire agli accordi che gli sarebber proposti.

Durissimi, ed alla regal dignità incomportevoli ne proponevano i Baroni, e sol perché avea fermato in animo di non tenerli, senza contrasto Ferrante li accettava. E comeché coloro pretendevano, venisse in Salerno il Principe Federico a segnare il trattato in nome del padre, giurandone la osservanza, nemmeno esitava il re ad inviar colà il figliuolo; il quale nella gran sala del principesco castello, tutta piena di baroni e cavalieri, sur un trono per lui elevato, con grande onoranza or se ne sta a sedere.

Fattosi innanzi a lui il Principe di Salerno cominciò con molta veemenza di eloquenti parole a parlargli, e consigliargli, prendesse dalle loro mani lo scettro che gli afferivano, esautorando il Duca di Calabria, indegnissimo per universal sentimento di ascender sul trono, essere, disse, in tutti fermo il proposito di difenderlo con armi, danaro, e sangue da qualsiasi forza contraria. Giusta, aggiunse, terrebbero i popoli quella impresa, che già il Sommo Pontefice proteggeva e benediceva; che ad un forsennato e avaro tiranno sostituiva un principe saggio e virtuoso, il qual tanto di bene già prometteva alla desolata loro patria. — Non temesse la indignazione del padre, perocché costui avrebbe certamente secondato l’universal desiderio de’ popoli e sarebbesi tenuto avventurato e superbo di avere egli generato tal figliuolo, che per giudizio di tutti era reputato degno del serto regale. Rammentasse per ultimo essere egli nato in questo regno per la salute dei suoi popoli, e dover quindi prender pietà dei loro mali e delle miserie loro, soccorrere i loro figliuoli, sollevar le speranze delle madri, né in verun modo dovesse permettere che, da durissima necessità sospinti, avessero i Napolitani a rivolgersi per ajuti a principi forestieri, che con barbare soldatesche, verrebbero a far conquista del travagliato reame.

Con tanto ardore e sì efficaci parole parlò il Principe di Salerno che ciascun dei circostanti avvisavasi non poter Federico in modo veruno rifiutare il dono nobilissimo che a lui si faceva — Ma questi, cui non muoveva ambizione, ma verace e rara virtù, dopo averli cortesemente ringraziati della generosa offerta, e molto più della benevolenza di che gratificavanlo, pacatamente rispondeva [che] Volentieri dalle loro mani egli il regno accetterebbe se in essi fosse congiunto al potere il diritto ad offerirlo; ma non potendolo egli acquistare, se non violando le leggi dello Stato, la volontà del padre, e le ragioni del fratello, consentir non poteva, che, per mantenerselo poi con la forza, avesse dovuto ricorrrere alla fraude ed alla violenza. Essere il regno pieno di tante fortezze e presidî, che appena la vita di due re valorosi e avventurati basterebbe a vincerli ed espugnarli; massimamente che buona parte dei baroni avvezzi alle armi seguivan le insegne del Duca di Calabria; il quale, comunque dai popoli malvisto, era dai soldati, coi quali s’avea a combattere, grandemente pregiato ed amato — Considerassero che le gentili e cortesi maniere, delle quali dicevan di volergli bene, e le aspre e burbere, per le quali eran tanto uggiosi ed esasperati contro il duca, provenivano, più che da dissimile natura, da disuguale e diversa educazione, e dalla diversa condizione di vita, cui essi miravano, ed alla quale eran serbati dal nascere; e che se mai potesse egli ascendere sul trono, sarebbe forse obbligato a smettere gli antichi mansueti costumi e prendere quelli del fratel suo per confermar lo stato, maneggiando guerre, imponendo gravezze, infliggendo punizioni ai torbidi novatori, facendo infine tal governo, per lo quale era oggi da essi odiato il duca di Calabria — E bene ponderatamente per ultimo riflettessero che le novelle concessioni, e guarentigie, delle quali era egli venuto, per voler loro, e per paterno mandato a confermare i capitoli, ogni, ragion toglievano a dubitazioni, e sospetti ulteriori; epperò desser luogo, pregava, a più saggio consiglio; la pace accettassero, più ad essi giovevole che al sovrano; e non permettessero che nelle contese sempre maneggevoli della famiglia entrassero, arbitri interessati, e dannosi compositori i forestieri.

Belle e nobili parole furon quelle del buon Federico; ma agli uditori, che la malvagia e bugiarda indole di Ferrante conoscevano, e la perfida e violenta natura di Alfonso non ignoravano, riuscirono oltremodo ingrate e moleste.

Del passo già dato luogo esser non ci poteva a pentimento; il dado era tratto, il segreto era ormai palese; e il simulare né giovava, né era più possibile. Laonde, a non averlo funesto rivelatore, ed aspro nemico, fecero essi intendergli, che, comunque forte loro ne dolesse, erano dalla necessità forzati, poiché l’offerta loro ei ricusava, a ritenerlo, in onorata prigionia, entro le mura di Salerno. Stesse pertanto di buon animo, ed in pace sel portasse; ché fra non molto essi avean fede di mostrargli siccome il buon diritto e la costante volontà di chiamarlo al trono avesse pur compagna la forza e il potere di farlo — E per tal modo di ambasciadore fatto prigione, rimase il buon Federico ad attendere quel che portassero i tempi, di se sicuro, del padre in ansia, delle sorti del regno dubbioso.

3.

Solo per le marmoree sale del Castello del Monte, pria del giorno si aggira il principe di Altamura Pirro Del Balzo — Pochi signori gli sono intorno in gravi pensieri immersi; ma che molti altri ne attenda, per dato convegno, sono argomento le vedette che dall’alto del1e torri del Castello van discoprendo, nella incerta luce del mattutino crepuscolo, se alcun ne appaja nelle sottoposte valli che verso il castello si avvii. Ed ecco tra l’alba e l’aurora, dalla parte di Canosa e di Barletta, da quello di Ruvo e di Corato, da Andria, da Trani, e da Bisceglia apparire avvicinarsi, e giungere un gran numero di baroni di casa Sanseverina, di casa Del Balzo, coi loro scudieri, e coi loro familiari; i quali baroni ansiosamente attesi, son dal principe di Altamura affettuosamente accolti — Son cupi, sospettosi, guardinghi; gravi pensieri li agitano; brevi parole si scambiano; e tra gli affetti e le passioni che nel volto rivelano predomina l’ira, l’odio grandeggia, la brama della vendetta si appalesa.

Un aspetto novello ha oggi assunto l’antico castello di Federico di Svevia; che non risuona di latrati di cani e di grida gioiose di cacciatori, non è più triste del silenzio della prigione, non insozzato dalla presenza di barbara soldatesca, non allegrato dalle feste dei sovrani — ma è cupo e severo pei segreti colloquj dei congiurati, e pare che, come gli ospiti che accoglie, vorrebbe anch’esso in tutta sua mole nascondersi tra le foreste dei vicini monti.

Cbi son mai cotesti baroni? — Tranne pochi assenti, tutti i signori che si levarono in armi contro l’esecrato governo di Ferrante e del duca di Calabria — A che mai qui convennero? Attendi che tel dica il veemente discorso che il principe di Altamura, allorché tutti giunsero e gli furon d’intorno coloro che avea convocati nel Castromonte, ad essi rivolge.

«Son dodici anni trascorsi, o signori, che in queste sale, a gioconde feste per le bene auspicale nozze della figliuola mia Ginevra col marchese del Vasto voi foste convitati; ed in que’ giorni avemmo con l’onore della presenza la speranza della concordia con Re Ferrante e con tutta la sua famiglia — La gioia domestica di un barone non parve allora troppo umile occasione al principe per non venirne a parte, e tenersene, onorandola, onorato. Le sue parole eran dolci, carezzevoli, umane, i suoi modi blandi, e benevoli, la prosperità e la contentezza nostra sue proprie diceva di stimare; e più che prenderci nella sua proiezione, pareva che avesse in animo d’implorare la nostra per sé e pei suoi figliuoli — Che le amarezze del passato tempo avesse obliato, e, smesso dal cuore il sospetto, a più civile e sincero governo avesse egli drizzato il pensiero, a voi tutti allor sembrava, e lietissimi ven tenevate, e voti aggiungevate per la longevità del buon principe, che tante speranze di bene aveva in voi destate. Quelle esterne fallaci apparenze il rammentate? me non ingannarono, o signori; né credo che le parole che allor profferii abbiate dimenticate. Niente Ferrante ha nelle avversità imparato e niente obliato — Starà sempre la infame uccisione del mal cauto e mal confidente principe di Taranto a documento della prepotenza della vendetta che l’animo gli rode — il pensiero è sempre in lui dalla parola diverso; ed allora maggiormente nemico e prossimo a nuocervi dovete temerlo quanto più benevolo umano, e lusinghier vi si porge. —
Ebbene, o signori, se giuste e ragionevoli dimostrò la posteriore esperienza. quelle mie previsioni, che allor vi sapevano del permaloso, e del pavido, confesso che di più giuste e ragionevoli or non saprei trovarne per divezzarvi dal perdurar pervicaci a metter fede nei scaltriti blandimenti dell’artifizioso Ferrante — Il quale, se pace, e concordia or vi propone e vi dimanda, ciò avviene solo perché non pari alla guerra ei si ritiene; se di un impenetrabile velo, com’ ei dice, vuol coperti i passati errori, intende soltanto delle sue perfidie; ché pe’ falli di crimenlese, il diritto, senza dirlo ei si riserva di squarciar quel velo, e discuoprendoli, punirli quando che sia. Né più sulle patrie leggi, e su’ giurati patti il suo diritto appoggia, ma sulla barbara forza di mercenarie milizie, e sul favore della minuta plebe, sempre pronta a por mano al sacco, ed a levarsi furibonda a danno dei pacifici cittadini.
Quale egli sia, e qual sia il figliuol suo duca di Calabria non penso ch’io debba dirlo a voi, che per triste sperimento di perfidie e di soprusi, di spoliazioni e di ingiurie da anni molti ne avete conoscenza; questo solamente vo’ che sappiate, e ben vi fermiate nell’animo, non poter mai correr tempo che basti perché costoro dimentichino, o perdonino il nostro insorgere, e il nostro persistere nelle armi, le nostre alleanze forestiere, la chiamata del Lorenese, lo intervento del Pontefice, la prigionia dell’imbelle Federico, il rifiuto delle loro promesse, e tutte le umiliazioni che da noi ebbero a patire e tollerare. La necessità quindi, o signori, ove pure ogni altra ragion mancasse, e tanto ce ne sono, di pubblica utilità, ci forza a rifiutare le proposte condizioni della concordia; perocché le nostre vite, più che i nostri stati ne verrebbero commesse allo arbitrio di chi mendace e spergiuro per pruova conosciamo; e le armi, bene il sapete, o signori, giuste diventano, e santa la causa si rende, allorché per difesa quelle brandisconsi, e quando alla propria incolumità quella intende.
E lungi non siamo, a me sembra, dal sospirato momento della vittoria, ché tutto finora ci arrise e ci andò per bene. Sta per noi Innocenzio, né di soli spirituali ajuti ci conforta, ma le sue armi temporali alle nostre congiunge, ed in migliori mani vuol confidato il governo del nostro regno — Roberto Sanseverino con oste poderosa, a soldo della Veneta Repubblica, batte ogni giorno il duca di Calabria sui confini del regno, e già minaccia di invadere gli Abruzzi, e penetrare e porre sua stanza in Terra di Lavoro. Con gli ajuti di Francia promette il duca di Lorena di venirsene quanto prima alla conquista degli stati, che le non mai prescritte ragioni di casa d’Angiò in lui trasfusero. Una intervenzione armata di Aragonesi e Castigliani potrà probabilmente aver luogo in danno de’ nostri principi; e quantunque con me voi tutti rifuggiate dalla idea d’un ajuto forestiero, che intenda a conquista, son pur tali le nostre condizioni, che anche il Turco, che testé fugammo da Otranto, meglio mi par ci convenga che non l’iniquo Ferrante e l’ infame figliuol suo Alfonso — E che bene intenda Ferrante il manifesto volgersi a male della sua fortuna, chiaro argomento vi porga l’insister che egli fa per la pace, e i ripetuti congressi ai quali ne ha chiamati in Miglianico, in Melfi, in Venosa.
Credete voi che sì tenero ei fosse per la cessazione della guerra, se men torbidi per lui, e men perigliosi alla sua casa girassero i tempi? Signori, gran differenza io scorgo nella storia delle politiche rivolture fra il trionfo della causa del popolo che insorge, il despota esautorando, e quello del despota che gl’insorti popoli vince e debella; imperocché se il primo sempre generosamente oblia e perdona, giammai è in sua vittoria temperante e umano il secondo; ché né sé sicuro estima, né di aver vinto quasi gli pare se non quando tutti e sian pur mille, non tolse di vita coloro che insorsero.
Il dado è tratto, o signori; le spade levammo audaci e minacciosi contro il nostro principe, e tal cosa operammo che né perdono ammette, né a vendetta può sfuggire. — Iddio e gli uomini la nostra causa ajutano e soccorrono. — Impossibile è la conciliazione per difetto di fede nel nostro nemico. — Or che ne rimane se non gettar via la guaina, giurando di non deporre le armi, che fuori del regno non abbiam cacciata la famiglia tutta dei nostri tiranni?»

Un grido unanime e concorde levossi per le echeggianti sale del Castel del Monte, e quel giuramento fu allor profferito che un mese dopo nel 11 settembre 1486, nella chiesa di S. Antonio di Lacedonia, tutti i baroni congiurati, la mano poggiando sull’Ostia Eucaristica, in presenza di notai, solennemente ripetettero.

4.

Nella gran sala detta del Trionfo in Castelnuovo, che fu già teatro alle splendide feste del primo Alfonso d’Aragona, una innumerevole folla di signori, e di dame vedevasi raccolta in una sera dell’ottobre del 1485 — Tutto era propriamente regale e grandioso in quel luogo ed in quell’ora; e che ad una grande solennità intendesse quella straordinaria riunione di baroni ben si poteva argomentare, veggendo tutli i grandi uffiziali della Corona intorno al regal trono, sul quale siedeva il vecchio Ferrante circondato dai suoi figli, dagli ambasciatori dei principi suoi amici, e dal Nunzio del Pontefice. Né eran solamente i grandi feudatari del regno che facevano nobile e splendido quel convegno; ché più assai splendido e nobile il rendevano gl’insigni uomini che dettero onore a quel regno. Il Lascari, il Bessarione, il Trapezunzio, l’Argiropulo, il Filelfo, il Panormita, il Pontano, il Valla, il De Puteo, l’Altilio il Campano, il Cavaniglia, il Summonte, il Galateo, il Riccio, l’Acquaviva, e con essi il giovane Sannazzaro e il suo maestro De Majo tal davan lustro di verace nobiltà a quella Corte, che altra simile non c’era stata, né allor si trovava nel mondo posteriore all’evo Romano — Imperocché le scienze e le lettere più nobili ed operosi cultori, e più degni rappresentanti del senno e della dottrina del secolo XV non avevano allora in Europa — L’aristocrazia dello ingegno trovavasi in quel luogo a fronte di quella dei natali, e da qual parte stesse il lustro maggiore non si vuol dimandare.

Erano nozze pressoché regali che a quella splendida festa davan causa. Marco Coppola figliuol del conte di Sarno sposava, per graziosa sovrana concessione la figliuola del duca di Amalfi, nipote di re Ferrante; e quelle nozze esser dovevano quasi pegno di concordia e guarentigia di pace tra il principe e i baroni della sua corte.

Lieta e gioconda era la occasione di quel convegno; ma pur su tutti i volti dei circostanti sincera non compariva la gioia, franco non si mostrava il sorriso; il sospetto invece e la diffidenza erano impressi sul viso di ognuno. Ella era una gioja comandata, una festa di obbligo, ed avea pur l’aria di una esecuzion di giustizia che di una partecipazione ad un piacer comune. Torbido era Ferrante e cupo; il sospettoso e pavido sguardo intorno girava, e chiaro mostrava siccome egli andasse noverando gli astanti.

Ilare e giulivo il duca di Calabria si mostrava: ma era la contentezza d’un animo malvagio, che gode, e s’inebbria in un pensier di vendetta. Afflitto e quasi vergognoso miravasi il buon Federico, aborrente, per sua nobile e benigna natura, da ogni fatto che avvilisse la dignità del principe, che maculasse la lealtà del cavaliere, e la probità del gentiluomo oscurasse.

Or donde mai procedevan que’ sospetti, o di qual fonte uscivan que’ timori! Eccotelo.

Con varia fortuna erasi dapprima su’ confini del regno venuto a giornata e combattuto tra il duca di Calabria e Roberto Sanseverino: ed Aquila più volte presa e più volte perduta avea date e poi tolte le speranze della occupazione degli Abruzzi. Nemici scoperti e palesi esser non volevano i Veneziani, ma di segreti ajuti non facevan mancare la causa dei baroni napolitani — Buone speranze dava il duca di Lorena di venir nel regno con forte armata, ma negli indugi si perdeva, ed attendeva che coloro, che sue parti eransi dati a favorire il chiamassero ad opera compiuta, per raccogliere il frutto delle loro fatiche, de’ loro sacrifici — Nicchiava il pontefice, e dubitava: ché troppo facilmente erasi levato in armi contro Ferrante, e troppo non confidava nelle forze, nel senno, nella concordia dei baroni.

Irritato frattanto l’Aragonese per la pervicacia di costoro, e pensando fosse venuto pur tempo da deporre le arti, e le simulazioni politiche, si reca con solenne pompa nel Duomo di Napoli, e fatta ivi leggere una sua veemente protestazione contro Papa Innocenzio, fa precetto a tutti i Vescovi del regno, pena la confisca de’ loro beni, di dar favore alla sua causa con tutti gli argomenti che la religione metteva nelle loro mani; ingiungendo loro di recarsi alla sua corte. Arma poi un nuovo esercito, che il duca di Calabria conduce, e che poscia ch’ebbe superato il Sanseverino, se ne va difilato a cinger Roma di assedio.

Spaventato il Pontefice chiede ed ottiene pace onorata, e pace pur chiede e consegue pe’ ribellati baroni; e quella tanto sospirata pace ha luogo nel 12 agosto 1486 con grande solennità, con l’intervento del Nunzio, degli ambasciatori di Spagna e di Sicilia, ed è in nome di Ferrante accettata e giurata dal suo segretario Giovanni Pontano.

Che nella fede di Re Ferrante mal riposasse il principe di Salerno ne dette argomento la sua uscita dal regno, nel quale ritornare mai più non volle fino a quando, alla bramata vendetta anelando, si fece confortatore, e duce di Carlo ottavo nella impresa, che verrò fra breve narrando. Tanto fu poi il dolore che sentì per quella malauspicata pace il marchese del Vasto Pietro di Guevara, che per la rabbia e la indignazione ne perdette la vita al primo annunzio che n’ebbe.

Non così gli altri malcauti Baroni, che, deposte le armi, corsero tutti a’ piedi del clemente Sovrano; il quale, con ogni maniera di blande parole, e carezzevoli atti, li riprese nella sua regal grazia. E per dare pegno non dubbio di sua riconciliazione ai suoi beneamati baroni, si degnò consentire che una sua nipote, figliuola, del duca di Amalfi moglie si facesse del figlio del conte di Sarno.

Coteste nozze adunque intendevano a dar fede ai baroni, e farli sicuri della regal benevolenza. Ma troppo costoro la ribalda fedifraga sua indole per dure pruove conoscevano, e non ignoravano quanto fosse crudele, vendicativo, e spergiuro il duca di Calabria; epperò temevano, dubitavano e col lutto e coi palpiti nel cuore a quelle regie feste del Castelnuovo trovavansi presenti. E ne avean ben donde.

Infatti lungamente avea Ferrante, ad istigazione del duca di Calabria, meditata e preparata una di quelle guerresche fazioni che or si dimandano colpi di stato; e che si propongono di cangiar norme politiche, esautorando uomini potenti, ovvero innovando istituti governativi. La fraude più che la forza, l’inganno meglio che la violenza, la seduzion mercenaria dei soldati e della plebe vendereccia operano così fatti mutamenti, che la sete del sangue, e la cupidigia dell’oro fanno sempre tremende e fatali. Il perdono, ben sel sapeva Ferrante non gli aveva vôlti in amici i nemici; e costoro sol perché non si sentivan forti, si mostravan cangi e raumiliati, e tempi migliori attendevano per tentare con men dubbiose speranze la male andata impresa. Unico, per antico saggio dì tirannide, gli parve mezzo di sicurezza lo spegnere i suoi nemici, sicché uscendo di vita, e cessassero essi dal nuocere, e togliessero il malvezzo ai nobili superstiti d’insorgere contro la regal dominazione. — E comeché niente ei facesse se non cautamente ed avvedutamente, ai lazzari, che bramava ausiliari, diè giocondità di feste popolari, ed abbondanza di grascia, ai soldati diè premi, e promesse, a tutti fu largo di lusinghieri parole, e carezzevoli maniere. Né di ciò facendosi sicuro, cinse la reggia di soldati Albanesi, una mano ne pose nella Selleria, e nei quartieri bassi della città, e fece tener pronti gli artiglieri per ogni eventualità di troppo gravi tumulti. Quelle apparenze di guerra avean compresi i cittadini di paura.

Ecco perché grandemente temevano i convitati, ed ecco perché questa festa aveva, come già dissi, il sembiante di un giudizio capitale. Infatti appena fu giunto nella gran sala del Castello il conte di Sarno col figlio, e tutti i suoi nobili congiunti, accompagnando le loro donne ricchissimamente vestite; facendo sfoggio, come narran le cronache, di quanto argento, oro, e gemme avea ragunato in tutta sua vita, ecco entrare il brullo ceffo di Pasquale Carlone castellano, che co’ suoi sgherri mette le mani addosso al Conte, ed a tutta la sua famiglia, e fa tutti prigioni, non escluse le donne e i familiari. E imprigionò parimenti il segretario Petrucci, i suoi figliuoli, il conte Burello suo cognato, e il capitano Impon suo amico. Né di ciò contento, fece Ferrante in suo pro confiscare tutte le ricchezze che avean seco recate quegli infelici, perfin le vesti, perfino le mule.

L’enormezza del fatto infamemente più che inverecondamente compiuto nella propria casa del Re, per suo scelerato comandamento, alla sua presenza, sotto l’occhio di tutto il regno quivi dai suoi baroni rappresentato, ed al cospetto degli ambasciatori e del Nunzio Apostolico che avean segnato il trattato di concordia, diè luogo ad immensa indignazione, ad indicibile timore, a dolor senza termine; né si udiva altro che doglianze di amici, pianti di parenti, lamenti di familiari, gemiti di donne e minacce di iniqui scherani. La insolenza poi degli armigeri andò tant’oltre che ugualmente manomettevano quei che s’avevano a sostenere, e quei che s’avevano a rispettare; chiudevan le porte, alzavano i ponti, tutto quel luogo empiendo di tumulto e confusione. E la fama, che in un subito per la città se ne sparse, rendette attonita la plebe, timorosa la nobiltà, disperati i baroni. Ecco quale era la pace di Re Ferrante, ecco avverata la predizione dello accorto principe di Salerno, e del chiaroveggente principe d’Altamura!

5.

Per le eleganti sale del Castello del Monte vedevasi in un giorno dello aprile del 1488 aggirarsi un giovane signore di nobile e benigno aspetto in compagnia di una bella giovanetta cupamente pensosa. Eran soli in quel luogo; ché i loro seguaci e i familiari stavansene ad attenderli nella corte, e nello sterrato del Castello.

La magnificenza dello edificio, e la eleganza dei suoi arredi di non turbato piacere toccavan l’animo del giovane; le reminiscenze che quelle sale destavano, foschi facevano e dolorosi i pensieri della sua compagna.

Era il buon Federico d’Aragona, al quale avea Re Ferrante donata la signoria di Andria che avea pria dichiarata, per fellonia del feudatario Del Balzo, (comunque solennemente ricevuto in grazia) devoluta al Sovrano. E per temperare alquanto l’incomportevole rigore di quella punizione, avea consentito alla figliuola del dispoglialo barone le regie nozze col principe Federico, dandole per dote la Contea di Andria col Castello del Monte. Fu quello, dopo le inique condanne, le uccisioni e le confische degl’imprigionati baroni, l’ultimo atto della regal vendetta; per la quale tanti cangiamenti di baronale dominazione compironsi, che ne fu affatto mutata la ragion feudale del regno. E così avvenne che alla casa Del Balzo, la quale dopo i Svevi e gli Angioini Sovrani ebbe signoria del Castello del Monte, successe, decorsi 188 anni, la dominazion della casa d’Aragona; ritornando, per disonesta cupidità d’impero, al Sovrano quello stato, che per generosa larghezza di animo, erane già due secoli prima uscito.

Bello, gentile, e, sopra tutti i giovani della real corte, grazioso ed amabile era il principe Federico; sicché sinceramente lo stimava, e grandemente n’era presa la giovane Isabella. Ma di sangue De1 Balzo ella usciva, e i fasti della sua nobile casa troppo eloquentemente dalle sale di quel Castello eran narrati, e di duolo indicibile le riempivano il cuore. Oltre a che nello entrare che avea fatto quel giorno, nell’atrio del Castello, erale venuto innanzi quasi arrogantemente, il nuovo stemma di casa Aragona collocato sul frontone della porta, in luogo di quel dei Del Balzo, che ella ci avea sempre veduto fin dalla prima età sua; e quella vista erale parsa la distruzione d’ogni memoria della sua nobilissima famiglia. — Usciva appena dalla infanzia quando, diciassette anni prima, avea ella assistito alle pompose nozze di sua sorella Gisotta Ginevra che si fe sposa del grande Almirante marchese del Vasto; e rammentava con il rammarico d’un leso orgoglio, che a quelle splendide feste del Castromonte eran convenuti ad onore di Pirro suo padre, due figliuoli del Re, i grandi uffiziali della Corona, i signori tutti di casa Sanseverino, e i Caracciolo, gli Orsini, gli Aquino, ed altri molti feudatari del regno, molti vescovi e dottori, e molti legati di principi forestieri. — Ad ammirazione, e ad invidia era allor segno la potenza di casa Del Balzo; né per fermo alcun c’era tra’ convitati che avesse potuto allor prevedere che tra pochi anni infranta sarebbesi quella potenza, oscurato si sarebbe lo splendore di tanta nobiltà. — E in quelle sale erasi ancor compiuto il matrimonio di un’altra sua sorella con Federico III° Re di Sicilia, cui parve non disdicevole condizion nuziale lo assumere tra’ regi suoi titoli quello di casa Del Balzo.

Ed ora in qual diverso aspetto ella rivedeva Castel del Monte! I trentasette feudi che ingemmavano la ducal corona di Pirro Del Balzo, eran passati in alieno dominio, ed ella, quasi opima spoglia della regal vittoria, vedevasi concessa al figlio del vincitore, al figlio del distruttore della sua famiglia! —

Ecco i pensieri che conturbavan la mente della giovane visitatrice di Castel del Monte, che per nobile alterezza di animo rivelar non voleva, ma che, per senso di amore, ignoti non restarono al buon Federico.

«Nel tuo cuore io leggo, Isabella» questi le disse finalmente «e del tuo dolore ho pena: ma non oltre i termini di ragione a te è concesso il dolerti. Oh che è ella mai la umana potenza da doversene si amaramente rimpianger la perdita? Tende ella forse ad aumento di felicità? — Bene tu sai, o mia diletta, nella potenza non può ingenerarsi lo amore, ma solamente il timore e la invidia; e che nel maggior timore, e nella maggiore invidia destata ravvisar si possa avventurosa condizion di fortuna, tu per certo nol pensi. Feudi molti e castelli ebbe per secoli la tua casa, numerosi obbedienti vassalli, audaci armigeri, copia grande di dovizie; eppur questo che al volgo appajono desiderabilissime cose, valsero forse a render felici quelli tra’ tuoi maggiori che sen fecero strumento di violenti conquisti, ed argomento di stolte guerre ai loro Principi, di usurpazione, e dominazione su’ finitimi? — Beata, e per ogni verso bramabile condizion di vita trovaron per l’opposto coloro che la potenza rivolsero al beneficare, e gratificare altrui; avvegnaché, se dentro brevi confini si allogano i veri bisogni della materiale vita, infinito e senza termini è il bisogno del beneficare, e giammai di aver fatto abbastanza può l’uom reputare, nel soccorrere o sovvenire i suoi fratelli. — E per buona fortuna in rispondenza di suoi mezzi, può ogni uomo qual che sia, operare il bene; né la potenza del senno e del buon volere sono a tenersi da meno di quella delle dovizie e degli altri doni della sorte.

Della tua casa mal giudichi compiangendola; della mia assai mal penseresti, invidiandola, perocché c’è mai grandezza nel mondo, per salda che ti paja, per ferma e tegnente che si dimostri, la quale eterna, o almen diuturnamente durevole poi si manifesti? — Qual fede nel suo buon genio può metter mai la stirpe Aragonese in Napoli, che quella di Spagna, che Carlo di Francia, che il Pontefice, il duca di Milano, la Repubblica Veneta minacciano — che ha nemici i baroni, e poco affezionati i popoli; e che già forse visse tutto quel tempo che il Ciel di vivere gli permise? — Cessa, cessa, o mia diletta, dal contristarti per la scaduta grandezza di casa del Balzo, or che tu se’ fatta di casa Aragona; ché in cosa dell’alta tua mente non degna porresti il tuo dolore; ed abbiti nello amor mio, e nella costante mia fede tutto quel che più non trovi nella potenza della tua famiglia.»

Piangeva, ma non era più duol nel suo pianto, la buona Isabella. — E quando, uscendo dal Castello, rivolse senza quasi pensarci, lo sguardo sullo stemma della porta, trovò che anche quel nuovo argomento di conquista di casa Aragona era di colassù discomparso, per amorosa veggenza del suo gentile consorte.


[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 115-150]