Ritrovamento della Croce: modelli iconografici in Santa Croce ad Andria, di D. Miccoli

Contenuto

Premessa

frontespizio della tesi della Miccoli

Si riportano le conclusioni che la prof.ssa Daniela Miccoli pone nelle ultime pagine della sua pregevole tesi di laurea del 2015 in "Storia delle Arti nel Medioevo", dal titolo “Il ritrovamento della Vera Croce: modelli iconografici e analisi stilistica degli episodi affrescati nella chiesa di Santa Croce ad Andria”, perché propongono al lettore e studioso una sintesi organica e coerente di quanto gli eventi storici, i retaggi locali e gli interscambi culturali attivi in quel tempo abbiano influito nella realizzazione degli affreschi in questa nostra chiesa rupestre di Santa Croce ai lagnoni.

Quanto è scritto tra parentesi quadre non è nel testo originale, ma è un'osservazione o un commento o una sintesi del redattore di questa pagina; anche i link di ancoraggio ad altre pagine sul web non sono nel testo originario.


da

Il ritrovamento della Vera Croce:
modelli iconografici e analisi stilistica degli episodi affrescati nella chiesa di Santa Croce ad Andria

  

Conclusioni

di Daniela Miccoli

(stralcio da pag. 95 a pag. 99.

La datazione del ciclo affrescato della Inventio Crucis, un unicum nella nostra regione (402), alla fine del XIV secolo permette, sulla base dell’analisi stilistica di avanzare alcune considerazioni che vanno inserite in un contesto che vede il ruolo egemone di Napoli nella cultura artistica del Mezzogiorno d’Italia, che ha veicolato negli affreschi andriesi influenze di segno napoletano.
Noto è infatti il legame che legò la committenza del Balzo, cui è ascritto l’ultimo strato di affreschi della chiesa di Santa Croce, con gli Angioini di Napoli. Una relazione che si ricollega, sotto il profilo artistico, agli intensi rapporti intercorsi tra Napoli e i paesi d’Oltralpe, in una sorta di assimilazione culturale del gusto francese e insieme occitanico individuato da Leone de Castris in alcuni contesti pugliesi, nonché un ponte verso i contemporanei sviluppi della pittura toscana, in particolare senese, che a partire dalla metà del Trecento si diffuse nel regno meridionale a segnare l’apertura naturalistica e goticizzante dell’ambiente napoletano verso la fioritura artistica avignonese.
Questo riferimento ci porta a considerare l’identità dell’arte senese caratterizzata, tra la metà del XIII e il XV secolo, dallo sviluppo di espressioni pittoriche dai caratteri stilistici originali che generarono un altro polo rispetto alla cultura fiorentina rappresentata da Giotto e dai giotteschi, per la fusione delle più alte tradizioni bizantine con gli eleganti modi gotici dei paesi d’Occidente, per il raffinatissimo gusto lineare e cromatico e per l’interpretazione profana dei temi sacri e allegorici.
A questa temperie culturale vanno ricondotti gli affreschi dell’Inventio ad Andria; in essi si coglie una matrice occidentale, una predilezione per la narrazione, per la resa del naturale, del movimento che emerge ancor più chiaramente al confronto con gli stereotipi bizantini ravvisabili in alcuni brani pittorici presenti nella stessa chiesa di Santa Croce.
In questo quadro, quindi, si può osservare come il polo napoletano avesse sostituito Costantinopoli negli orizzonti della cultura artistica pugliese, evolvendo da un mondo culturale all’altro.
Il maestro di Santa Croce, autore dei riquadri dell’Inventio Crucis, attivo alla fine del XIV secolo, può essere quindi considerato come un provinciale epigono dell’arte senese.

Dell’originario programma iconografico di Andria rimangono attualmente soltanto quattro riquadri, ma in origine dovevano essere almeno sei, due dei quali furono completamente distrutti dall’apertura di una finestra nel 1888.
Il ciclo prende avvio con l’arrivo di Elena a Gerusalemme, dove l’imperatrice sopraggiunge a dorso di un cavallo bianco, seguita da un corteo. Questa specifica tipologia doveva derivare dall’iconografia medievale d’Oltralpe (403); viene inoltre conservata l’antica usanza iconografica di rappresentare l’imperatrice con dimensioni maggiori rispetto ai giudei.
Particolare attenzione è dedicata alla scena dell’Adorazione della Croce collocata nel secondo registro, a sinistra. Interpretabile come immagine devozionale, pone l’accento sulla croce come reliquia e stabilisce una relazione iconografica con il rito. La croce grandeggia al centro della scena, purtroppo di non facile lettura per le estese lacune, ricordo di schemi bizantini nei quali Elena e Costantino erano raffigurati in piedi ai lati della croce, con riferimento alla festa della Santa Croce celebrata il 14 settembre. L’arte bizantina produsse solo di rado Inventiones a carattere narrativo e, in quei casi, si attenne a questo schema. Dal XII secolo l’Occidente importò schemi simili, divenuti familiari grazie a stauroteche arrivate dell’Oriente.
Nella sua particolare iconografia, l’artista di Andria ha coniugato i vincoli architettonici della composizione con una certa economia narrativa, ed è riuscito a mantenere un riferimento al modello greco. Le tessiture accuratamente dipinte sono le stesse dei materiali veri, ma veicolano altresì un profondo riferimento simbolico alla reliquia come lignum vitæ così come osservabile anche su stauroteche come la croce di Lorena (XII secolo) nella cattedrale di Bari (404).
Il ciclo andriese mostra dunque legami con quel commercio di reliquie e memorabilia dalla Terrasanta e da Bisanzio, di cui questa zona della Puglia evidentemente risentiva.
Ad Andria le scene del registro inferiore uniscono il modello ieratico bizantino e quello narrativo latino, dando vita ad una contaminazione di linguaggi, sulla base di quell’interscambio greco-latino che è tipico delle chiese rupestri (405).

Le sei scene del ritrovamento della Croce

La selezione delle immagini operata dal frescante di Andria, tratte dalla Legenda aurea di Jacopo da Varagine, ridusse il racconto alla celebrazione dell’Inventio, ciò va probabilmente ricondotto alla destinazione devozionale e liturgica degli affreschi. In essi si può evidenziare una certa vivacità narrativa soprattutto nella scena dell’Inventio e verifica della Vera Croce; qui, quasi ricalcando lo scorrere continuo, visionario e plastico di Jacopo da Varagine, l’artista riesce a illustrare i contenuti della Legenda in modo diretto, esaltando gli accenti popolareschi e i toni miracolistici e suggerendo la stessa meraviglia della fonte scritta da cui ha attinto. L’accentuato tono narrativo sembra suggerire, inoltre, finalità didattiche che collocano la pittura nel solco della predicazione e del suo utilizzo come Biblia pauperum, non tanto in virtù dei contenuti simbolici e dottrinari quanto per la natura straordinaria dei fatti narrati.

Per quanto concerne il motivo che portò a dipingere una Inventio crucis in questa chiesa rupestre, ipotizzo possa ricondursi a più fattori, anzitutto l’anti-giudaismo.
La leggenda del ritrovamento è la storia dell’ebreo convertito: un ebreo si converte al cristianesimo alla luce di una prova tangibile, la Croce di Cristo. Nei pressi di Santa Croce era infatti insediata una comunità ebraica. Nel ciclo andriese gli ebrei sono rappresentati con i tipici attributi, Giuda ha una lunga barba e porta il tallit, lo scialle per la preghiera indossato dagli uomini in sinagoga ed è rappresentato come estraneo, non parte del gruppo in cui è inserito.
Un secondo fattore potrebbe essere identificato nella protezione dinastica dell’ecclesia romana all’insegna del legno della croce. Ad indirizzarmi verso quest’interpretazione è stato l’affresco di Papa Urbano V (1310-1370) posto di fronte alle scene dell’Inventio, che suggerisce una dinamica tra Roma e Gerusalemme, tra Pietro e Paolo e la croce. Francesco del Balzo, infatti, intrattenne buoni rapporti con il pontefice, uno dei primi papi che cercò di riportare la curia da Avignone a Roma. La data della morte di Urbano V, inoltre, concorre a definire un termine post quem per la datazione degli affreschi.
Ultimo fattore potrebbe essere la presenza di una reliquia ad Andria. Non si trattava di un frammento della croce ma di una spina della corona imposta a Gesù suppliziato. Nel 1237 il re crociato Baldovino II vendette a Luigi IX di Francia una parte della corona di spine che si conservava a Costantinopoli dal 1063. Alcuni esemplari delle spine raggiunsero l’Italia grazie alle visite di Carlo II d’Angiò; nel 1308, sua figlia, Beatrice d’Angiò, sposa novella di Bertrando del Balzo, primo duca di Andria, la donò al Capitolo Cattedrale della città come segno della sua benevolenza.
La reliquia mise i duchi in connessione con la Terrasanta, Costantinopoli e Parigi. Per la traslazione da Parigi a Costantinopoli fu costruito nel 1239 un edificio reliquiario, la Sainte-Chapelle; in una delle vetrate è raffigurata la storia dell’acquisto della reliquia di re Luigi abbinandola alla leggenda del ritrovamento della Vera Croce. In questo modo la casa d’Angiò, che aveva interessi in Puglia, si propose in continuità con l’Inventio archetipica e con la custodia dell’eredità cristiana similmente a quanto, seppur in scala minore, espresse il gesto della famiglia del Balzo.
Dubbia, ma non da escludere, la possibilità che qualche membro della famiglia del Balzo si fosse recato in pellegrinaggio a Gerusalemme. Molte vie di pellegrinaggio infatti convergevano dal nord Europa in Puglia per poi continuare oltremare; le tappe del percorso pugliese prevedevano una sosta a S. Michele a Monte Sant’Angelo o a S. Nicola a Bari. Dal porto di Trani i pellegrini partivano alla volta della Terrasanta diretti a Gerusalemme. Ulteriore tappa era inoltre Barletta, non lontana da Andria, con la sua chiesa del Santo Sepolcro che conservava un’importante reliquia della croce donata ai canonici dal patriarca Randolfo di Granville tra il 1299 e il 1304.

Ad Andria la leggenda del ritrovamento non è ospitata in una cappella reale ma nell’umile roccia tufacea di una grotta. Gli affreschi potevano forse rappresentare un’anteprima della destinazione finale che attendeva quanti facevano sosta per vedere la spina. Le scene della chiesa di Santa Croce potrebbero essere interpretate quale traccia di come il medioevo immaginava i luoghi santi gerosolimitani.
Per quanto concerne le soluzioni iconografiche che vengono messe in atto mi sembra alquanto azzardato condividere quanto asserito dalla Losito che vede nella pianta della chiesa rupestre di Santa Croce del X secolo una riproposizione di quella messa in atto nella cappella del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Sulla base degli studi di dell’Aquila e Messina mi sembra più ragionevole pensare che questa chiesa rupestre appartenga, nell’originaria pianta, al gruppo a pianta centrica di tipo bizantino a croce greca inscritta con quattro pilastri centrali (406).

arco trionfale (foto tratta dalla tesi di Daniela Miccoli)

La chiesa di Santa Croce restituisce dunque un documento storico di enorme valore che, sebbene slegato dal contesto urbano attuale, spero possa tornare ad essere uno dei monumenti più interessanti e ricchi di storia che la città rende al suo popolo grazie ad un attenta e capillare attività di sensibilizzazione culturale nonchè di tutela del patrimonio storico-artistico.

NOTE    (abbreviate nel testo originale con richiamo alla bibliografia, qui riportate per esteso)
(402) L’informazione proviene dalla dott.ssa R. LORUSSO nell’ambito di un incontro sul tema La chiesa rupestre di Santa Croce di Andria: un patrimonio da restituire alla comunità, 9 Marzo 2013, Andria, chiostro di San Francesco.
(403) M. Luzietti, Culto e rappresentazioni della Croce nell’età della Controriforma. Itinerario nei territori dello Stato Pontificio, Dottorato di Ricerca in Storia dell’Arte, Università Sapienza, Roma 2012, p. 113.
(405) B. Baert, Op. cit., Ibid.
(406) Franco Dell’Aquila, Aldo Messina, Le chiese rupestri di Puglia e Basilicata, Mario Adda Editore, Bari 1998, p. 2.

… … …