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Storia della Città di Andria ...

di Riccardo D'Urso (1800 - 1845), Tipografia Varana, Napoli, 1842, pagg. 168-172

Libro OTTAVO

Capitolo I.

Relazione delle prove di fedele sudditanza
date dalla Popolazione Andriese
al suo Re Ferdinando IV. nel 1799.

Dovendo dare un breve cenno su quell’ultima sventura, a cui soggiacque questa fedele Città, non devo tacere, che la penna al suo uffizio si nega, ed il pensiero rifugge anco dall’abbozzare quel quadro di lutto. Questo sebbene avvenuto pria del mio natalizio; pur tutta volta la troppo fresca tradizione mi spaventa. Sorto dalla evoluzione del tempo l’anno testè segnato, sorse per gli Andriesi un’altr’epoca di dolore. Non si vide appena vampeggiare la folgore della discordia ne’ confini dell’Italia, che tosto un funesto presentimento incominciò ad intorbidare le menti de’ figli della pace. Indi a poco la tempesta della ribellione si avanza; e questo Regno è preso da politica convulsione. Andria però non mai degenere agli antichi esempli di fedele sudditanza, alle prime voci di dover frangere le sacre leggi di legittima dipendenza, di dover abbandonare colui, che dal Cielo era stato costituito a regolare i suoi destini, sentissi rabbrividire. E semprepiù considerando che il legittimo Sovrano è il padre della comune famiglia; e che un cristiano cittadino non debbe, quando costui soffrisse oltraggi, obbliarlo, perché altrimenti offenderebbe le leggi primordiali della Natura, e della Società, francamente risolse non abbandonare il suo Re.
Difatto quando avvertì essere alle spalle il nemico, qui elevossi un grido generale, il quale prese forma di giuramento, di non doversi mai cedere all’ingiusto invasore. E quando la forza e la violenza avessero cercato farsi dritto; gli Andriesi anche con la forza, o sia colla più viva resistenza avrebbero date le ultime prove di costanza, offrendo un volontario sagrificio delle loro vite al nome sacro per essi di Fedeltà. Quindi sollecitamente si visitarono le mura ed antemura; ed alle porte sfaldate si adattarono analoghi rinforzi. Si approntarono armamenti, e munizioni. Eccetto i vecchi impotenti e gl’impuberi, tutti gli altri corsero spontanei sotto il vessillo della gloria; imbrandendo armi per usarle al bisogno. Disposte così le cose, si divisero le fazioni; e ciascuna prese il suo posto. Si chiusero le quattro porte [1], e rimase la Città da vigili guardie custodita. Gli Ecclesiastici nel generale trambusto con processioni, con digiuni e con altre opere di penitenza cercarono dal Cielo il conforto, ed il riparo all’inevitabile eccidio. Quando verso il tramonto di quel giorno, che va tinto delle lugubri eclissi della morte di un Dio, si udì, che le truppe Francesi erano già pronte da Barletta a portarsi in Andria, per ridurre colla imponenza militare alla loro ubbidienza questa Popolazione. A tale annunzio gli Andriesi non paventarono; e né le stragi, successe in altri luoghi, diminuirono per poco nei loro petti l’ardire ed il coraggio.
Spuntò finalmente, nel giorno 23. Marzo, gravida di sangue e di gemiti la trista aurora; e si avvertì dalle guardie avanzate di qui un calpestio replicato, fragore di armi, e nitriti di cavalli. Fu l’indizio che già le truppe nemiche avevano occupato il dintorno della Città; ed a grandi plutoni si disponevano di riscontro alle quattro Porte. Quando dal presidio ch’era nel Campanile del Carmine, tra gli equivoci chiarori del giorno si scoperse esser l’oste vicino alle mura; volendone dar segno alla Città, fece una scarica, alla quale si rispose dal disotto dai Francesi con vivo fuoco. All’istante tutti i sacri bronzi della Città battuti, annunziarono con tremendo tintinno la presenza del nemico. Ad un tratto aperte tutte le case de’ Cittadini si videro le madri correre sollecite ad incoraggiare i loro figli ne’ rispettivi posti; le mogli i loro consorti affinché non avessero abbandonata la difesa di una causa tanto giusta. Ma già la scarica da tutt’i punti era veemente e gagliarda.
Il presidio della Porta della Barra, perché ben munito, presentava di continuo la eruttazione di un’artiglieria infernale, consistente in tanti mortaletti carichi a metraglia, i quali per l’affusto erano attaccati alle travi. Questo posto represse con infinita strage più volte l’audacia de’ Francesi, i quali cercavano agglomerati in massa, guadagnare la Porta. In questo mentre tutta l’aria rintronata echeggiava ai continui vomiti di fuoco marziale. Oltre alle palle dei fucili, volavano bombe, e granate con scoppii spaventevoli. Allora il presidio, ch’era in difesa della Porta del Castello in osservando, che dall’artiglieria francese si erano tirati due colpi da cannone per diroccarla [2]; diede ordine al nostro artigliere, che avesse manovrato [3]. Questi prestamente sportellò la Porta, e puntandovi la bocca del cannone, il quale era carico di bricciole di ferro, ne successe lo scoppio, quando la strada de’ Cappuccini formicolava di Francesi. Videsi un improvviso tombolo di essi. Tra gli altri Uffiziali si contò mortalmente ferito il prode Maggiore dell’artiglieria, il quale sopravvisse al colpo per alcune ore; mentre dopo condotto in Barletta, ivi fu tumulato in apposito sepolcro. Dopo questa strage, di bel nuovo il nostro artigliere caricò il cannone con una palla ben calibrata al suo interno diametro; e prendendo di mira il cannone francese, il quale dai Cappuccini veniva avvicinato alla Porta, fu in modo diretto il colpo, che quello rimase inchiodato: perdendo il nemico l’ajuto più forte, per poter presto guadagnare la città.
Ma mentre dai merli delle mura e da tutti i punti mantenevasi sempre viva la resistenza; un numero di Cittadini scoprendo, che la colonna de’ Francesi a spesse torme si era accalcata sul piano dell’orto di questo Reverendissimo Capitolo Cattedrale: ad un tratto trasportò il cannone sul piede del muro a quella direzione [4]; ed il nostro artigliere scaricò il terzo colpo su loro assai più mortifero del primo: non andandone inulta alcuna di quelle bricciole di ferro. Il Generale in Capo ch’era Broussier, nel vedere, delle sue truppe farsi un orrido macello sotto le mura; divampando d’ira, e digrignando i denti, ordinò darsi la scalata in massa alla Città. Fu allora da rimarcarsi di che sono capaci gli uomini, quando sono giunti all’ultimo grado della stizza! Gli Andriesi inferociti ricorsero a tutte le arme, che lor somministrava il furore. Si vide in un baleno chi maneggiare pezzi da fuoco: chi lanciar sassi: chi arrotare la scimitarra e così trionfar sempre sul ricadente e trafitto nemico.
Quando alla fine riuscì ai Francesi guadagnare la porta del Castello (mentre quel presidio era rimasto indebolito per la mancanza del cannone), si scagliarono nella Città, come orsi avidi di sangue, e dettero principio alla lugubre macera: non perdonandola neppure all’infanzia, ed alla canizie. Ma mentre il tamburo ripercosso indicava il trionfo del nemico, ed essi credevano, che i Cittadini spaventati, ed avviliti dalla loro presenza avessero deposte le armi, ed imploratone il perdono; cominciò nell’interno una più tremenda carneficina. Quei valorosi Andriesi, che fino allora avevano braveggiato dalle mura; avvertendo, esser venuto il nemico a guadagno della Città; incontanente dalle mura corsero a postarsi sul solajo de’ tetti. E siccom’essi erano quasi tutti (principalmente i capi) esimii cacciatori [5]; ne avvenne perciò che i loro colpi non scendevano invano. In fatti chi può numerare quanti Francesi siano stati mortalmente colpiti dal posto dirimpetto a questo Palazzo Vescovile? Quanti altri rimasero archibugiati da quello di Fravina? Ma a che vado io precisando i punti, quando in città ogni casa era una rocca! Si vide anche il sesso imbelle, offrendo voti alla vendetta, prendere la parte più fervida nel promiscuo eccidio. Le donne dai merli delle loro abitazioni lanciavano a tutta possa sull’audace aggressore sassi, embrici, mattoni, acque scottanti, ed olio bollente. Le vittime cadevano alla rinfusa. Passeggiava ingorda di sangue sotto mille aspetti la morte. Una continua detonazione, un non mai interrotto rimbombo fracassoso, un terrore sempre rinascente; e di mille voci d’ira e di dolore formavasi un gemito universale. In una parola: le orrende Erinni, anche allora sbucando dalla chiostra infernale, non avrebbero potuto accrescerne la confusione, e lo spavento.
Quando poi venne fatto all’oste anche guadagnare gli appostati sull’alto delle case; allora la licenza militare, perduto ogni freno, incominciò liberamente a percorrere tutte le strade; ed a seminare per le case il delitto e la barbarie. Alla sete del sangue non la cedeva l’avidità dell’oro; ed in ciò più de’ Francesi si distinsero i regnicoli, ed i provinciali collettizii. Tutto ciò che di prezioso qui trovavasi, tutto venne da mano rapace involato. Il sacrilego ardimento non la perdonò neppure ai Sacri Tempii. Questa Cattedrale fu interamente spogliata di tanti ricchi arredi, che contestavano la pia munificenza de’ Vescovi trapassati. Venne da qui rapita la colossale statua di fuso argento, che rappresentava, a tutto uomo, il nostro Protettore S. Riccardo; non che l’Urna preziosa del venerabile pegno della Santa Spina [6]; come pure la testa di S. Riccardo, il suo cuore, la pelle chiericale, e la testa di S. Colomba. Ma ciò che udirassi sempre con raccapriccio, anche l’Ostia vivente, il Dio de’ Padri nostri non fu sicuro nel suo augusto e venerando Tabernacolo. L’empia mano discese nel tremendo recesso della Divinità; e furando sacrilegamente i sacri argenti; lasciovvi poi negletto e vilipeso 1’Agnello Immacolato. Dopo questo immane attentato, si attaccò fuoco alla Sagrestia, dove gelosamente custodivasi l’antico Archivio; e questo e tant’altre dovizie conservate ne’ ripostigli de’ Preti rimasero preda delle fiamme. Ma già l’incendio cominciava in varii punti della Città ad alzare la fronte: cosa che avrebbe ad Andria portato l’ultimo fato; poichè tutti coloro, che si erano nascosti, sarebbero rimasti o coperti dalla macerie, o divorati dalle fiamme. Ma Iddio che non abbandona l’infelice nelle oppressioni, immantinenti fece scendere dal Cielo una dirotta pioggia, la quale dove ne represse l’audacia, e dove n’estinse la fiamma.
Or mentre qui cresceva semprepiù l’eccidio, non che il saccheggio; riuscì ad un benemerito Cittadino poter penetrare nel Palazzo Ducale, e gittarsi ai piedi del Generale Broussier. Questo Cittadino pallido, e gemebondo, come anco sprovvisto di abito pel saccheggio, a lui disse balbutendo, che di Andria era rimasto solo il simulacro; mentre la morte ostentava in ogni punto fumante di sangue il suo nero vessillo: ch’egli perdeva il frutto della vittoria; poiché acquistava il dominio di una vuota Città. A queste voci fece eco il Conte di Ruvo D. Ettore Carafa; e così tosto scese l’ordine di ritirata, e di partenza. In una poi delle stanze di questo Palazzo Ducale eranvi molte ploranti figlie del Nazzareno, le quali essendo state dalla licenza militare discacciate dalla loro Clausura si erano là dirette, cercandone un presidio. Fu cura del Conte, prima della sua partenza, di affidarle scrupolosamente a questo istesso Cittadino, persona della sua Casa [7], affinché le avesse ricondotte nel loro Monistero.
I Francesi intanto erano partiti prima delle ore ventidue, ed il saccheggio era nel suo vigore, il quale durò sino alla sera. Si appressarono le tenebre, ed i Campanili riverberarono la luce di un vampore, che insinuava una troppo loquace tristezza. Credevasi dagli Andriesi esserne l’effetto della continuazione degl’incendii. Ma poi si scoperse provenirne dai cadaveri, che si bruciavano degli estinti Francesi [8]. Questi cittadini del pari per ovviare a qualche pestifero miasmo, raccolsero nell’indomani il rimanente de’ trucidati Francesi, e collettizii; e trasportandoli nell’istesso luogo de’ Cappuccini, ne formarono quattro cataste, e poi vi appiccarono il fuoco. Fu particolare interesse dar tomba alle vittime della fedeltà in alcune vuote cisterne del nostro dintorno, oppilandosene ermeticamente gli orifizii. In un luogo distinto vennero racchiuse le mortali spoglie de’ trucidati Sacerdoti [9], i quali avevano suggellati col sangue i sentimenti di quella religione, la quale fu sempre feconda di Martiri. Furono privi, è vero, questi Cristiani Campioni di quella pompa funerea, che incanta l’occhio del secolo; ma ben decorati però di quella gloria, che va scolpita sulla fronte dei secoli per norma de’ posteri [10].
NOTE    (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva dell'intero argomento)
[1] Quattro erano allora le porte della città; cioè quella del Castello, così detta perchè innalzata a fianco dell’antico Castello: Quella di S. Andrea, così chiamata per essere uscito da essa questo Apostolo; dopo aver predicata qui la fede col Fratello S. Pietro; La Porta nuova, per essere stata l’ultima ad aprirsi; finalmente quella della Barra, per una grande sbarra, la quale serviva d’impedimento al passaggio de’ forestieri venuti dalla via Appia; dovendone pagare il dazio de’ commestibili.
[2] Questi due colpi furono malamente diretti; poiché una palla colpì questa Porta nel mezzo della fronte dell’arco inutilmente, e l’altra nell’istesso lato sinistro alla punta della girella, come appajono tuttora.
[3] Questa città aveva a stenti ottenuto un pezzo di cannone dai Tranesi, i quali erano del pari impegnati nell’istessa causa. Per la direzione di esso si era incontrato un Cannoniere Bitontino, il quale avea passata la sua gioventù nel Forte di Gaeta. Lo maneggiò quindi con molt’arte, e destrezza.
[4] Propriamente su quella parte del muro avanti la Casa de’ Signori Marchio, detti Paparone.
[5] Qui non è mancato mai un numero di bravi cacciatori, essendo gli Andriesi di continuo invogliati a questo esercizio dalle adiacenze boscose.
[6] Nel Capitolo quarto di questo libro discorrerò più diffusamente di questa sagra Spina, poichè ivi è parola della sua invenzione.
[7] Ho detto persona della sua Casa; ma non del suo partito; poichè questo Cittadino, come conoscesi tuttavia dai viventi, fu mio Padre D. Carlantonio d’Urso, il quale era Vicario o sia Agente Generale della Casa Carafa: di quella Casa, che in tutt’i tempi si era distinta per le tanto prove di fedeltà alla Corona di Napoli: di quella Casa, che avea sempre occupati i primi Ufficii del Regno sotto la Dinastia Borbonica. Ma i sentimenti di questo giovane Conte erano stati avvelenati nella lunga assenza dai suoi; avendo percorsa tutta l’Italia, o viaggiato nell’Inghilterra. Avvenne quindi dal suo sconsigliato procedimento la sua, e la rovina di questa Casa Colossale.
[8] I Francesi sopravvissuti all’attacco, prima di partirne, raccolsero i cadaveri de’ loro appartenenti, e con carrette li trasportarono fuora della Città nel largo de’ Cappuccini. Vi attaccarono fuoco, e la fiamma gigante durò per tutta la notte pel soverchio alimento.
[9] Quarantatré furono i Sacerdoti uccisi, dei quali 18. appartenevano alla Chiesa Cattedrale, ed il resto ai due Collegi, ed alle comunità Religiose. Questi 18. Preti furono seppelliti in un ampio granaio, il quale era nella parte interna del parco del Palmento della Confraternita del Santissimo di questa Cattedrale.
[10] Intorno al numero de’ morti in generale sì dalla parte degli Andriesi, che de’ Francesi, e collettizii, questo è il computo genuino, che fecesi dopo l’attacco. Dalla parte degli Andriesi ne morirono circa seicento; dalla parte de’ Francesi, e collettizii, duo mila, e cinque cento circa. Di fatto quando il Generale Broussier in Barletta nell’indomani venne alla numerazione del suo Battaglione, e ne vide molto scemato il suo numero, arse di sdegno; e voleva di bel nuovo farne ritorno, per lasciare la indicazione di Andria ad una pietra. Ma dissuaso dal Conte di Ruvo, si convenne in vece, per mitigarlo, caricare questi Cittadini di una esorbitante imposizione. E questa anche difalcata, sceso I’ordine, che costoro avessero consegnati in pena della loro audacia ducati dodeci mila nello spazio di duo ore. Ma trovandosi la Città all’intutto esausta pel lungo saccheggio sofferto, si potè a stenti rispondere della metà, della quale però i Francesi ebbero il solo nome.