I lagnoni e S.Croce - R.O.Spagnoletti

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I LAGNONI E SANTA CROCE IN ANDRIA

INVESTIGAZIONI di Riccardo Ottavio SPAGNOLETTI

Bari, Stab. Tip. del Meridione, 1892

[In appendice a questa riscrittura elettronica riporto degli estratti da due lettere,
una del Prof. Cosimo De Giorgi (medico e scienziato, 1842-1922),
l'altra di R. O. Spagnoletti, ambedue, dirette all'Editore,
in merito alla presente investigazione sui Lagnoni e Santa Croce.]


di Riccardo Ottavio Spagnoletti (1829-1892)

Vetustus quidem nobis semper
(si sapimus) adoranda est.
Macr. Saturn. L.III Cap.XIV.

I. I Lagnoni.

In Andria, uscendo da porta Sant'Andrea, memoranda per l'entrata trionfale di Federico II svevo, si ha di fronte la chiesa suburbana delle Croci: e di là volgendo a sinistra, se si torce per l'angusta strada dei Parchi, si va a riuscire su d'un quadrivio. Qui tra 'l ponente e 'l mezzogiorno della città v'è una strada vicinale, che in una contrada, detta i Lagnoni di Santa Croce, discende dalla collina. A destra di questa strada si vede la stessa collina, ch'è tutta di masso tufaceo, essere stata profondamente tagliata dal dosso al piede, in modo da formare una spianata semicircolare, a figura d'anfiteatro, e del perimetro di 319 metri.

Nel mezzo della spianata fu lasciata integra una gran mole dello stesso tufo, dentro alla quale si vede scavato un oratorio dedicato al culto della croce e denominato di Santa Croce. Il perimetro esteriore di questo bizzarro tempietto è di 90 metri e 70 centimetri. Il taglio della collina fa da ricinto alla spianata nella parte orientale e settentrionale di essa, mentre nel resto s'eleva un rozzo muro artificiale; dal quale sulla strada, si scende nello sprofondamento per via d'una porta sormontata da una rozza croce di legno. Il vigneto dei signori Marziani per otto metri e mezzo pende dalla collina sullo sprofondamento, come su d'un precipizio; mentre a compiere il malinconico quadro di paesaggio rigogliosi ortaggi e lussureggianti piante leguminose stendono sulla spianata come un tappeto verde, dal quale si leva un tetro oliveto; la cui estensione è di 30 are e 24 centiare. Tutto in questo sito spira profonda mestizia e sforza l'animo a fantastico misticismo.

Gli storiografi paesani, annebbiate da favole erudite, si stillano il cervello: il Durso per trovare in Andria la Nezio di Strabone: e 'l Pastore e 'l Durso insieme per trovare che Andria, secondo il primo, fu costrutta, e secondo l'altro, fu ricostruita da Diomede, che emigrò in Puglia per isfuggire al dolore e alla vergogna degli sfregi coniugali, fattigli da Egiala. Intenti a dar la stura alla dotte fole, non degnano l'antichissima critta, che d'uno sguardo fuggevole e spensierato. Se ne strigano, il Pastore dicendola [1] e l'Durso[2] ridicendola dei tempi di Costantino, aggiungendo favole a favole. Magari avessero atteso a descriverla, mentre specialmente ai tempi del Pastore, meglio conservata, dovea di certo serbare importanti vestigie, oramai disparite. Senza alcun aiuto quindi mi tocca a brancolare nel buio e a via d'indagini e congetture cercare di scoprire quello che si possa.

Comincio il mio studio dal nome della contrada suburbana, i Lagnoni.

Lagnoni è il plurale e l'accrescitivo di lagno. Lagno fu voce adoperata nel dialetto de' tempi di mezzo nelle province meridionali e specialmente nella Campania, per indicare un fosso, o letto artificiale per deviazione d'acque paludosa. Nel Du Cange[3] si trova lo stesso significato alla voce Landea o Landia. «Landea vel Landia, vox in palustribus nota regionibus: fossa nempe in paludum margine circumducta excipiendarum gratia, quae a vicinis et montanis tractibus derivantur: easdemque aut in mare, aut in fluvium celebrem deducens, ne paludes opprimant scaturientes: a Land, terra, et Eia, aqua; ut aquam terrestrem suscipens.»

Dal latino Landea o Landia deriva il volgare lagno per quello stesso procedimento fonetico, per cui da Laubia o Lobia si venne formando loggia [4] e, più propriamente pel caso nostro, da verecundia fu prima formato verecunnia e poi vergogna[5].

Ondechè il nome di Lagnoni, venuto a questa contrada, indicherebbe più lagni e a grosse proporzioni.

E in verità l'aspetto di essa induce a credere alla esistenza di grossi lagni, secondo il significato che aveva questa voce ne' tempi di mezzo. Difatto dal mezzogiorno di Santa Croce sino alle rocce calcaree, sulle quali oggi si leva il pubblico macello, v'è un ampio sprofondamento di suolo, mentre in giù della strada vicinale si vedono parecchi scoscendimenti che da mezzogiorno discendono nella valle sottostante a Cristo di Misericordia, altra chiesetta rusticale. Se vi fosse un sufficiente volume d'acque, avremmo certamente anche oggi nello sprofondamento una non breve palude; alla quale gli scoscendimenti sopraddetti farebbero da lagnoni, deviando le acque paludose e riversandole nella valle che si distende a settentrione di Cristo di Misericordia.

Ma come si può credere alla esistenza di fiumi e paludi e quindi di lagni e lagnoni nelle sitibonde terre di Andria?

Le terre di Andria non pare che siano state sempre aride, come le vediamo oggidì. Fu tempo e non antichissimo, quando dovettero essere irrigate da correnti fluviali. Ne fanno fede gli alvei e la ghiaia speciali de' fiumi, trovati nelle scavazioni e in uno strato non molto profondo dell'attuale superficie.

Queste vestigie trovano riscontro in indicazioni erudite assai evidenti. Nell'antica tavola di Corado Peutinger fra Bardulis (Barletta) e Turenum (Trani) si vede segnato un fiume Aveldio ( fl. Aveldium)[6]. Il Forges fu il primo a scoprirne la foce nel sito delle Paludi di Barletta, il cui tufo lacustre era stato osservato e disaminato dal Giovene. Il Forges da quelle Paludi risalendo per delineare il corso del fiume guidato dal movimento topografico della campagna e delle tracce fluviali, venne a riuscire nella valle che si sprofonda ad occidente della Colonia Agricola provinciale, valle denominata di Santa Margherita fino alla metà del secolo XVI e della Madonna d'Andria d'allora in poi. [7]

Così fino alle Murge fu determinato il cammino di questo fiume disparito, che pur talvolta riappare dopo larghi acquazzoni autunnali torbido e arcigno sotto la forma di alluvione, riprendendo con impeto irresistibile l'antico suo letto.

Ma, oltre all'Aveldio, le campagne di Andria dovettero essere irrigate da ruscelli tributarii di questo fiume. Il Corcia parla de' ruscelli Arasciano e Boccadoro, credendoli disviati dal loro corso antico.[8] Lorenzo Troya, non dimenticabile amico e solerte ricercatore di memorie ed anticaglie cittadine, mi affermava 40 anni or sono, che nelle scavazioni, fatte, per mettere le fondamenta al palazzo ora appartenente al Signor Ceci Martinelli, egli avea scoperto il letto d'un ruscello con arena e ghiaia fluviali. Lo stesso m'assicura l'avvocato Nicola Leonetti d'essersi rinvenuto a quattro metri nelle scavazioni per le fondamenta del suo palazzo a fianco di Santa Maria Vetere: lo stesso rinvennero altri sulla strada che sale verso le Murge, seguendo il corso delle alluvioni.

Vi dov'è dunque essere da quest'altro lato della campagna di Andria un ruscello, che disparito lasciò in eredità l'antico suo letto alle alluvioni. Queste, sepoltolo sotto un fitto strato del terreno, che sottraggono specialmente alle Murge, vi corrono sopra con impeto disastroso. Seguendo il corso attuale delle alluvioni, penso, che questo ruscello per la via che va sotto alla collina Monte Faraone o Guaragnone, scendea ad oriente di Santa Maria Vetere e di là fin sotto a Sant'Angelo al lago, dove le alluvioni si diffondono come in un lago.

Di là si protraea a mezzogiorno della città sotto alle mura, il cui suolo laterale oggi è di non poco rialzato o artiicialmente o per diminuito volume delle alluvioni. Indi torcea ad occidente fino alla valle di San Lorenzo, e di là, correndo sempre ad occidente, torcendosi e ritorcendosi ancora, andava a riversarsi nell'Aveldio.

Le indagini su cotesto ruscello trovano conferma in antichi documenti storici. Il cronista Leone Ostiense sotto al 5 di maggio 943,[9] narrando d'una restituzione di beni, esistenti in Puglia, fatta alla Badia di Montecassino da Basilio, protospatario imperiale, novera cotesti beni, e di quelli di Andria dice: In Andre vineas et olivos; e soggiunge: in rivo, qui dicitur de Monacho, curtem. Dunque in quei tempi v'era in Andria un ruscello che si denominava dal Monaco; e su questo ruscellov'era una corte (curtem). Alla voce curtis, secondo l'uso della bassa latinità, il Du Cange dà il significato di villa, habitatio rustica edificiis, colonis, servis, agris, personis ecc. ad rem agrestem necessariis instructam.[10] Questa voce s'estendeva ad indicare anche tutto il podere, cui la corte soprastava; e tra signori, coloni e servi si veniva formando il nucleo del loco, vico o pago. [11]

Ed è notevole che sulla via, per cui dov'è discendere il ruscello e ora precipitano le livide acque alluvionali, v'è un podere, che tuttavia si denomina dal monaco. Il nome di codesto podere è Monachicchio, che nel dialetto è diminutivo di Monaco.

Ed è negli usi rustici di Andria e di altre città del Barese, che un tenimento minore prenda in diminutivo lo stesso nome del territorio maggiore, cui sia attinente. Per esempio, ne possedimenti della Provincia di Bari in Andria un latifondo è denominato Papparicotta, mentre un fondo minore, ad esso attinente, ha il nome di Papparicotticchio. Perciocché è da ritenere che il podere Monachicchio faccia supporre un'altra maggiore distesa, detta Monaco: distesa che in seguito andatasi dividendo e suddividendo, con l'assumere ciascuna parte il suo nome speciale, abbia sperduto il primitivo nome collettivo. Di certo la badia cassinese dovè delegare la sopraintendenza ai possedimenti di Andria ad uno dei suoi monaci e questi dovè abitare la corte: appiede della quale scorreva il ruscello e intorno a cui si distendeano le terre della badia. Ecco perché terre e ruscello presero nome dal monaco. Così Monaco, divenuto il nome del podere maggiore, il minore, attinente ad esso, fu denominato Monachicchio, nome che tuttavia perdura.

La cronaca di Leone ostiense conchiude dicendo, che gli atti della restituzione di codesti beni alla badia di Montecassino furono da Basilio scritti e dati ai monaci in cartam proprio sigillo bullatam [12]. Cercando quindi in Montecassino questa cartam, si trova nel regesto di Pietro Diacono con questa intestazione: Praeceptum basilii imperialis prothospatarii de possessionibus sancti benedicti in Apulia et sancio benedicto in Canusio [13]. Questo praeceptum è di Basilio Argiro di Mesardonia, che al marzo del 1011 fu mandato capatano in Puglia a domarne la insurrezione. [14] Questo diploma quindi è di parecchio posteriore al tempo indicato dal cronista ostiense. E di fatto il praeceptum reca la data dell'ottobre, XI indizione, anno ab initio mundi sex millia quingentos viginti, cioè il 1011 dell'era volgare. Lasciando da parte la disamina di tale contraddizione cronologica,[15] come inutile al mio proposito, dico che la sostanza del diploma di Basilio Mesardonita è in tutto conforme a quanto narra Leone. Se non che, giunto ai possedimenti che i monaci cassinesi aveano in Andria, il praeceptum dice così: Et in civitate tranensis, in villam que est de ipsa civitate, qui cognominatur Andre, vinee deserte et olivetalia vigintiseptem in ipso rivo, qui vocatur de ipso monacho, teritorie. Oltre a questo documento fornitomi dall'Archivio di Montecassino, ve n'è un altro precedente, del mille, ed è di Gregorio Tracaniota, all'intutto identico a quello di Basilio.[16] E ve n'è ancora un terzo del 1032 di Photo Argiro,[17] che dice così: Eb sub trane in loco Andre vinee deserte habentes et olive arvores XXVII et ad rialem, [18] quod dicitur de monachis, terre.

Non divago in altre considerazioni, che pur sono gravi e nascono dai decreti di codesti catapani dell'impero d'Oriente nelle Puglie. Mi restringo solo a stabilire che nelle terre di Andria, oltre al fiume Aveldio, v'era il ruscello del Monacho, che dopo le piogge d'autunno si cangiava in torrente, e che seguendo il corso delle alluvioni d'oggidì, per andare a scaricarsi nell'Aveldio, passava a destra di lato ai Lagnoni di Santacroce. Un altro, se non forse ruscello, certamente torrente, passava a sinistra degli stessi Lagnoni. Se n'ha indizio nelle vestigie fluviali, trovate nelle scavazioni fatte verso la carrettiera provinciale che da Andria va a Canosa.

Così è spiegato pienamente il nome antico di Lagnoni, dato a quella contrada. Le acque scorrenti da mezzogiorno formavano una palude, il cui letto si vede dopo tanto volgere di secoli: e questa era incanalata, sviata e sospinta nel fiume Aveldio per via del ruscello del Monaco, nel quale si scaricava nella valle ch'è a settentrione di Cristo di Misericordia.


II. Santa Croce

Ed ora senz'altro diciamo della critta di Santa Croce.

Santa Croce si sprofonda per circa due metri sotto alla strada vicinale de' Lagnoni. [19] La porta, per cui discendendo, s'entra nell'ima spianata, pare costrutta nel tempo della dominazione angioina, o non molto dopo. Vi si vedono di fatto l'abuso dell'arco acuto ed altri segni caratteristici dell'arte franco-tedesca, successa a quella elegante e splendida del tempo svevo.

Per questa porta in linea retta, da mezzogiorno a settentrione, si va a passare trasversalmente dinanzi all'oratorio, che invece si stende da ponente a levante, come nei tempi di mezzo era prescritto per ogni chiesa. Questo diverso indirizzo della critta e della porta esteriore, costruita indubitatamente in seguito alla scavazione, è un argomento di più per farci giudicare, che porta e scavazione non siano coetanee all'oratorio. L'argomento principale sta nella diversità nelle fattezze architettoniche tra oratorio e porta. D'altra parte la scavazione non troverebbe alcuna ragione d'essere nella critta, o in checchesiasi altro, che non fosse il bisogno di estrarre il tufo, nel Barese, più che la pietra, adoperato nelle costruzioni urbane e rurali. Il tufo dové cominciare ad essere scavato dalla sdrada e dal sito più agevole, cioè il più basso: e quindi di là si procede da mezzogiorno a settentrione. Scavando, si ebbe in animo di non offendere l'oratorio di Santa Croce: e così gli fu lasciata intorno, per sua sicurezza, abbondante spessezza di masso calcareo, ed è perciò potuto sopravvivere fin oggi, non ostante l'azione nemica del tempo, la non curanza, l'abbandono e la mania sciagurata di distruggere o difformare quanto ci sia d'antico e di considerevole tra noi.

La critta dovè dunque essere scavata nel seno della collina dalla parte occidentale di essa fra le roccie dal carparo, discosta dalla strada e nascosta tra le piante. È uno di quei tempii, che il cristianesimo inadulto avea nelle forme materiali imitato dai tempii a grotta, detti wiswakarma, dei buddisti, conservati specialmente sui monti Ghat[20]. La campagna intorno e per non breve circonferenza era sparsa di grotte, le più messe in fila e di poco lontane l'una dall'altra. In questi ultimi trent'anni quasi tutte codeste grotte sono sparite, quali per sicurezza della strada, cui lateralmente sottostavano, quali per essere state destinate a cisterne, o ad altri usi rusticali. Era assai notevole una di esse, che per lunghissima via sotterranea andava a riuscire in un'altra grotta, ch'era a fianco di Santa Maria Vetere sulla strada, che addirittura mette alle Murge.

L'oratorio, circondato da grotte, solite celle sotterranee monacali dei tempi di mezzo, non dimostra che i Lagnoni debbano essere stati in antico abitati da monaci? Non pare di vedere nei Lagnoni di Santa Croce gli avanzi di un antico cenobio?

Di codesti cenobii, scavati nel vivo ve ne furono non pochi nel Barese e molti di più in terra d'Otranto ed in Calabria.[21]

Ed ora sorge naturale una interrogazione. Quali dei monaci potettero scegliere i Lagnoni di Santa Croce a loro solitaria dimora?

Sorta con Paolo nella Tebaide l'austera consuetudine dell'eremo, Antonio e Pacomio dettero vita alla istituzione meno aspra del monacato. Basilio, con maggior precisione di Pacomio, dette regola e disciplina alla convivenza monastica e i monaci si denominarono da lui.[22] Anastasio, Ammone ed Isidoro trapiantarono il monacato in occidente [23] dove mutò carattere e da meditativo si fece splendidamente laborioso, [24] rendendo alti servigi alla civiltà. Dappoichè sorse poderoso fra la dissolvente accidia e l'ignoranza supina di tutti: e nelle umide e solitarie celle furono coltivate scienze, lettere ed arti gentili e da esse uscivano robusti agricoltori e valorosi artigiani. La libertà, data ai servi dopo tre anni di monacato,[25] trasse a folla ai monasteri tutti gl'insofferenti di catene servili; ed il monacato divenne così il principio d'una pacifica rivoluzione sociale contro il servaggio.

A dirla in breve, il monacato antico meditò vigorosamente nell'oriente e poderoso e benefico nell'occidente riversò nella vita intellettiva, artistica, politica, agricola ed industriale le idee meditate.

Non foss'altro, in esso si rispecchiano i tempi di mezzo, la loro cultura, la loro civiltà e ne' primi voli, l'arte nuova e la scienza nuova della civiltà cristiana. Ne' monumenti monastici quindi è scritta tutta la storia de' tempi più poetici, quelli dell'alba della civiltà moderna.

E qui mette bene di notare come in Italia e specialmente nelle provincie meridionali, oltre al monacato indigeno, vi furono frequenti emigrazioni di monaci orientali. Le più numerose seguirono quando Leone Isaurico e i suoi successori per oltre ad un secolo, arsi da furori teologali, inferocirono contro le imagini, insanguinando l'impero, distruggendo opere d'arte e disfacendo monasteri e cenobii. I monaci, che riuscirono a sfuggire al ferro, al capestro ed alle atrocità degl'iconoclasti, ricovrarono in Italia e specialmente in Puglia ed in Calabria; e ricostruendosi in queste nostre regioni i loro monasteri, scavati nel vivo, a somiglianza dei tanti che aveano in oriente e specialmente sul monte Athos, si dettero a dipingere e scolpire imagini, mossi, oltreché dal sentimento dell'arte, anche da riazione iconofila e dal dolce e mesto ricordo della patria lontana. E neanche nella nostra regione trovarono pace a lungo. I saraceni invasero le nostre terre, spargendo dappertutto sangue, morte distruzione e terrore.[26] Dal littorale e dai siti più appariscenti i monaci dovettero fuggire ne' più aspri e selvaggi, per sottrarsi alle ferocie camitiche e vivere e lavorare e pregare come di soppiatto.

Ed ecco in rapidissimo sunto le vicende del monacato antico. Ed ora vediamo quale famiglia di monaci poté per avventura abitare i Lagnoni di Santa Croce. Furono essi latini o greci? In che tempo potettero scavare nel tufo dei Lagnoni l'oratorio e le loro celle?

Non vi sono, che io sappia, libri, che ne parlino: non documenti, che accennino al monastero dei Lagnoni. Nella critta non vi è alcuna data o epigrafe, come si riscontrano in parecchie di Terra di Otranto,[27] Gli storiografi paesani ne parlano con disattenzione e disaiutano invece con le loro fantasticherie. Non resta che vedere di trarre profitto da uno studio sulla critta stessa. Vediamo, s'è possibile, che questo bizzarro monumentoparli da sé: ci dia qualche indizio della sua origine. Esaminiamolo attentamente in ciò che di esso ci resta.

Non posso tener conto d'un vestibolo in muratura, messo innanzi alla critta. È volgare opera recente così come recenti sono le figuraccie, che ne imbrattano le pareti interne. Si vede, che il primo ingresso della grotta fu dovuto tagliare per rifarlo in altra forma e in muratura. Da esso si entra nell'umido e triste oratorio.

Questo è di forma basilicale, a tre navatine sorrette da quattro pilastri naturali e terminate da una quarta navatina trasversale. L'altare sorgeva nel mezzo di questa e dietro ad esso si prolungava la navatina longitudinale mediana con un' abside semicircolare: al basso delle cui pareti si vedeano fino al 1888 i segni degli stalli del coro, ricacciati dal masso. Oggi non si vede più nulla. Il Cappellano (Dio gli perdoni!) allargò, allungò e deformò l'area dell'abside, scavandovi da tutti i lati, facendo disparire i segni del coro e ogni altra traccia d'antico, offendendo le ragioni euritmiche di quel bizzarro tempietto e portando in fondo un brutto e discordante altare. Così infiacchì la critta e ne affrettò la rovina. E non soddisfatto nel suo estro di disfacimento, le soprappose un grottesco campanile, aprì quattro disgraziate finestre e al fianco sinistro dell'ingresso scavò e profondamente e turbò perfino la pace dei defunti, sfidando i rigori del codice penale. A dire in breve fece con invereconda imperturbabilità tutto il peggio che potea.

E si consideri che le vestigie d'un coro nella abside c'indicavano che codesto tempietto non poteva essere anteriore al secolo VIII dell'era cristiana. Si sa nell'archeologia dell'arte cristiana, che i cori non furono anteriori a quel tempo. La prima volta che se ne fa menzione è alla metà del secolo VIII. [28] Ma che importava al cappellano che la critta fosse anteriore o posteriore? Doveva estrarre da essa qualche migliaio di pezzi di tufo per non so che uso.…

E qui è debito di giustizia dire, che se non vi fu Cristo a discacciare a furia di santissime funate dal tempio della fede antica e dell'arte bizantina il torvo profanatore, vi fu il parroco e preposto, D. Michele Patruno e il clero collegiale di S. Nicola, che nell'apprendere la pazza opera di disfacimento si mostrarono profondamente sdegnati. Da ultimo il vescovo Galdi, andato di persona a vedere il deplorevole spettacolo, ruppe in parole di nobile iracondia e con suo decreto interdisse la critta dagli uffici de culto.

Ma torniamo al nostro argomento.

In fondo alla navatina laterale, ch'è a destra di chi entra, si vede addossato al muro anche un altro altarino ultimamente costrutto. Se non si rivelasse da sé di moderna struttura, si dovrebbe desumerlo considerando che le chiese antiche non aveano che un solo altare semplice e nudo d'imagini. Qui invece ve ne sarebbero due contro le regole dell'antica liturgia. E poi questo secondo altaruccio, che si sta come un cavolo a merenda, è sormantato da pitturaccie, che trovano riscontro in quelle del vestibolo.

La critta era tutt'intera istoriata a fresco: ed ora non resta che ben poco degli antichi dipinti.

A riguardare quelle reliquie si è costretti a dirle opera di pennelli bizantini, anche prima di procedere ad un accurato esame critico. Ci si vedono ad occhio e croce le forme dell'arte d'oltremare, a qui fra noi venutesi temperando ed ingentilendo al casto connubio del nuovo ideale cristiano con le reminiscenze e tradizioni delle antiche forme latine.

Le figure sono, è vero, senza risalto pittorico e su fondo duro e monotono; ma il disegno è corretto e le tinte sono assai vive e tali da avere sfidati i secoli. Non possono dirsi senza pregio ed una certa loro propria venustà quelle figure di santi dagli occhi molto oblunghi, dalla fronte austera, dal profilo secco e sottile, dall'aspetto rilevante pietà, rigidezza e misticismo. Questi di Santa Croce a me paiono affreschi molto importanti. Tralascio una minuta analisi artistica che richiede studio più largo e intenso: mi restringo a qualche osservazione su quelle dipinture, che mi paiono più rilevanti per le indagini storiche sulla critta.

Ai lati dell'ingresso vi sono due imagini, l'una virile e l'altra muliebre. Della figura di donna non resta che la graziosa testa. L'effigie dell'uomo invece si conserva tutta intera. È un santo, vestito di tonaca bianca, con la testa tutta chiusa in un nero cappuccio, dal quale scende fino ai piedi un largo e nero scapolare. Nella sinistra ha un libro, chiuso da lacci di cuoio e con la destra levata benedice a coloro, ch'entrano nell'oratorio. Benedice con la forma liturgica orientale, protendendo l'indice e il medio e piegando il pollice sull'anulare e il mignolo abbassati. Questa figura si disegna severa e triste, come l'anima dei cenobiti: essa pare, che ti sospinga dalle malinconie del tempo ai terrori dell'eternità.

Io penso che quest'immagine di santo monaco, intorno al cui capo v'è una larga sfera raggiante, possa essere quella di San Basilio: e che il libro che ha nella mano sinistra sia la regola data da lui ai suoi monaci, detti di poi basiliani.

L'atteggiamento orientale, la foggia orientale del benedire e quella tutta orientale degli abbigliamenti chiesastici, che si scorge negli altri dipinti, mostra che bizantini furono i monaci che istoriarono la critta e quindi bizantini i monaci, che abitarono i Lagnoni. Era dunque nei Lagnoni una laura basiliana.

Le laure costituivano la convivenza monastica dei basiliani. Nelle laure v'erano celle di monaci staccate l'una dall'altra, ma vicine, da formare tutte insieme un bizzarro convento sotterraneo. - Esse erano scavate nel masso tufaceo e doveano avere nell'interno o sedili, o giacigli ricacciati dallo stesso masso, od incavati in esso, per dormire sedendo o distesi su foglie e piante secche, raccolte nelle campagne circostanti. [29] Imperciocchè i monaci della regola più rigida, quella di S. Pacomio, dormivano sedendo e gli altri d'una regola meno aspra e dura dormivano stendendo sull'umido tufo le loro stanche e travagliate membra.[30]

Se le grotte di Santa Croce non fossero state disfatte si sarebbero potuti mettere in evidenza i segni dei sedili o dei giacigli e trarne non lievi conseguenze storiche. Ma se sono scomparsi i segni, vivono ancora le celle sotterranee nella nostra memoria, tanto da farci conchiudere, che quest'oratorio di Santa Croce e quel largo gruppo d'abituri sotterranei, che gli stava d'intorno, non si può ritenerli, che come una delle laure, che i monaci basiliani vennero a piantare nelle nostra campagne più solitarie a simiglianza di quelle, che avevano nelle originarie loro regioni ed in più gran numero sul monte Athos.

Ma innanzi d'andar oltre, mette bene di considerare, che nelle pitture della critta v'è molta temperanza di simboli e allegorie. Anzi, a dir vero di simbolico non vedo altro, che i due dipinti degli archi anteriori e laterali all'abside. In uno sono ritratti ai lati della figura radiante del Salvatore i 4 evangelisti. Essi sul busto loro naturale hanno le teste de' loro simboli. San Marco, ad esempio, ha la testa del leone, San Giovanni quella dell'aquila e così via. È altresì notevole che nella figura del Salvatore non appaia il deforme, cui la strana teologia d'oriente, seguendo le parole di Tertuliano e San Giustino, avea condannata l'effigie di Cristo e quella della madre di lui. Qui invece si scorge l'estetica inspirazione della più ragionevole scuola teologica prevalente nell'occidente. Anzi nel più di questi dipinti si è costretti a presentire non lontana l'alba che precedè allo splendido giorno del rinascimento dell'arte.

Dall'altro lato esteriore dell'abside v'è rappresentata la creazione della donna. Adamo, disteso lungo per terra, dorme sulla grossa, mentre dal seno, apertoglisi, viene fuori Eva, tratta dalla mano di Dio. Ella è già bella e formata, tranne nella metà inferiore della gamba destra, ch'è sullo spuntare. Dì su v'è la divinità creatrice, simboleggiata in una persona a due teste: le teste tipiche del Padre e del Verbo umanato; mentre, terzo, il Paraclito, in forma di colombo, è legato alle altre due teste per via d'una aureola, che circondandone intorno il capo, deriva da una simile aureola più grande, ch'è intorno al duplice capo dell'altre persone della divinità cristiana. La divinità è maestosamente vestita all'imperiale e siede su trono ricco d'oro e gemme.

Ambo i dipinti sono assai bizzarri e perciò più degni di considerazione e studio.

In generale le fattezze de' dipinti e la temperanza de' simboli accennano a tempo meno antico dell'arte bizantina fra noi. Né pare che siano opera di basiliani di fresco venuti d'oriente, ma di monaci orientali, già da tempo stanziati in queste nostre regioni, in modo da avere potute o dovute modificare le tredizioni, le idee e le consuetudini dell'ellenismo cristiano con quelle prevalenti fra i latini.

Perlochè è da dire che i monaci, i quali portarono nei Lagnoni la loro rigida e malinconica figura, furono, non solo posteriori alle persecuzioni degli iconoclasti, ma d'un tempo anche meno lontano a noi. E si noti il sito dove piantavano la laura e come essa fu disposta. Ci si vede lo studio di nascondersi ad ogni sguardo, di non lasciarsi scorgere. Si ponga poi mente alla grotta scavata con quasi un chilometro di andito sotterraneo, sboccante sulla via delle Murge [31]. I basiliani dunque fuggivano; e mentre si appiattavano nei Lagnoni, si sentivano insecuri e si apparecchiavano a nuove fughe in siti più remoti tra i boschi delle Murge. Intanto è da notare, che gli scampati al ferro degli iconoclasti non avessero di che temere nelle Puglie. L'Italia, dal papa ai principi longobardi, s'era tutta levata in armi, come in una crociata contro la tirannide minacciosa degl'iconoclasti. I fuggitivi erano accolti quindi con fraterna ospitalità qui, dove il culto delle imagini era divenuto per reazione per fino stizzoso. Qui i monaci trovavano pace, sicurtà e larghe donazioni. Da chi dunque doveano fuggire?

Invece dal secolo IX fino alla conquista normanna, cioè ai principi del secolo XI, era frequente l'invasione de' saraceni in Calabria e Puglia. I monaci, snidati dai loro sotterranei, perivano fra atroci tormenti. Ondechè fuggivano dal littorale e riparavano in siti più solitarii e selvaggi; e ciò non per tanto, timidi sempre del ferro islamita, s'apparecchiavano a nuove fughe in siti ancor più aspri e meno insecuri. Ondechè, tenuto il debito conto di tutto ciò, si può desumere, che la laura de' Lagnoni sia stata scavata tra'l secolo IX ed i principii del secolo XI.

Gli affreschi però devono essere posteriori alla critta. Ed in verità chi fugge innanzi al ferro dell'assassino non certo pensa a stemperar colori ed impugnar pennelli. Chi teme d'essere scovato ha ben altro pel capo che il desiderio di dipingere figure di santi ed evangelisti e poi ne' siti che dovrà forse abbandonare per sempre. Però non dovettero essere posteriori ai principii del secolo XI. Al secolo delle conquiste normanne, nelle terre su cui signoreggiarono i prodi cavalieri, venuti dalla Normandia, non si formarono più laure, ma si costruirono città: non si scavarono più oratori nel vivo, ma s'innalzarono chiese splendide nello stile pugliese de' tempi normanni. A ciò si aggiunge particolarmente per Andria, che nel 1046 su queste campagne furono abbandonate laure, ville, paghi o vichi. Tutti gli uomini, che finallora li aveano abitati, si raccolsero in una sola terra, Andria, cui Petrone, figlio d'Amico dette l'essere e le mura della città. Guglielmo Pugliese, parlando di Petrone, disse: Condidit hic Andrum [32]; ed il Di Meo giustamente computando, afferma che ciò fosse accaduto nel 1046 [33]. In Andria, stata fin'allora villa de ipsa civitate tranensis, si adunarono non più i servi della gleba, ma i cittadini. Alle laure s'erano accolti i fuggitivi: in Andria, cinta di mura e fortificata dal più dovizioso [34] de' cavalieri normanni, si costituì balda e sicura la nuova cittadinanza accogliticcia. In Andria trovavano pace e tranquillità basiliani e benedettini: trovavano in Petrone fede cristiana e protezione efficace.

Non meno importanti sono le altre pitture di Santa Croce. Per ora basti lo studio di quelle che mi son parse più caratteristiche per le investigazioni propostemi su quest'Oratorio.

Ed ora tanto per compiere questo cenno su Santa Croce, raccolgo quel po' di notizie spicciole che mi è riuscito di rintracciare. Di esse rendo grazie all'amico Monsignor Emmanuele Merra, in parte al preposito Patruno ed al Capitolo Collegiale di S. Nicola in Andria.

Sparvero in Andria l'altre critte nella memoria degli uomini ed anche quella famosa di Santa Margherita, poi Madonna dei Miracoli; ma questa di Santa Croce non fu obliata o abbandonata mai. Ciò dimostra come questa fosse la critta più importante fra tutte.

In essa fu stabilita una confraternita con due priori, uno laico e l'altro ecclesiastico. Non so ancora da quando fosse stata stabilita; ma so che nella fine del secolo XVII era in istato di piena dissoluzione. Dagli atti della Santa Visita di Monsignor Triveri[35] si desume che nel 1694 il priore laicale, certo mastro Leonardo Auricchio, mandava alle calende greche la nomina dell'altro suo collega ecclesiastico; mentre aveva abusivamente portato a casa un grosso crocefisso ed altro[36]. Nel 1697 il vescovo Ariani interdisse a divinis l'oratorio; il quale dovè poi essere presto reintegrato. Molti fascicoletti di conti del sodalizio di Santa Croce, fuso con l'altro di Santa Maria di Trimoggia e stanziato nella chiesa di San Nicola, ci fanno vedere la critta riaperta al culto e specialmente ne' venerdì di ciascuna settimana.[37]

Dopo e non so precisamente in che anno della seconda metà del secolo XVIII il duplice sodalizio fu disfatto; e l'area e la critta vennero in potere del capitolo collegiale di San Nicola. Le famiglie de' due canonici Spera e Serino aveano tolta in locazione ad uso di orto l'area, che circonda la critta. Per la legge del 1819 da fittuarii ne divennero censuarii pagando poche lire di censo un tempo alla veneranda colleggiata ed oggi al demanio dello Stato. L'uno de' due preti censuarii avendo in seguito venduta la sua parte all'altro, la costui erede, Filomena Mari, ha in suo dominio tutto intero l'orto. Essa nel 1889 trasse il cappellano innanzi al magistrato per fargli chiudere le finestre, che costui barbaramente avea aperte alla critta, considerandole, come offensive ai suoi diritti di proprietaria; e nel calore del contrasto giudiziario minacciò di affacciare pretese di dominio sulla critta stessa.

Ma a chiunque essa appartenga, debb'essere vendicata al patrimonio dell'arte e della storia.

Né questa che io dico è frase retorica. È indubitato che le origini di molte città, oggi fiorenti e cospicue, anzuchè nelle fantastiche peregrinazioni di Diomede, bisogna cercarle nelle laure e nelle corti de' monaci solitarii, che in tempi di barbarie custodirono il fuoco sacro della civiltà e apparecchiarono l'avvenire. Con lo studio quindi delle laure, delle corti, de' paghi, de' vichi e lochi antichi sono dissipate le favole e retticate le leggende, ricostruendo su solide basi la storia delle Puglie.

D'altra parte è proprio nelle Puglie che vuol essere studiata l'arte bizantina, qui dove disasprita smise molto del suo grottesco e della sua rigidità nativa. Il chiarissimo prof. de Giorgi in una conferenza tenuta nell'autunno del 1884 all'Esposizione Generale Italiana di Torino, parlando dell'arte bizantina fra noi e delle critte pugliesi, riferisce le parole del Lenormant, cioè che non si possa scrivere la storia dell'arte bizantina, se non dopo un esame ed uno studio diligente delle opere bizantine di Terra d'Otranto[38]. Il Lenormant si restringeva alla Terra d'Otranto, dacché ignorava le nostre critte non certo inferiori alle salentine. E il Diehl, dopo d'aver viste le critte di Grecia e quelle di Puglia, disse al de Giorgi queste parole, che riporto integralmente dalla conferenza su citata. «Nell'Italia meridionale più che nell'Oriente si può studiare la storia della pittura bizantina dal X al XIV secolo, perché in Italia le pitture sono esenti da restauri, son segnate con la data precisa e son conformi alle prescrizioni minute delle Norme per la pittura bizantina. Molte di queste opere son mediocri per fattura; né certamente grandi artisti posero mano a dipingere quelle cappelle. Ma l'artista non deve inventare, avevano detto i padri del II concilio di Nicea; son le antiche tradizioni quelle che guidano il suo pennello: egli non fa che eseguire. L'umile monaco, che disegnava quelle figure, come il rinomato musaicista di Costantinopoli, aveano dinanzi agli occhi de' modelli immutabili; ed essi li riproduceano ciecamente». Ma se il Dielh avesse visitati i nostri Lagnoni, la cui critta è ignota fin quasi agli stessi cittadini di Andria, l'avrebbe trovata della maggior considerazione; ed anche per rispetto della forma architettonica dell'oratorio. Io non so, se fra le critte salentine ve ne sia qualcuna che abbia la forma basilicale così spiccata e precisa, come questa di Andria. Non ho letto che delle critte brindisine descritte con erudizione dal Tarantino e dell'altre, cui accenna il de Giorgi. Non m'è riuscito d'avere gli studii fatti dal de Simone, dal Pepe e da altri egregi. Potranno per avventura esservi oratorii eguali a questo di Santa Croce; ma ciò non gli toglie pregio, né gli attenua la peregrinità ed importanza.

E tanto per conchiudere, ripeto che debba rivendicarsi, e con urgenza, la critta di Santa Croce al patrimonio dell'arte e della storia. Innanzi tutto è urgente la demolizione del grottesco campanile il rinforzo dei lati minaccianti imminente rovina e la copertura a tettoia, o come che sia, della volta all'esterno.

Così in seguito dovrebbe darsi mano a ristorare il meglio possibile gli affreschi tuttavia esistenti e farli ritrarre diligentemente, affinché possano essere disaminati e studiati.

Serbiamo, magari com'è tuttavia, l'antica critta di Santa Croce. È un monumento dell'arte e della storia de' greci nelle Puglie. Ricordiamo che nell'arte ogni età ed ogni popolo effigia se stesso, rivela l'intimo suo pensiero, il suo affetto predominante e le consuetudini della sua vita. Codesti monumenti ci riannodano al passato; e da Santa Croce a traverso ai secoli col linguaggio dell'arte parlano a noi, loro posteri lontani, quei giganti, innanzi ai cui scheletri ci sentiamo pigmei.

FINE.
NOTE    (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva)

[1] Pastore - Storia di Andria - Manoscritto autografo da me posseduto. V. 1 pag. 45.

[2] Durso - St. d'Andria L. 11 pag. 19.

[3] Du Cange - Glossarium Mediae et Infimae Latinitatis - ad vocem.

[4] Troya - Cod. Depl. Loureb. N° CCXCV.

[5] L'illustre comm. Racioppi, da me consultato in proposito, mi scrisse: Per me Lagnoni è INDUBBIAMENTE forma italica accrescitiva, che suppone il positivo lagno; lagno o lagni in lingua vernacula amministrativa di molte provincie napoletane, specie in Terra di Lavoro, sono fossi od alvei artefatti per scolo acque impaludanti.

[6] Corr. Peutinger - Tab. Segm. VI.   Fl. Aufidus   Bardulis    Fl. Aveldium  Turenum.

[7] Forges Davanzati - Dello Stato imperfetto della Geografia antica - Atti della Pontan. V. I. - Romanelli Ant. Topogr. Stor. p. 2. pag. 166 - Giovene, Del Tofo lacustre - Atti della Soc. It. delle Scienze t. XIV. - Giovene Kalend. Vet. p. 1. f. 216 Corcia - St. delle Due Sic. v. III p. 506.

[8] Corcia op. cit. Vol. e pag. cit. Il Romanelli (Op. cit.) crede invece che fossero l'Aveldio stesso diviso in due e disviato in corso sotterraneo.

[9] Pertz. Mon. Ilist. Germ. (Chron. Mont. Cas. Auct. Monacho Leone) T. VII pag. 622.

[10] Du Cange, Gloss. mediae et inf. latinit. ad vocem.        Il Racioppi. St. do' pop. della Lucania e della Basilicata v. II pag. 29 "….il barbaro… preferisce le foreste… vi costruisce in mezzo la sua casa (Aula, Sala, Curtis) che sarà naturalmente un fortilizio e darà nuovo nome al fondo"     E aggiunge più oltre: L'Abate diviene barone e il nuovo villaggio prende il nome dal monaco (ed ecco il caso nostro) abate, papasso ecc.

[11] Racioppi. Op. cit.

[12] Pertz, Vol. cit.

[13] Arch. di Montecas. Reg. di Pietro Diacono, fol. 50.

[14] De Blasiis. Insurr. Pugl. Vol 1 pag. 51. Cron di Aniello Pacca 1011: Morio Cursira e discese Basilio Capatano con li Mecedoni e nel mese di marzo ..  

[15] Nella cronaca di Leone ostiense gli errori di cronologia sono frequenti. Vedi il Di Meo all'anno 1010, N. 3 "Consigliar l'ostiense sulla cronologia è lo stesso che voler l'errore".

[16] Vedi il Trinchera. Syll. graec. membr.

[17] Trinchera Syllabus [Graecarum Membranarum, 1032].

[18] Il Rialem di Photo è lo stesso che il Rivus del Mesardonita. Il Du Gange alla voce Riale dice: Rivus, rivolus. Glossarium alla voce.

[19] Un metro e 95 centimetri.

[20] Hugler, St. dell'Arte, pag. 112

[21] Tarantini. Di alcune cripte ecc. De Giorgi. L'arte in terra d'Otranto. Conferenza fatta in Torino all'Esposiz. Naz. del 1884. De Giorgi, La Prov. di Lecce ecc.    Vedi anche il Barri. De situ Calabriae (Delectus Script. Rer. Neapolit.)

[22] Giann. St. Civ. L. II Cap. VIII. Pellecchia. Nel Digesto It. di Torino. Case Monastiche. pag. 258.

[23] Baron. Ann. Eccl. ad ann. CCCXL. S. Gir. Ep. Marc.

[24] Pellecchia, Op. cit. pag. 368.

[25] Servi….. arripiuntur in libertatem. Nov. Const. V. e. I.

[26] Barri. Op. cit. pag. indicata, Giov. Giovene. De Ant. et var. Tarent. fort. (Delectus ecc) p. 520. Chron. Lup. Protosp. ad. ann. 868. Heremp. Hist. (Perger) V. II pag. 38. De variis saracenorum incursionibus. In Disert. ad Chr. Saracenico. Calabrum.

[27] Tarant. op. cit.

[28] Anastasius. Vita Greg. II N. 494.

[29] Tarantini. Op. cit.

[30] Tarantini. Op. cit.

[31] Al di sopra di questa grotta, diversa dall'altre per maggiore ampiezza fu, or sono pochi anni, piantato un mulino a vapore, che sprofondò con tutta la larga volta della stessa grotta.

[32] Guil. Ap. L. II.

[33] Di Meo. Ann. critico deplomatici.

[34] Guil. Ap. L. II. Ditior his Petrus.

[35] Archivio vescovile

[36] S. Visita Ep. Ariani - 1697 - Visitavit Cappellam S.ae Crucis a civitate miliario distantem, quae cum sit ad modum custodiae et picturae in pariete vetustate ed humiditate corrosae sint, ac careat omnibus, precipue altare portatili, mandavit in ea cessare a divinis, bene claudi ad vitandas irreverentias. Arch. vescov.

[37] Archivio del cap. collegiale di S. Nicola in Andria.

[38] De Giorgi. Conferenza inserita nell'opera intitolata: La Provincia di Lecce ecc. Pastore - Storia di Andria - Manoscritto autografo da me posseduto. V. 1 pag. 45.


Appendice

[dalla lettera del Prof. C. De Giorgi del 15 luglio 1892]


Cripte bizantine nelle Puglie

Gentilissimo signor Vecchi,
… … …

Ora io ricordo che lo scopo principale che fin dal suo nascere si propose la Rassegna Pugliese si fu quello di porgere ai nostri giovani scrittori un mezzo facile di intendersi e di coordinare gli studii sulle nostre Puglie. Fu un compito nobilissimo, che fa onore a voi che l’ideaste pel primo e sapeste tradurlo in atto. Ed è per mostrare quanto ci guadagnerebbe la scienza se le relazioni letterarie e scientifiche fra gli scrittori pugliesi fossero tutte coordinate alla illustrazione del nostro paese, che io prendo la penna per dire di un recente lavoro del signor R. O. Spagnoletti intitolato I Lagnoni e Santa Croce in Andria, Bari, 1892.
Ho letto questa monografia tutta d’un fiato e vorrei pubblicamente elogiarla; ma in più punti trovo citato il mio nome con epiteti che non sento di meritare un modesto cultore di scienze fisiche, che pur ama vivamente il suo paese natio. Il Ch.mo scrittore, che io non conosco nè di persona, nè per relazione epistolare, ma soltanto per alcune delle sue opere, mi permetterà invece che io gli esponga il mio debole parere su due questioni, una di geografia fisica ed una storica sulle cripte da lui si bene illustrate.
La prima riguarda la possibile esistenza di un fiume nel territorio di Andria, fiume che oggi sarebbe scomparso. Secondo l’A. in un tempo non antichissimo le terre di Andria dovettero essere irrigate da correnti fluviali; e cita in prova di questa sua opinione un Flumen Aveldium segnato nella Tavola Peutingeriana, che sboccava nell’Adriatico fra Trani e Barletta; cita le tracce fluviali scoperte dal Forges nel tratto fra il mare ed Andria, e di là alle prossime Murgie; cita i pareri del Corcia e del Troya e le Cronache di Leone Ostiense (943 d. C.) e il praeceptum di Basilio Argiro di Mesardonia del 1011 dell’era volgare; ed in ultimo le vestigia fluviali di recente trovate nelle escavazioni presso Andria.
Fra tutti questi argomenti mi fermo sull’ultimo, ch’è il più importante. Un vero fiume che scorre nel suo alveo lascia tali impronte della sua esistenza che si possono riconoscere anche dopo centinaia di anni che lo ha abbandonato, o per una causa qualunque sia scomparso. Per i geologi questi fatti sono assai frequenti; ed essi determinano con sufficiente esattezza le antiche alluvioni quaternarie, lontane da noi parecchi millennii e quelle di tempi meno remoti.

In una regione però come lo nostre Puglie di Bari e di Lecce, che il Venosino chiamava sin dai suoi tempi siticulosa per la scarsezza delle piogge, e dove l’orografia è rimasta sempre inalterata sin dall’alba del periodo terziario, quando avvenne l’emersione delle Murge, può asserirsi scientificamente che sieno mai esistiti nel periodo. storico e preistorico veri torrenti e veri fiumi? Mi permetta di dubitarne l’egregio Spagnoletti. Le opinioni, ch’egli cita, potrebbero, a parer mio, provare l’esistenza del fiume Aveldio e dei suoi affluenti se la scienza moderna non avesse dimostrato qual valore gli antichi attribuivano anche ai corsi temporanei di acqua ed ai canali di scolo delle piovane che cadevano sulle nostre colline, battezzandoli con i famosi nomi storici di fiumi Tara, Idro, Galeso e via via. Del resto nell’errore degli antichi cadono anche oggi i moderni; e la geologia sfata ogni giorno molte fiabe dell’archeologia.

Da uno studio accurato che ho fatto sull’orografia delle nostre Murge leccesi e baresi io potrei invece dimostrare che il regime idrografico si è conservato sempre lo stesso sulla superficie delle nostre due Puglie dai tempi preistorici sino ad oggi; ma ciò mi trarrebbe molto per le lunghe ed in considerazioni estranee all’indole di questo periodico. Per me quindi l’Aveldio non fu mai un vero fiume (cioè alimentato da sorgenti perenni) ma bensì un canale di scolo pari a quelli che scendono al mare Adriatico dalle nostre Murge fra Barletta e Brindisi e nel Jonio tra la foce del Bradano e S. Pietro in Bevagna.
Le vestigia fluviali, citate dall’A., possono riferirsi ad ogni corso di acqua sia temporaneo sia perenne, date certe condizioni telluriche ed atmosferiche, e non sono esclusive dei veri fiumi. Le ho trovate anch’io in molti canali che scendono dalle nostre colline, mentre veri fiumi non esistono in Terra d’Otranto e molto meno nel Barese, dove il suolo è in generale formato di rocce impermeabili che non permettono la formazione di vasti bacini acquiferi alimentatori di sorgenti perenni. L’idrografia, diceva bene il compianto Stoppani, è la negativa dell’orografia. Dove sono i monti nelle nostre due Puglie?
Tutto ciò per altro non influisce menomamente sulla interpretazione del nome Lagnoni e sulla genesi di questi, date dal signor Spagnoletti, e che io accetto pienamente.
Passiamo all’altra questione che si riferisce all’origine della Cripta di S.a Croce in Andria.
Qui lo Spagnoletti, dopo averne descritto la forma architettonica e le pitture ivi esistenti, dimanda a se stesso: io non so se fra le critte salentine ve ne sia qualcuna che abbia la forma basilicale cosi spiccata e precisa come questa di Andria. E mentre egli cita l’opera mia intitolata La provincia di Lecce ha forse dimenticato che a pag. 385 del primo volume io descrivo la cripta di S. Biagio in Massafra con le seguenti parole: «L’interno è di forma basilicale: tre navi con sei pilastri, tre per lato, e sui pilastri degli archi circolari: in fondo il Sacrario diviso in due scompartimenti, uno per l’altare, l’altro per l’ambone, entrambi separati dal resto della cappella mediante un muricciuolo.» E come questa io potrei citarne molte e molte altre da me osservate nei territori di Mottola, di Ginosa, di Matera ecc. e delle quali ho rilevato la pianta.
Da ciò si scorge l’utilità degli studi comparativi dei nostri monumenti pugliesi, i quali, come hanno la medesima origine storica, così possono dirsi in gran parti coevi.
Ma, lo dico subito, su questo terreno bisogna andare a passi di piombo. Osservando l’icnografia di questi singolari monumenti cristiani nella Terra d’Otranto e le pitture che ne coprono le pareti, e comparando fra loro i risultati di questi esami, son giunto a questa conchiusione che, a parer mio, è la sola esatta: essi appartengono a secoli diversi ed accennano molto probabilmente a diversi stanziamenti dei bizantini e delle successive colonie greche nelle nostre contrade. Dalle pitture si rileva poi che molte non furono certamente dipinte da artefici orientali, ma dai nostri, dei quali in molte cripte salentine ho potuto raccogliere i nomi e le date precise nelle iscrizioni o nella paleografia dei caratteri. In Terra d’Otranto queste pitture segnate di data certa cominciano dal X e discendono sino al XV secolo pur conservando nelle forme e nella lingua il carattere bizantino, sebbene più o meno modificato dall’elemento locale.
Per me quindi troverei una certa difficoltà a stabilire l’origine della cripta di S.a Croce e delle pitture che l’adornano senza un esame comparativo di questa con le Cripte salentine, che sono le tipiche a giudizio del Diehl e del Lenormant, perché la maggior parte intatte nella loro forma primitiva ed esenti di restauri. Con la sola storia non ci si riesce; molto più che ci mancano le notizie di queste cripte nelle cronache del medio-evo. E perciò di più centinaia delle nostro ho voluto raccogliere i documenti prima che fossero stati manomessi o guasti o distrutti dall’avidità dei cercatori di tesori, dall’ignoranza dei contadini e dei proprietari e dalla malignità dei cacciatori. Il carattere delle pitture descritte dallo Spagnoletti mi lascia alquanto dubbioso sull’origine di esse nella cripta S.a Croce.
E qui, prima di chiuder questa lettera, permettetemi che ringraziando voi faccia altrettanto col signor Spagnoletti, il quale con la sua monografia mi dà l’occasione di chiamare a raccolta quei pochi che nelle Puglie si occupano di siffatti studi affinché procedano d’accordo nell’esame dei nostri monumenti e coordinino i loro sforzi alla esatta illustrazione dei medesimi. Se questo lavoro non lo faremo noi verranno poi gli stranieri, i quali, giovandosi dei nostri studii, crederanno di aver aperti gli occhi alle italiane talpe!
Credetemi con sincera stima,
Lecce, 15 luglio 1892.
Vostro devotissimo
Prof. Cosimo De Giorgi

[lettera estratta da “RASSEGNA PUGLIESE di Scienze, Lettere ed Arti”, ed. Valdemaro Vecchi, Trani, 1892, vol. IX, Num. 15-16, pagg. 229-231]


[dalla lettera di Riccardo Ottavio Spagnoletti (1829-1892)]


PER LA CRITTA SANTA CROCE DI ANDRIA
(Lettera al Cav. Valdemaro Vecchi)

Mio caro Valdemaro,

Questa mia lettera è come la predica di Pasqua, con la differenza che in quella predica s’ammassano tutte lo benedizioni e in questa lettera tutti i rendimenti di grazie. Invece come farei a render grazie ad uno ad uno ai valentuomini ed ai diarii che hanno degnato della loro generosa considerazione le mie Investigazioni sui Lagnoni e Santa Croce in Andria?
E comincio col rendere vive grazie all’illustre uomo, ch’è Ministro per la Pubblica Istruzione, della lode data ad esse in forma ufficiale ed al R. Ispettore, Ingegnere Bona, della diligente disamina fatta di esse visitando in mia compagnia la critta di Santa Croce e la circostante campagna. Così ringrazio il Ceci della Napoli Nobilissima, e ‘l Manfredi e ‘l Beltrani della Rassegna Pugliese e la Gazzetta Letteraria e la Gazzetta Piemontese di Torino, e Francesco Curci e Giovanni Pastina ed altri che giudicarono quel mio lavoro su diarii di Napoli e d’altrove. Ringraziando questi egregi non mi curo di certa arrogante asinaggine paesana sfogatasi in ispropositi a stampa. Come si fa in certe stagioni ed ore a salvarsi dalla molestia di mosche e zanzare?
Invece permettimi che io abbia un ringraziamento a parte pel valoroso Prof. Cosimo De Giorgi per la degnazione da lui avuta nel leggere e disaminare le mie Investigazioni e farle meritevoli della dotta sua critica. Innanzi tutto tengo a dichiarargli che, non conoscendolo di persona, per via del mio amico, Prof. Gigli, mi recai ad onore d’indirizzargli un esemplare della mia monografia. Mi duole l’apprendere che non gli sia pervenuto e deve quindi neanche essere pervenuto al suo destino l’altro esemplare indirizzato al Gigli stesso a Manduria. Posso entrar mallevadore del buon servizio postale?
Il De Giorgi con senno patriottico e zelo per gli studii dice nella lunga sua lettera pubblicata nell’ultimo quaderno della Rassegna molte cose vere, giuste ed utili, e finisce col lamentare che i nostri lavori storici sieno dati in pillole e tritumi e massimamente si duole che a queste pillole e tritumi non seguano poi lavori di sintesi e di coordinazione e che ciò si abbandoni all’ingegno di stranieri, fugaci visitatori delle nostre regioni, i quali finiscono con lo sdottoreggiare sulle cose nostre e non sempre bene e a proposito.
Ma che colpa abbiamo noi scrittori di monografie se la non benigna fortuna c’interdice lavori più vasti e più poderosi? Costretti a vivere ne’ nostri nativi Comuni, senza larghe biblioteche, senz’archivii, fra mille disaiuti, a condurre ad una certa perfezione una monografia, noi si lavora, si stenta, si tribola forse quant’altri ne’ lavori di gran mole. Noi altri diamo agli studii quel contributo che c’è possibile. Noi scaviamo i blocchi dalle miniere paesane, talvolta note a noi soli, e li sbozziamo, lasciandoli cosi al lavoro artistico posteriore. Che se de’ blocchi sbozzati da noi i più valorosi o fortunati di noi non si valgono, che colpa è la nostra? Come faremmo a sforzare i limiti che ci circoscrivono? Como faremmo a riuscirvi?
Del resto delle mie Investigazioni sono abbastanza soddisfatto. La critta era ignota a quasi tutta la cittadinanza, ai dotti ed al governo. Oggi invece i cittadini ne parlano (non mi preme come) e vanno a visitarla: i dotti ne discutono, come ha fatto l’illustro De Giorgi dalla Rassegna, o in lettere private come il Croce, il Rogadeo od altri valentuomini. Il Ministro per la pubblica istruzione ha mandato ispettori ad osservarla, architetti a studiare come ristorarla e fotografi per ritrarne le sue parti più importanti. Deperito e guasto fin oggi quel monumento, d’ora in poi sarà conservato al patrimonio dell’arte e della storia. È appunto il risultato, cui aspirava, e pare che l’abbia conseguito. Altri in seguito metta pure in coordinazione le diverse monografie sulle critte e dia, per esempio, un lavoro sintetico o comparativo sull’arte e la storia dell’ellenismo de’ tempi di mezzo nelle Puglie. Non pare che meriti censura chi, non potendo fare il più, facendo il meno, spiani ad altri la via. Difatto il chiarissimo Croce mi scriveva: «È veramente il suo un contributo importante alla storia dell’arte bizantina. … Le sue notizie riescono nuove: io me ne servirò per un sommario critico della storia dell’arte nel Napoletano.»
Il De Giorgi disaminando la prima parte della mia monografia con quella competenza scientifica, che non gli si può contrastare, mostra la impossibilità geologica della esistenza di veri fiumi e veri affluenti di essi nella Peucezia e nel Salentino. Egli ricorda che gli antichi davano nomi di fiumi e ruscelli a corsi d’acque alluvionali. E cosi che definisce il Tara, l’Idro, il Galleso e simili: è così che mette d’accordo la geologia con l’archeologia. Egli ha pienamente ragione: l’Aveldio e i suoi affluenti potevano essere grossi torrenti alluvionali, che doveano scendere molto di frequente dalle Murge sulle nostre pianure. Ma o perenne o temporaneo che sia stato il corso dell’Aveldio, del Monaco, dell’Arasciano, del Boccadoro e d’altri, lo stesso professore De Giorgi dice che ciò non influisce in nulla sulla interpretazione del nome Lagnoni e sulla genesi di questi, dato da me e che egli il valentuomo accetta pienamente, cosa come pienamente io accetto la sua dotta osservazione scientifica.
In quanto alle osservazioni artistiche ed archeologiche ricordo al Prof. De Giorgi che espressi la mia opinione sulla posteriorità delle pitture. La critta circondata da celle sotterranee dimostra che ne’ Lagnoni vi era una laura. Un’altra v’era a ridosso dell’alveo dell'Aveldio nella valle di S. Margherita, oggi S. Maria de’ Miracoli, un’altra a Cristo di Misericordia, un’altra a S. Vito, altre dove sono le diverse immagini sotterranee andatesi discoprendo e prima e poi. Al sud-ovest della città v’è un intero rione che ancora oggidì si chiama delle grotte di S. Andrea, il qual rione bruscamente si sprofonda; abitato fin ieri tradizionalmente da forti e selvaggi boscaiuoli, detti i frascari, che nel 1799 furono fieramente infesti ai francesi. Questo rione dovea essere anch’esso una grossa laura. Qui v’era dunque un largo gruppo di laure, sul quale farò altri studii, se mi basteranno la vita e ‘l vigore dell’intelletto. Andria dovea essere quindi il nome del più grosso villaggio, o il nome collettivo di tutte le laure e le corti aggruppate. Nel 1046 certamente laure e corti furono abbandonate quando Pietrone ricco cavaliere normanno edidit, o condidit hic Andrum. La costituzione delle laure dev’essere quindi precedente alla trasformazione di Andria in città bon murata e forte che accolse tutta la popolazione de’ dintorni. E di ciò parmi d’avere fatto cenno un po’ nel Ruggiero e dippiù nella monografia di Santa Croce.
Mi lascerà quindi l’erudito Prof. De Giorgi seguitare a credere che la critta di Santa Croce sia potuta essere scavata dal IX al principio del XI secolo. Ritornando sull’argomento e più largamente e di proposito spero che l’illustre Prof. De Giorgi voglia degnare di leggere le pagine che avrò scritte e valutare le mie investigazioni e censurare ciò che gli paia degno di censura; di che fin da ora gli rendo grazie.
Intanto unisco l’umile mia voce alla sua per chiamare a raccolta tatti gli scrittori di storia ed archeologia pugliese. L’uno presti aiuto all’altro e tutt’insieme facciamo opere degne di queste regioni in antico tanto ospitali alla civiltà ed agli studii.
Addio, carissimo Valdemaro! Riama
Il tuo
R. O. Spagnoletti

[lettera estratta da “RASSEGNA PUGLIESE di Scienze, Lettere ed Arti”, ed. Valdemaro Vecchi, Trani, 1892, vol. IX, Num. 17-18, pagg. 257-258]