Dolze meo drudo-Federico II

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Dolze meo drudo eh vatène (1)

Contrasto del Duecento attribuito a Federico II (2)

«Dolze meo drudo, e[h]!  vatène?
Meo sire, a Deo t’acoman[n]o,
chè ti diparti da mene,
ed io tapina rimanno.
Lassa! La vita m’enoia,
dolz’è la morte a vedire,
ch’io non pensai mai guerire
membrandome fuor di gioia.

Membrandome che  te ’n vai,
lo cor mi mena gran guerra;
di ciò che più disïai
’l mi tolle lontana terra.
Or se ne va lo mio amore,
ch’io sovra gli altri l’amava;
biàsmomi, dolze Toscana,
ch’e’ mi diparte lo core.»

Federico II: affresco

«Dolce mia donna, lo gire
nonn-è per mia volontate,
ché mi convene ubidire
quelli che m'à ‘n potestate:
or ti conforta s’io vado,
e già non ti dismagare,
ca per nulla altra d’amare,
amor, te non falseragio.

Vostro amor è che mi tène
ed àmi in sua segnoria,
ca lëalemente m'avene
d'amar voi sanza falsìa.
Di me vi sia rimembranza,
no mi aggiate ‘n obria:
ch'aveste in vostra balìa
tuta la mia diisïanza.

Dolze mia donna, ‘l commiato
domando senza tenore,
che vi sia racomandato,
che con voi riman lo core.
Cotal è la ‘namoranza
de gli amorosi piaciri,
che non mi posso partire
da voi, donna, in lëanza.»

sigla di Federico II
Federico (Ruggero) II di (Hohenstaufen) Svevia

NOTE

[1] La maggior parte dei critici afferma che “Dolze meo drudo” è uno dei testi (gli altri sono “De le mia disïanza” e “Misura, providentia e meritanza“) che sia attribuibile con ampio margine di certezza a Federico II.
Dolze meo drudo” è un congedo o dipartita in forma di contrasto composto da cinque strofe (coblas, nel provenzale della poesia trobadorica medievale), ciascuna con propria rima (coblas singulars);
nel primo verso di alcune coblas ( I-II, III-IV ) appare una parola dell'ultimo verso della precedente (coblas capfinidas);
le coblas I - III - V iniziano con la stessa parola "dolze", (coblas capdenals).
Ecco la struttura metrica dei versi e delle rime, rilevata nella prima delle cinque stanze o coblas:
[2] Il manoscritto originale porta  l'annotazione “Re federigo”, ma non riporta il monogramma di Federico II perché non è un suo atto-documento ufficiale; qui è posto in calce per renderlo noto e come immagine ornamentale della pagina.
All’imperatore Federico II (Ruggero di Hohenstaufen) di Svevia, e poi al figlio Manfredi, va il merito di aver promosso presso la loro corte lo sviluppo e la diffusione dell’italiano nel suo nascere in forma letteraria, accogliendo i poeti della cosiddetta scuola poetica siciliana, provenienti soprattutto ma non solo dal Meridione d’Italia.
Dante, nel capitolo XII del primo libro del “De vulgari eloquentia”, lo afferma in modo chiaro, elogiando la loro nobile impresa culturale:
[trascrizione dell’originale latino] [traduzione]

Sed hec fama trinacrie terre, si recte signum ad quod tendit inspiciamus, videtur tantum in obproprium ytalorum principum remansisse, qui non heroico more sed plebeio secuntur superbiam.

Siquidem illustres heroes, Fredericus cesar et benegenitus eius Manfredus, nobilitatem ac rectitudinem sue forme pandentes, donec fortuna permisit humana secuti sunt, brutalia dedignantes.
Propter quod corde nobiles atque gratiarum dotati inherere tantorum principum maiestati conati sunt, ita ut eorum tempore quicquid excellentes animi Latinorum enitebantur primitus in tantorum coronatorum aula prodibat;
et quia regale solium erat Sicilia, factum est ut quicquid nostri predecessores vulgariter protulerunt, sicilianum voc[ar]etur: quod quidem retinemus et nos, nec posteri nostri permutare valebunt.

[testo latino tratto da: Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia, a cura di Aristide Marigo. Firenze, 1948. Ed. Felice Le Monnier, libro I, cap. XII]

Ma questa fama [poetica] della Trinacria (Sicilia), se indaghiamo correttamente a cosa mira, ci accorgiamo che è rimasta soltanto a vergogna dei principi italiani che perseguirono l’arroganza, non comportandosi da persone eminenti ma come bassa plebe.

Qual eminenze illustri, l’imperatore Federico e il suo insigne figlio Manfredi manifestarono invece la nobiltà e la rettitudine del loro animo e, finché la fortuna arrise loro, perseguirono le inclinazioni proprie dell’uomo, disdegnando le irrazionali bassezze.
Per questo i nobili di cuore e spiritualmente dotati optarono di seguire l’eccellenza di tali prìncipi; conseguentemente tutto ciò che a quei tempi producevano le personalità illustri dei Latini (Italiani), si sviluppava dapprima alla corte di sì grandi sovrani.
Pertanto, poiché era la Sicilia la sede regale, accadde che tutto ciò che i nostri predecessori crearono in lingua volgare fu detto «siciliano»; denominazione che noi pure manteniamo, e che neppure i nostri posteri potranno mutare.


Trascrivo qui anche uno stralcio dello studio che lo storico e scrittore Francesco Babudri (1879-1963) effettuò nel 1962 su "Federico II nella tradizione culturale e popolare pugliese"; esso riguarda le relazioni filologiche tra questa poesia attribuita a Federico e quella pugliese del tempo.
Molto ... importante è la trascrizione di un altro breve componimento di Trani o forse di Barletta, o comune a entrambe le fiorenti città, nel quale il rimatore ha evidentemente copiato idee e frasi del canto di separazione «Dolze mio drudo, e vatène?», tecnicamente detto «dipartita», di Federico II, in 5 strofe, attribuito dai critici amche a Federico d'Antiochia, re di Toscana, figlio dell'imperatore, e altresì a Ruggerone di Palermo e a Jacopo Mostacci ... .
Vatèn, dolze mia druda,
che injusta mi dai noia,
s'io, ciò che niun refuda,
chieggo a te amore e gioia.

S'io vo crociato in guerra,
remano in tua balia,
chè avrò in lontana terra
amor senza falsia.

Cotal ennamoranza,
sì come al sol lo fiore,
per te, donna, in leanza
distrigne mente e chore.
La dipartita federiciana è in ottonari e in cinque strofe di 8 versi, questa è in settenari e in 3 strofe di 4 versi. In entrambi i componimenti è «lui» che parte, ma il commiato presso Federico lo dà «lei»: qui invece «lei» non appare e il commato lo dà «lui» che parte crociato. Là la donna si rivolge al suo «drudo», cioè al suo amante, qua l'uomo si rivolge alla sua «druda», cioè alla sua amante. Là il «vatène», te ne vai, secondo alcuni editori è interrogativo: «tene vai?», secondo altri è incitativo «vàttene», qua è soltanto incitativo e anche ha senso di rimprovero. ...
Questo confronto è stato qui fatto, perché meglio si vedesse come la tradizione federiciana in poesia trovò diretto alimento nella versificazione siciliana: il che insegna che i riflessi della Magna Curia in Puglia ebbero un fondo di verace realtà, che si può documentare, di consenso, di comprensione, di imitazione. ...

[Tratto da " Federico II nella tradizione culturale e popolare pugliese" di Francesco Babudri, in “ Archivio Storico Pugliese”, Ed. A. Cressati, Bari, 1962, Anno XV, fasc.I-IV, pagg.47-48