La Cripta del Duomo, di E.Bernich

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(stralcio dal periodico ...)

“Napoli Nobilissima”
rivista di topografia ed arte napoletana

testo di Ettore Bernich (1850-1914)

La Cripta del Duomo di Andria

Nello scorso aprile, come noto, Guglielmo II, Imperatore di Germania, annunziò di voler fare un viaggio artistico in Puglia, nel quale si proponeva di visitare i principali monumenti di quella regione, che ne è così ricca, tra cui il famoso Castel del Monte. Questo bel disegno — non messo in atto — , oltre ad arrecare un certo giovamento a qualche monumento pugliese, lasciato, purtroppo, insieme con gli altri d’Italia, in deplorevole abbandono, è stato anche causa della scoperta di una interessante opera d’arte.

Infatti, trovandosi Castel del Monte nel territorio d’Andria, il sindaco di quella Città, avv. Vito Sgarra, pur provvedendo affinché al magnifico maniero svevo fosse fatto qualche urgente restauro, e la via che da Andria vi conduce venisse riattata, ebbe anche pensiero di voler mostrare, se era possibile, all’illustre ospite le tombe di Jolanda di Gerusalemme ed Isabella d’Inghilterra, successive mogli del gran Federico.

Dalle cronache di Riccardo di San Germano — scrittore coevo — si sapeva che le due imperatrici erano state sepolte in Andria, e null’altro. Però una tradizione secolare precisava meglio il sito, indicando come tale il Duomo, e riconoscendo a dirittura le immagini delle sovrane in quelle scolpite su due pietre tombali, che, trasportate già e murate presso la porta principale del tempio, vennero poi ricoperte nel 1842, quando se ne rinnovò il portico. Infine, scrittori ed eruditi affermavano che le tombe suddette dovessero trovarsi proprio nella cripta del Duomo.

Con questi dati, si cercò parecchie volte di rintracciarle; ma i tentativi finora fatti furono sempre infruttuosi, non essendo possibile, alla luce delle fiaccole, discernere qualche indizio concreto nella misteriosa cripta, convertita, dalla metà del sec. XV, in un ossario. Così nulla rivelarono le indagini del prevosto Giovanni Pastore, che scrisse, verso 1750, un lavoro storico su Andria, rimasto inedito. E, se il canonico Riccardo D’Urso, che pur discese nell’ossario, nella sua Storia d’Andria, pubblicata nel 1845, disse che i mausolei imperiali erano di pietra nostrale, ma di lavoro ed intaglio di stile orientale; d’altra parte, il canonico Emanuele Merra (ora vescovo di Crotone), autore di una pregevole monografia su Castel del Monte, a cui, in qualità di regio ispettore dei monumenti e scavi del mandamento di Andria, fu dato incarico dal Ministero della P. I., nel 1892, di rinvenire le tombe, non essendo andato sino in fondo, poté solo osservare le colonne di cui parleremo cui parleremo più avanti e qualche traccia di decorazione a stelle nelle volte.

pianta della cripta - disegno di E. Bernich

Più, fortunato, e giustamente, è stato il sindaco Sgarra, che, coadiuvato da suo fratello, il dott. Raffaele, e col consenso del capitolo della cattedrale, cominciò dal fare eseguire l’intero spurgo dell’ossario: conditio sine qua non, perché le ricerche fossero fruttuose. E, dopo alcune settimane d’intenso lavoro, finalmente, si videro apparir verso il lato occidentale della cripta, allo stesso livello del suolo, due lapidi tombali. Scoperchiatele in presenza delle autorità, si trovarono due fosse, scavate allo stesso modo nel terreno roccioso; ed in esse, ognuno col capo in un incavo rettangolare, due scheletri, che, all’aria, divennero in parte cenere: non tanto, però, che al dott. Sgarra e ad altri sanitari non riuscisse riconoscere in essi il sesso femminile. Né documenti scritti, né medaglie, né monete, né altro indizio fu trovato per identificare i cadaveri: soltanto, presso le tombe, si raccolsero frammenti architettonici ad intagli. Presunzione fortissima, però, a favore dell’ipotesi che proprio quelli fossero i sepolcri delle due imperatrici, resta il fatto che, per quanto si frugasse d’intorno, nessun vestigio d’altra tomba fu rinvenuto.

La scoperta, naturalmente, fece chiasso, e corse per i giornali, i quali, al solito, caddero in mille esagerazioni. Intanto, il sindaco di Andria aveva la bontà d’invitarmi colà per dare usi parere sull’importanza dei cimeli a cui ho accennato. Confesso il vero, fui a principio un po’ titubante; ma gl’incitamenti degli amici della Napoli Nobilissima e le nuove premure fattemi dal sindaco, il quale, nel tempo stesso, mi comunicava che altri frammenti architettonici eransi scoperti laggiù, vinsero la mia esitazione, e partii. Ed eccomi ora a render conto di quanto ho osservato, così, alla buona, ai lettori.

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La prima impressione che provai, appena disceso nella cripta, non fu certo favorevole all’ipotesi delle due tombe imperiali. Sfido io! Il contrasto tra il chiarore della luce elettrica e quelle muraglie e vòlte, brutte, rustiche, disadorne, sostenute da colonne informi, era così stridente, che veniva spontanea alle labbra l’interrogazione: «come mai un imperatore cosi magnificente come Federico II, un artista, un esteta come lui, poteva far seppellire due donne belle e giovani, e, quel che è più, mogli di un sacro romano imperatore, in un luogo si umile?». Ma, quando, l’indomani, ridiscesi nella cripta, solo al pensare che il luogo contava chi sa quanti secoli di vita, mi convinsi d’aver avuto torto. Perciò, anziché perdermi in malinconiche riflessioni, visto che lo sterramento aveva cagionate alcune lesioni nelle crociere, e fatto alquanto inclinare una colonna, ordinai al maestro, che aveva assistito ai lavori dello spurgo, di far subito puntellare le parti pericolanti e robustire con travature la colonna: il che fu immediatamente eseguito.

Il giorno dopo, cominciai i rilievi. Feci disporre i frammenti sopra un tavolato; e, come lo studioso che cerca restituire un documento su cui hanno fatta baldoria chi sa quante generazioni di sorci, presi a metterli insieme in mille modi diversi, cercando di ricostruire almeno un simbolo, un emblema, un segno qualsiasi che mi dicesse che cosa quelle reliquie rappresentassero in origine, quando, con molte altre che mancavano, costituivano un tutto organico. L’affare, naturalmente, andò per le lunghe: finalmente, dopo averle ricomposte alla meglio sui tumuli stessi, potei discernere alcune figure di piccole aquile. Allora pensai: perché questi pezzi informi non potrebbero essere gli avanzi di eleganti tabernacoli che avevano ricoperti, circa sette secoli fa, con i loro archi decorati di aquilette gli avelli imperiali? Ed, a furia di pensarci, mi convinsi che, dal punto di vista architettonico, questa era la sola soluzione possibile. I critici, senza dubbio, non se ne contenteranno, e mi domanderanno: con qual documento lo provate? Ed io, anziché venire a discussione con essi, e perder tempo a vagliare se un simbolo rispondente ad una lunga tradizione sia un giusto equipollente d’una pergamena, che, alla fin fine, può essere anche falsa, mi limito ad esporre ciò che per me, architetto, è un convincimento; e passo a descrivere la cripta, poiché sule la pena che si spenda intorno ad essa qualche parola.

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La cripta si trova quasi tutta sotto il presbiterio della odierna Cattedrale. Eccone la pianta e uno schizzo prospettico.

pianta della cripta - disegno del Bernich

Come si vede, essa sorse come pianta rettangolare, di forma basilicale. Si trovava sul piano stradale, roccioso, che, senza dubbio, venne appositamente livellato. Orientata alla bizantina, aveva l’abside ad Oriente, e l’ingresso — ora nascosto dalla Chiesa superiore — ad Occidente.

Particolare degno di nota è l’irregolarità dell’asse della nave, che forma con la corda dell’abside un angolo di 78 gradi circa. A prima vista, una simile indicazione sembrerebbe un difetto costruttivo; al contrario, è stata fatta con criterio liturgico, poiché con essa si è voluto simboleggiare quella del capo di Gesù morente. D’altronde, lo stesso spostamento venne conservato anche nella chiesa superiore; anzi ivi, date le proporzioni più vaste, è più accentuato.

L’antica chiesa era lunga 20 metri, compreso l’abside, per una larghezza massima di metri 7,10.

Ad occidente, le crociere, sostenute da cinque mozziconi di colonne, tre delle quali di granito rosso-bruno, disposte a croce, sono interposte da arcate lunate a pieno centro. Sotto questa specie di portichetto, compreso in una superficie di metri 5.70 x 4.40, furono scoperte le note tombe, come indica la pianta.

Nel rimanente della Cripta, le volte, in origine anche a crociera, posteriormente furono rimaneggiate, togliendo i pilastri centrali che le sostenevano, ed elevando alcuni tratti di muro collegati tra loro da grandi archi scemi, sui quali impostano le nuove volte a mezze botti.

L’ultimo pilastro avanti l’abside è il solo che rimanga dall’antica costruzione; v’è dipinta ad incausto l’immagine del Salvatore, in piedi, con un libro aperto, su cui, a lettere greco-romane è scritto:

EGO SVM LVX MVNDI ET REDEMPTOR.

Avanti il pilastro è poi una mensa d’altare, sostenuta da un piede cilindrico, davanti a cui s’apre un vano alquanto profondo, dove, probabilmente, era l’acqua lustrale. Sul piano di questa mensa fu gettato uno degli archi scemi che occulta in parte il dipinto del Salvatore, e sul quale si veggono poche vestigia di altre pitture, posteriori, però, a quella già detta.

Dietro si svolge l’abside. La corda del suo arco è di metri 4.90; lo scudello delle vòlte vien diviso nel mezzo da un’unghia, i cui angoli vanno ad impostare sul pilastro; a destra e a sinistra delle vòlte stesse si aprono due finestre quadrate ora chiuse [1]; ed, infine, al piede dell’abside gira un tratto del sedile del coro.

Oltre il portichetto interno, doveva esservi un portico esterno, ove rimanevano i catecumeni ed i rei di gravi peccati. Esso non si vede; forse fu interrato; ma che vi sia stato, si desume da un passaggio ora aperto.

Finalmente, è da notarsi, che, quando fu eretta la seconda delle tombe testè rinvenute, la mancanza di spazio obbligò a chiudere uno dei vani del vecchio ingresso; e sulla parete così ricavata, come apparisce dalla muratura, s’innalzò il monumento.

La Cripta, come ho accennato, trovasi in cattive condizioni.

Tanto le pareti quanto le volte sono senza intonaco; e solidamente composte da filari regolari di pietre rustiche. Le crociere del portichetto meglio eseguite a scardoni di pietra, posti in coltello, a guisa di grossi mattoni, hanno gli archi rialzati e gli spigoli vivi. Ma anche qui si vede che l’arte del lapicida manca del tutto, e che vi emerge semplicemente il fabbricatore.

Le cinque colonne del portichetto, come ho accennato, non sono che mozziconi informi. Quelle di granito provengono certamente da qualche fabbrica dell’epoca romana, facendo, così, pensare che qualche tempio o altro edificio pagano dovesse esistere non molto lontano da Andria. Pare che queste colonne abbiano dovuto soffrire la violenza del fuoco, poiché la superficie è scabrosa e intaccata. Una soltanto ha il capitello di stile romano, ma non è rimasto che il torsolo, in cui a stento si scorgono le tracce del fogliame, con l’abaco diviso dal resto della campana. In un’altra, al posto del capitello fu collocata una pietra massiccia a guisa d’abaco; e per base un capitello bizantino rovesciato, di forma arrotondata, in cui sono scolpite foglie d’acanto spinoso, bellissime. La terza ha l’abaco quadrato di pietra calcare, e manca di base. Le altre due, di pietra del luogo, sono così informi, da sembrare cose barbariche.

Senza dubbio, ripeto, quando la nostra Cripta fu costruita, l’arte del marmorario non era ancora giunta ad Andria. Non così l’arte pittorica, che i monaci basiliani applicarono da tempo antichissimo nelle loro laure e chiese in Puglia: arte bizantina, emigrata da Costantinopoli, tutta uguale, stecchita e senza anima, ma viva di colori. Perciò anche la Cripta andriese dovè avere, in origine, dei dipinti: sulle pareti, sulle vòlte, sulle colonne stesse, a tal uopo ricoperte di strati di stucco; dovunque, insomma, fosse necessario celare qualche magagna, per dare una apparente euritmia ad un materiale raccolto così, alla rinfusa, da fabbriche pagane. E la prova di questa asserzione si trova in moltissimi pezzi d’intonaco rinvenuti nel terriccio [2], sui quali appariscono i soliti intrecci e meandri su fondo rossastro cupo, che tradiscono l’origine orientale. Uno di essi appartenne, senza dubbio, alla decorazione di un abaco di pilastro.

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A che epoca risale la costruzione della Cripta? Non abbiamo alcun documento che la additi; ma non è difficile indicarla con approssimazione. Sappiamo che l’odierna Cattedrale di Andria dovè essere terminata prima del 1069. Infatti, in quell’anno, vi fu sepolta la principessa Emma, figlia di Gottifredo Conte di Conversano, il tumulo della quale fu scoperto nel Gennaio 1799, nel togliere lo stucco da un pilastrone a cui era addossato il pulpito [3].

Poiché la Cattedrale fu costruita appunto sulla nostra cripta, è indubitabile che questa non possa essere posteriore al X secolo; e che non sia anteriore al VII è accertato dal trovarsi adoperato, come materiale di risulta da altro edificio demolito, il capitello bizantino. Inoltre, per la totale mancanza in Andria di altre Chiese importanti così antiche, possiamo anche asserire, senza timore di fare un’ipotesi troppo arrischiata, che essa fosse la principale del luogo, e, come tale, dedicata al Salvatore [4].

Né deve farci impressione la sua piccolezza, perché, prima del mille, le chiese in Puglia si costruivano in proporzione dei bisogni degli abitanti, senza fasto ed inutile ampiezza. Piccina era quella di S. Pietro ad Otranto; e tali quelle di Castro e di S. Michele al Gargano, prima che venissero ricostruite rispettivamente dai Normanni e da Federico II. E le dimensioni originarie della stessa cattedrale barese non erano, forse, quelle della sua cripta? Quindi data l’importanza storica e vetusta della nostra cripta, ben possiamo dire che essa costituisce un prezioso documento per l’archeologia cristiana, della quale non si trova in Puglia altro riscontro.

Ettore Bernich

[tratto dal periodico “Napoli Nobilissima”, rivista di topografia ed arte napoletana, Napoli, 1904, Vol. XIII, Fasc. 12 pagg. 183-186.
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NOTE (nel testo originale la numerazione è di pagina e non progressiva dell'intero documento)
[1] In origine la Cripta era illuminata da finestre quadrate, poste tutte, però, lungo il tratto settentrionale. Ciò si può scorgere anche oggi.
[2] Su qualcuno ho potuto discernere anche figure di Santi con le aureole. — Sotto il terriccio si scorgono anche frammenti dell’antico pavimento ad opus tassellato, policromo, composto da rombi e stelle.
[3] Sulla tomba erano scolpiti quattro esametri, sormontati da una croce. Il prezioso monumento allora stesso fu fatto trasportare dal duca Riccardo Carafa nel suo palazzo, dove lo vide il canonico D’Urso. Quest’ultimo nota che l’Emma fu moglie di Riccardo Normanno, secondogenito del conte Pietro I di Trani, ed ultimo conte di Andria di stirpe normanna. La contea di poi si trasferì a Jacopo Conti, cugino di Innocenzo III, fino a che, nel 1221, Federico II non ne assunse il dominio diretto.
[4] Un egregio studioso di Andria ha supposto che la nostra chiesa sia proprio quella nominata in una bolla di Callisto II, datata da Benevento il 6 ottobre 1120 (non già 1127), con la quale si concede ai Benedettini del Vulture, tra l’altro, in Andro ecclesiam Sancti Salvatoris, Sancti Nicholai; in burgo ecclesiam Sancti Salvatoris … — Se non che, come era possibile che si trattasse della nostra chiesa, se, nel 1120, erano già scorsi almeno cinquant’anni che su di essa erasi edificata l’odierna cattedrale d’Andria? Evidentemente si alludeva a qualche altra chiesetta. — Debbo queste notizie alla cortesia dell’on. Giustino Fortunato, che ha visto l’originale della bolla callistiana nell’archivio municipale di Roma: il che ne prova l’autenticità, da qualcuno messa in dubbio.