G.Di Gennaro: notizie su Chiesa e Campanile

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da "La chiesa di S. Francesco. Appunti di storia, arte e spiritualità",
di Antonio Basile, Grafiche Guglielmi, Andria, 1995, pp. 45-55

Notizie inedite sulla Chiesa di San Francesco

di Gabriella Di Gennaro
(Architetto - Centro Ricerche di Storia Religiosa in Puglia)
(stralcio)

Il Settecento è il secolo delle grandi trasformazioni all’interno delle chiese, comprese quelle andriesi, dovuto al gusto rococò dell’epoca ed ai dettami del Concilio di Trento (1545 - 1563). Così anche in riferimento alla nostra ricchissima chiesa di S. Francesco in Andria si apprende, sfogliando tutti i testi di storia andriese, che nel 1700 la chiesa fu arricchita di magnifici stucchi in stile barocco, comprendenti cornici, angeli e riquadri vari. Ma non si sa più nulla circa i valenti artefici che si dedicarono alla ristrutturazione interna di questa chiesa. Così per studio e per passione in una ricerca d’ar¬chivio ho scoperto preziose fonti documentarie che fanno luce sulla storia della nostra chiesa.

Nel 1749 comincia ad attuarsi il progetto dei Padri Francescani circa l’ammodernamento della Chiesa e perciò contattano i maestri Savino Raimondo della città di Andria e Nicolo e Giovanni de Mangarella, padre e figlio, della città di Barletta, per “Modernare con nuove fabbriche interiori la Chiesa di detto venerabile convento, ed alzare sopra le vecchie altre nuove fabbriche, per poi partire cappelle, presbiterio ed altro; e situarci con finimento di stucco” secondo un disegno - progetto preparato a Napoli dall’ing. Martino Buonocore.

La direzione dei lavori fu affidata al sig. Anello Prezioso della città di Napoli che doveva recarsi qui in Andria. Secondo il progetto, i pilastri dovevano essere decorati in stucco secondo l’ordine attico, e bisognava fare, inoltre, il cornicione, l’architrave continuo e relativo fregio con in più il pavimento in mattoni napoletani di cotto. Secondo questo disegno bisognava disporre in questa Chiesa sei cappelle, una di fronte all’altra nei lati opposti (tre per ciascun lato maggiore) con i rispettivi pilastri in tufo, con tufi provenienti dalla tufara di san Procopio. Questi lavori, secondo quanto recitava il contratto, dovevano terminare nel corso di un anno (1750), ma si protrassero fino al 1752.

All’interno della chiesa si può ammirare anche un coro in noce costruito nel 1699 (data incisa nel legno) da autore ignoto, probabilmente discepolo di Bolognese Infante di Bagnuoli (1659).

Sopra questo coro dai finissimi intagli si erge il maestoso organo attribuito ad autore ignoto, secondo i testi esistenti, finché non trovo un documento che lo data e ne attribuisce la paternità. È un’opera del 1765 di “Francesco Carelli del Vallo di Novi, Provincia di Basilicata” che in un anno si impegna a realizzare per questa chiesa un organo nuovo “ad otto registri di ripieno, cioè il primo basso in mostra, che tirano sino al numero di trenta cinque canne di stagno in mostra di prospettiva, ed il supplemento di piombo, secondo la misura proporzionata; e quattro registri, cioè voce umana, canne numero venti sette. Due registri di flauti, uno in ottava, e l’altro in quinta duodecima, tutti intieri in canne numero quaranta nove per registro. E quello dell’eco, che viene composto di canne trenta cinque, e due trombette alli Angioli della macchina, da sonare nello stesso tempo con detto organo, il quale deve essere sonoro, proporzionato in tutte le sue parti, di tutta perfezione, secondo le misure, e regole dell’Arte”. Tutta l’opera doveva essere realizzata per il convenuto prezzo di ducati quattrocento in moneta d’argento corrente. I frati pagarono subito cento ducati e gli altri trecento ducati dovevano essere pagati al maestro Francesco Carelli in Andria secondo le seguenti modalità: ducati centocinquanta non appena veniva completato e collocato in loco l’organo ed i restanti centocinquanta ducati a saldo “fra il termine di un anno, numerando dal detto giorno, che sarà compita, perfezionata e situata l’opera suddetta” senza alcuna maggiorazione di prezzo per interesse da parte del convento; d’altra parte, però, il maestro Carelli restava in possesso dell’intero vecchio organo (che noi non conosciamo) che, al tempo, era collocato nella chiesa di S. Francesco.
Così si apprende dal documento che tutte le canne di legno dovevano essere “di larzo, o di cipresso, ben stagionato, con l’imboccatura di noce”; il maestro doveva poi realizzare a sue spese due mantici proporzionati e adatti a questo organo. Il convento si impegnava inoltre per contratto a inviare a sue spese due traini a prendere tutto il materiale, necessario per la realizzazione dell’organo, dalla terra di Tolva nel mese di novembre 1765 ed a ospitare per tutto il tempo dei lavori il maestro nel convento fornendogli vitto e alloggio.
Come ultima clausola era previsto che dopo che l’organo veniva collocato in chiesa doveva essere rivisto ed approvato da un certo signor Francesco Dole di Corato “il quale possa mettere sotto la gentile considerazione del convento suddetto, la detta opera compita, e riveduta, anche in riguardo alle spese cibarie, che detto venerabile convento dovrà fare ad esso magnifico Francesco Carelli per quel tempo, che dovrà fatigare in detto convento per causa di detto organo”.

Analizzando sempre il ricco interno della chiesa di S. Francesco la nostra attenzione si sofferma ora sugli arredi marmorei e precisamente sull’altare maggiore e la balaustra che separa la zona presbiteriale dall’aula unica della chiesa.

Pochissime e frammentarie, se non rare e molto generali, sono le notizie riguardanti questo stupendo altare sito nella chiesa di S. Francesco ad Andria, e ciò è dovuto certamente al fatto che documenti vari e i registri di contabilità del Settecento andarono perduti in seguito ad un incendio che divampò nell’Ottocento nei locali attigui alla chiesa, ivi compreso l’archivio. Inoltre aggiungiamo che nulla è emerso dalla consultazione dei registri notarili di tutti i notai, anno per anno, che rogavano ad Andria nel Settecento. Al contrario ho ritrovato documenti notarili riguardanti gli autori del campanile (il più bello di Andria, insieme a quello del duomo e della chiesa di S. Domenico) e delle campane della chiesa di S. Francesco, e gli architetti e i muratori che provvidero alla ristrutturazione totale della chiesa nel 1749.

Le prime notizie di questo artistico altare maggiore, ricco sfondo di una chiesa ad una sola navata con copertura a volta tutta ornata di fine stucco, si ritrovano nel testo del Borsella risalente al 1850. “La costruzione è magnifica o si guardano i lavori, o la forma, o le diverse qualità dei marmi che lo compongono" (1). Il Borsella stesso precisa che la chiesa subì un totale ammodernamento negli anni 1750-1770 rifacendo gli stucchi e ordinando nuovi arredi, ivi compreso l’altare.

Una ricca ed artistica balaustra di marmo divide la chiesa dal presbiterio, nel quale è appunto collocato il magnifico altare maggiore di marmo pregevolissimo e ricco di lapislazzuli. È evidente che stilisticamente la detta balaustra di marmo bianco e africano (alta cm. 86 e lunga cm. 655) è stata costruita in ambito napoletano nella seconda metà del XVIII secolo. Ho ritrovato a proposito di questa balaustra solo un riferimento indiretto in un altro atto notarile, recuperato in archivio del 1793 in cui si fa riferimento alla costruzione di una balaustra marmorea nella chiesa di S. Sebastiano in Andria, e l’artista contattato, Andrea Scala, s’impegna a realizzarla sull’esempio di quella di S. Francesco: «… essa balagustrata larga oncie tre, e l’altezza di esso gradino oncie otto, cioè sei l’altezza del sottogrado di bordiglia, e due il bastone; nella suddetta imboccatura vi deve cadere un altro gradino, tutto di marmo bianco di altezza di oncie quattro con fiaccola, o sia smocciatura simile a quella della balagustrata di questo convento di S. Francesco». Questa costituisce un’importante data che ci fa intuire l’esistenza della balaustra di S. Francesco già prima del 1793. Essa, come l’altare, è in marmo policromo intagliato ed intarsiato ed è divisa in quattro settori, due a destra e due a sinistra del cancello centrale in ferro e ognuno di esso presenta due testine di cherubini lievemente aggettanti nel gioco delle volute, uno di spalle all’altro. Questa balaustra come manifattura è contemporanea all’altare e opera di quello stesso omonimo autore artefice di tutto l’intero complesso marmoreo.

L’altare maggiore, superbo per la sua bellezza e preziosità, è situato al centro del presbiterio ed è realizzato in marmo policromo scolpito e commesso (alto cm. 311, lungo cm. 480, profondo cm. 280). È un prodotto della scuola napoletana, sicuramente della seconda metà del XVIII secolo.
Al 1754 risale secondo la tradizione poi la porticina in argento del tabernacolo (datata) e probabilmente i parati in ottone che completano l’altare.
Quindi successivamente nel 1754 furono ordinati i parati in ottone di questo e degli altri altari che completano la chiesa ad aula unica. Per inciso accenniamo a questi altari che sono sei, tutti di marmo e disposti simmetricamente. Ognuno di essi è dedicato ad un santo e sono tutti lavorati a Napoli alla fine del sec. XIX con finissimi marmi, come anche di stampo partenopeo sono le statue che li sovrastano (2).

Databili agli stessi anni dell’altare maggiore, inoltre, possono considerarsi le due mense marmoree laterali in marmo di Carrara e rosso africano, e le acquasantiere in bardiglio, marmo nero e rosso d’Africa.

Ritornando a parlare dell’altare maggiore, esso è concluso ai due lati da due angeli adulti reggifiaccola. Questi serafini capialtare a figura intera sono molto simili, per fattezza e mano scultorea, a tanti altri ritrovati con frequenza in altari settecenteschi nel Regno di Napoli, molti soprattutto in Puglia.
È sorprendente la somiglianza di tutti questi angeli fra loro anche perchè è davvero unica questa originale soluzione di conclusione laterale degli altari. Esempi vistosi sono l’altare maggiore della Cattedrale di Foggia (con angelo capoaltare a destra firmato Sanmartino e datato 1767) e l’altare maggiore della chiesa di S. Benedetto a Massafra, attribuiti allo scultore Giuseppe Sanmartino (3). Proprio con questi ultimi è possibile dare un puntuale confronto che ci consente di poterli riferire all’ambito della bottega del Sanmartino che riscosse notevole fortuna proprio in Puglia.

L’altare maggiore di S. Francesco si eleva su quattro gradini di marmo bianco con intarsi di marmo rosso d’Africa listati di marmo nero. La mensa, unica nel suo genere, è sostenuta da piedistalli incorniciati a vari colori con ricche volute. Una greca superiore, data dalla ripetizione ritmica di tasselli semiovali in marmo giallo di Siena, delimita superiormente il paliotto che reca un vistoso medaglione circolare in lapislazzuli dell’Afghanistan (4) con al centro una stella di Similoro (5) infissa in detto cerchio e circondata da una corona di pietre dure. Accanto, agli estremi laterali dell’urna, sporgono due teste di angeli a tutto tondo.
Il postergale, costituito da due gradini largamente profusi di decorazione, reca nel primo sei coretti lunati come scudi, aventi nel centro cerchi di marmo giallo; il secondo gradino è abbellito di foglie bianche ricurve ad intaglio e sovrapposte ad un fondo di marmo verde Alpi cipollino, con ornamenti vari, ancora ad intaglio, di piccole fronde. I gradini dell’altare, ricchi di marmi variegati, sono superiormente conclusi da fasce di marmo giallo e nero di Calabria. Al centro del ciborio campeggia una raggiera sagomata in un pezzo unico di marmo giallo di Siena con ai lati due cherubini che iconograficamente richiamano gli angeli della Cattedrale di Andria attribuiti a Giacomo Colombo, pezzi pregevoli di un altare settecentesco completamente distrutto.
Al centro della raggiera è collocata la porticina di forma ellittica del tabernacolo in argento sbalzato (altezza cm. 28.6) che rappresenta l’Ultima Cena. Questo argento scolpito risale sicuramente al secolo XVIII, ed è anch’esso di ambito napoletano e raffigura con chiarezza Gesù che distribuisce agli Apostoli il Pane Eucaristico.

Nessun contributo importante ai fini della datazione ci viene fornito dalle Sante Visite pastorali da me consultate. Si ritrovano riferimenti all’altare di S. Francesco solo nel 1823 ma sono molto generici «l’altare maggiore è ornato di candelieri, giarre, e carte di gloria di ottone ...», e in un’altra Santa Visita del 1835: «In primo luogo vi è l’altare maggiore tutto di marmo ed in mezzo al medesimo vi è il ciborio, ove si conserva la sacra Pisside, la quale è tutta di argento con la conveniente indoratura di dentro, [...] Gli ornamenti di detto altare sono formati di ottone e molto decenti. [...] Sulla mensa vi è la pietra sagra col sepolcro ben fermo».

Altre notizie inedite sono state rintracciate riguardanti la vicenda della realizzazione del campanile. In un documento del 1760 appaiono per la prima volta i nomi di Vito e domenico Ieva della città di Andria convocati dai frati del convento per completare  i lavori di ammodernamento della chiesa iniziati nel 1749-51, con la realizzazione di un nuovo campanile. Il disegno-progetto del nuovo campanile dei maestri Ieva fu accettato dai frati; quindi il campanile doveva sorgere nel piccolo giardino annesso alla sagrestia di detto convento. In questo primo contratto del 1760 si stabiliscono le clausole:

  1. tutti i materiali necessari per la costruzione dovevano essere procurati ai maestri a spese del convento;
  2. il convento doveva mettere a disposizione tutti i legnami, funi, ferri e il materiale necessario per formare ossature ed impalcature per i lavori;
  3. il campanile doveva essere eseguito conformemente al disegno, lasciando però pieno potere ai frati di apportare successive modifiche al disegno.
Non viene stabilito un prezzo perché i termini sono ancora molto generali: si precisa solo che i maestri debbano fissare un importo in base all’ammontare delle spese della prima opera e che i lavori dovevano iniziare già dal 23 luglio 1760 e che potevano in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo essere sospesi e poi fatti riprendere dai frati ed i maestri Ieva con i loro aiutanti dovevano attenersi a questi ordini, pena lo scioglimento del contratto.
In un successivo documento del 19 novembre 1766 trovo citati i maestri Francesco Paolo e Sabino de Staso, padre e figlio, e Giuseppe Gaeta, cioè, i muratori della città di Andria che si offrirono di realizzare il primo livello del campanile, escluso il primo cornicione, a regola d’arte e senza imperfezioni sull’esempio del nuovo campanile del convento di S. Domenico dell’Ordine dei Predicatori di Andria (già esistente). Un documento di 11 anni dopo, del 14 luglio 1777, riporta le modalità di pagamento al maestro architetto Vito Ieva che riceve in questa data la somma conclusiva di 680 ducati in moneta d’argento a saldo della cifra già versata all’inizio dei lavori dai frati francescani che ammonta a 880 ducati, per un totale di 1560 ducati d’argento spesi dal convento per la realizzazione del campanile. In questo stesso documento il maestro Domenico Ieva, fratello di Vito, dichiara pubblicamente di rinunciare ai successivi galdi per aver abbandonato da lungo tempo la costruzione dell’opera.

Sempre da fonti documentarie apprendiamo il nome degli autori delle campane del suddetto campanile; essi sono Gerardo Bruno e Gerardo Olita “della terra di Vignola Provincia di Basilicata” che nel 1782 erano presenti in Andria. Ad essi si commissiona la realizzazione di due campane, da eseguire su loro stesso disegno, con l’impegno da parte del convento di fornire tutto l’occorrente per l’esecuzione del lavoro, come creta, ferri filati, cera, lana, carboni, legna e mattoni per la fornace, rame e stagno. Il prezzo pattuito per le due campane fu di nove ducati in moneta d’argento da pagarsi ai due maestri che avrebbero lavorato in Andria ed ai quali il convento, come consuetudine, si impegnava ad offrire vitto e alloggio per tutto il tempo necessario al lavoro che doveva essere ultimato nell’arco di un anno, cioè nel 1783.

[testo di Gabriella Di Gennaro, tratto da "La chiesa di S. Francesco. Appunti di storia, arte e spiritualità",
di Antonio Basile, Grafiche Guglielmi, Andria, 1995, pp. 45-55]

(1) G. Borsella, Andria Sacra, p. 175.
(2) Il primo altare è intitolato a S. Francesco d’Assisi, del quale si ammira superiormente nella cassa una tela con la sua immagine che stringe fra le braccia il Crocifisso, con accanto un vaso contenente acqua, una scodella, un libro, ed ai piedi un cappello da pellegrino, mentre il suo compagno gli legge un libro, che sarà forse la sacra scrittura o il salterio. Il secondo altare in origine era intitolato all’Addolorata la cui statua in legno era riposta in una nicchia chiusa da fasce di noce. Questa statua, lavorata a Napoli, come anche l’altare di finissimi marmi, si devono alla generosità della famiglia Iannuzzi di Andria. Ora tale altare è dedicato al Sacro Cuore, mentre la precedente statua dell’Addolorata è situata in una nicchia nell’altare del Cappellone costruito a spese del conte Onofrio Spagnoletti - Zeuli sempre in Andria. Il terzo altare è dedicato alla Madonna degli Angeli poiché la cono porta l’immagine di Maria a cui piedi si vedono S. Biagio, S. Antonio Abbate e S. Bonaventura Cardinale, il cui berretto di porpora gli vieta, affidalo da due serafini. Il quarto altare anticamente era dedicato a S. Antonio di Padova di cui la tela raffigura l’immagine del Santo, genuflesso ai piedi del bambino Gesù, con ai lati due angeli, uno col giglio in mano (simbolo di purezza) e l’altro con un libro. Ma in seguito questo altare di S. Antonio venne distrutto per mettere in comunicazione il Cappellone, costruito annesso alla chiesa, con la chiesa ed il quadro di S. Antonio fu trasportato all’altare quinto, intitolato prima all’Immacolata. Cosicchè oggi gli altari siti nella chiesa sono cinque, ed il sesto (quello dell’Addolorata) è sito nel Cappellone chiuso da una cancellata di ferro che lo separa dal resto della chiesa. Il quinto altare, prima dedicato all’Immacolata, ora è intitolato a S. Antonio di Padova ed infine il sesto è per il culto di S. Giuseppe da Copertino.
(3) Cfr. M. Pasculli Ferrara, op. cit., 1988, p. 261, figg. 26-27 e M. Pasculli Ferrara, Gli altari del SS. Sacramento nella Diocesi di Castellaneta, in atti del Convegno nel IX Centenario della Diocesi di Castellaneta, a cura di C. D. Fonsoca, Galatina, 1993.
(4) È interessante sottolineare un particolare inedito che emerge dal mio studio su questo medaglione. Il cerchio di lapislazzuli è costituito da quattro pezzi ricavati, a strati, da un unico blocco di questo materiale e ciò è rilevato dalle "macchie" del materiale e dalle giunture.
(5) II similoro è una lega di rame-zinco-stagno (nella proporzione: 84% di rame, 9% di zinco e 7% di stagno) che ha lo stesso colore dell’oro.