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“Andria nel Medioevo”

DA “LOCUS” ROMANO-LONGOBARDO A “CONTEA” NORMANNA

di Pasquale Barbangelo

Parte seconda:   ANDRIA PRENORMANNA

I – PERTINENZE DEI BENEDETTINI CASSINESI
NEL TERRITORIO DI ANDRE

Nella “Chronica Monasterii Casinensis, Leonis Marsicani et Petri diaconi” (1), all’anno 943 si legge:
“Per eos dies cum Basilius imperialis prothospatarius esset apud Salernum, ex præcepto abatis adeuntibus illum monachis nostris, chartam restitutionis atque confirmationis fecit de omnibus pertinentiis monasterii huius per totam Apuliam, quas videlicet eo tempore perditas habebamus: hoc est ecclesiam Sancti Benedicti de Lesina cum omnibus pertinentiis suis, et casas aliquot intra eandem civitatem; piscariam de Lauri, et aliam piscariam ibidem; in Asculo casam solariatam, et curtes et puteos; ad Melassanam curtes et puteos; ad Sanctum Johannem in Ruliana curtes; ad Sanctum Decorentium curtes; in Canusio veteri ecclesiam Sancti Benedicti, et molendinum et curtes; in Minervio spluncam ubi est Sancti Salvatoris, et terras; in Andre vineas et olivas; in rivo qui dicitur de Monacho, curtem. Hæc omnia præfatus Basilius reconsignari fecit fratribus nostris, confirmans eam nobis per cartam proprio sigillo bullatam, et interdicens ne quis amplius invadere illa præsumeret” (2).

È il contenuto della “charta” con cui il protospatario imperiale, Basilio, che si trovava a Salerno, ospite di Guaimaro III, dispose che fossero restituiti al Monastero di Monte Cassino tutti i suoi possedimenti in Puglia, che a quel tempo risultavano “perduti”, e nel contempo gli confermò i diritti su di essi.

Il racconto che ci fa Leone Marsicano di questo avvenimento, di notevole importanza per quei tempi, da una parte ci riconduce con la memoria nel vivo di quel tragico periodo che fu la trentennale dominazione saracena sulla nostra martoriata regione; dall’altra ci offre una notizia veramente preziosa per le indagini che stiamo conducendo sull’epoca in cui la nostra città, sia pur nelle forme di un centro rurale molto modesto, si affacciò alla storia.

Non ritengo pertinente ai fini di questo lavoro soffermarmi a rievocare in quale temperie spirituale ebbe origine il monachesimo occidentale e in qual contesto sociale, religioso, politico ed economico Benedetto da Norcia fondò l’ordine monastico che da lui prese nome e, governato dalla sua “Regola”, fiorì nell’occidente cristiano nei secoli VII, VIII e IX.

Ma è necessario che spenda poche parole per mostrare in quali fortunose condizioni s’era ridotto il cenobio dei Benedettini di Monte Cassino negli ultimi decenni del IX secolo e nella prima metà del X e spiegare le ragioni che mossero l’abate cassinese Giovanni a chiedere con autorevolezza, ed ottenere, che fossero “riconsegnati” al Monastero di S. Benedetto i beni di sua pertinenza in Puglia.

Dalla fine del secondo decennio dell’800 le orde degli “Agareni” avevano imperversato non solo nella Sicilia, ma anche in Calabria e in Puglia. Piraterie e scorrerie, incendi, saccheggi e devastazioni, però, divennero sempre più frequenti nella Campania e nel Lazio quando, dagli anni ottanta in poi, i Saraceni, risalendo il corso del Garigliano, sulla cui foce avevano fondato una colonia per l’interessamento di Docibile, ípato di Gaeta, andarono scorrazzando impunemente verso il centro d’Italia. (3) Giunsero a stanziare nuclei nella Sabina e a depredare le valli del Volturno, del Liri, del Sacco, dell’Aniene e del Tevere nei primi anni del X secolo.

Intanto nell’883 avevano distrutto il cenobio cassinese, i cui frati s’erano rifugiati a Teano abbandonando alle rapine e ai saccheggi i vasti possedimenti del Monastero (4). Quando i Saraceni del Garigliano incendiarono anche il Monastero di Teano, i Cassinesi si ridussero in Capua, dal cui principe Landolfo I ebbero non solo protezione ma anche il nuovo abate, l’arcidiacono di Capua Giovanni, suo parente. Questi fu uno dei negoziatori della “lega antisaracena”, di cui ho fatto cenno in un mio precedente lavoro (5).

Inviato in una delicata missione diplomatica a Costantinopoli — il cui esito, per altro, anche se positivo non ebbe influenza di sorta sugli eventi — lo troviamo a Conversano, dove i Benedettini avevano una “grangia” e parecchi possedimenti, per una “permuta” col presbitero Pietro nel 915 (6).

Ma l’abate Giovanni viveva più alla corte che al convento e la rigida disciplina che la “Regola” di S. Benedetto imponeva, andò soggetta a tale rilassamento che il Papa Marino II dapprima intervenne con una bolla del 21 dicembre 944, con cui mise la comunità benedettina sotto la diretta dipendenza della Santa Sede, quindi ne affidò la direzione al monaco Balduino che pose mano energicamente alla riforma disciplinare del Monastero capuano. Ma la restaurazione non solo spirituale, ma anche temporale, dell’Abbazia cassinese residente a Capua fu opera di Aligerno, l’abate napoletano educato nel Monastero cluniacense dell’Aventino (949-983).

Egli affacciò una serie di rivendicazioni contro il gastaldo di Aquino e i conti di Teano, che si erano impadroniti di vasti possedimenti cassinesi, e i tribunali a cui si rivolse gli resero giustizia. Fra i placiti, con cui il Monastero di Monte Cassino riebbe il “mal tolto”, quello “capuano” del 960 è celebre perché la deposizione di alcuni testimoni fu trascritta in volgare: “Sao ko kelle terre per kelli fini que ki contene trenta anni le possette parte Sancti Bendedicti”. Tra parentesi, trent’anni era il tempo che occorreva al possessore di un bene per usucapire.

È questa quindi l’epoca in cui il Monastero di Monte Cassino, trascorsa — anche se non del tutto cessata — la bufera devastatrice dei Saraceni, si riappropriò dei suoi possessi, li riordinò ed, estendendo la pratica del “livello” e ricorrendo a tipi di contrattazione agraria che favorivano i coltivatori diretti, moltiplicò le sue rendite, sicché presto ritornò prospero e grande e ridiventò faro di civiltà e di cultura (7).

Ma le rivendicazioni degli abati cassinesi di Capua — primo fra tutti Giovanni — non potevano limitarsi ai possedimenti contermini con l’Abbazia di Monte Cassino, usurpati dai feudatari locali in seguito alla distruzione del Monastero. Analoghe usurpazioni, da parte di feudatari o di privati, erano avvenute nella Puglia settentrionale durante quasi mezzo secolo — dal terzo al settimo decennio — in cui i Saraceni avevano distrutto, saccheggiato, incendiato e, infine, tenuto in soggezione la nostra regione.

A tal proposito il Morea rileva che “autentica o meno la bolla di papa Leone III ad Eustasio, abate di S. Benedetto di Conversano,” in essa, comunque, si allude alle ruine cagionate al Monastero nella fine dello VIII e nel principio del IX secolo da Saraceni, da Greci e da “avidi conterranei(8). Nel “Cartulario Cupersanense” si può leggere un “breve recordationis” da cui risulta che l’abate di S. Leucio riottenne una terra detta di Campopefanio, nel villaggio di Minerba, della quale si era impossessato un cittadino privato, un tal Calojaonne, figlio di Adelprando (9).

Quando poi i Bizantini, dissoltosi l’emirato pugliese con la presa di Bari e la cattura di Sawdān, s’impossessarono non solo della Puglia, ma anche di gran parte del territorio beneventano (880-900), il protospatario e stratego Giovanni nel marzo dell’885 conferma all’Abbazia di Monte Cassino i beni posseduti nei territori pugliesi di Bari, Taranto e Oria. “È un abile gesto politico che rileva da un lato l’intenzione bizantina di ribadire il proprio prestigio, dall’altro la volontà di adottare un atteggiamento accattivante nei confronti di influenti rappresentanti degl’interessi longobardi” commenta acutamente lo Jorio (10).

Il ricorso ad una politica di allettamenti nei confronti del clero romano-longobardo, sia secolare che regolare, da parte della Corte Imperiale di Bisanzio è da ritenersi una “costante” durante i due secoli di contrastato dominio greco nell’Italia meridionale strappata ai Saraceni e malamente persa dai Longobardi. L’abate Leone, quando volle iniziare la ricostruzione cassinese, richiese l’appoggio dei Bizantini e ne ottenne l’esenzione di ogni tributo (febbraio 911) (11).

Perciò, quando il Monastero di Monte Cassino volle riottenere i suoi possedimenti che aveva perso in Puglia durante circa un secolo e mezzo di sconvolgimenti politico-religioso-sociali, l’abate Giovanni li chiese al protospatario imperiale Basilio: la loro restituzione e riconferma avvenne nella forma ufficiale e solenne “per cartam proprio sigillo bullatam, et interdicens ne quis amplius invadere illa præsumeret”.

Ma il racconto di Leone Marsicano, letto fra le righe da chi — come me — è vivamente interessato agli studi di storia locale, si presta ad un’interpretazione ricca di suggestioni. La “carta di restituzione e conferma” del 943, infatti, consente di affermare che Andre esisteva ben prima del 915, la data che si ricava dal “breve” del giudice tranese Teodelgrimo.

Tra i possedimenti benedettini in Puglia nominati nel diploma “basiliano” — che vedremo, comunque, ricomparire in altri diplomi bizantini dell’XI secolo — c’è anche una Chiesa di S. Benedetto “in Canusio veteri”. La distinzione di una “zona antica” in Canosa è comprensibile solo se si tiene presente che quella nobile quanto infelice città aveva subito nel IX secolo ben due distruzioni, di cui la seconda così rovinosa che non se ne riebbe mai più. Ma Canosa era stata incendiata e distrutta già altra volta: alla fine del VI secolo i Longobardi di Autari l’avevano così desolata che papa Gregorio Magno dovette affidare le sorti della dissipata Chiesa canosina a Felice di Siponto. Di eventi così tragici ho già avuto occasione di parlare in un mio precedente lavoro (12). Ora son costretto a rievocarli per rilevare che la Chiesa di S. Benedetto per far parte della “Canusium vetus” dovette essere stata costruita anteriormente alla prima distruzione di Canosa, presumibilmente durante gli ultimi anni dell’episcopato di S. Sabino.

Questa mia opinione è confortata da quanto afferma il Morea nella introduzione al suo “Chartularium del Monastero di S. Benedetto in Conversano”: “È nota infatti — egli scrive — da S. Gregorio la grande amicizia che legava S. Benedetto a S. Sabino, vescovo di Canosa e … che S. Sabino usò spesso visitare S. Benedetto sul suo Monte Cassino”. E più oltre: “Quello che è certo … è che della fama di santità di S. Benedetto e del suo ordine ne sia stata piena sin dai primi tempi tutta la Puglia … Non si potrebbero altrimenti spiegare i vasti possedimenti della Badia sul Gargano, a Siponto, a Lesina, a Canosa, a Bari, accennati nella Bolla di Papa Zaccaria, nei precetti di Desiderio e di Carlo Magno, nelle Tavole di bronzo della Basilica Cassinese(13).

Stando così le cose, dal momento che il Monastero di Monte Cassino possedeva in “Canusio veteri” oltre alla Chiesa di S. Benedetto, un mulino e delle “curtes”, è legittimo dedurre che nei pressi di Canosa dové stabilirsi, se non proprio un cenobio, certo una “grangia” benedettina.

Ma anche nei pressi di “Minervino” e di “Andre” si dovettero stabilire delle “grange”. I Benedettini, infatti, possedevano nel territorio di “Minervino” la grotta presso la quale sorgeva la Chiesa di S. Salvatore e delle terre; in quello di “Andre” vigne ed alberi di ulivi e una “curtis” nella “zona canalizzata” che era denominata “Monaco”.

Ritengo che il termine “rivus”, usato da Leone Marsicano, abbia nel contesto il significato di “zona canalizzata” e non quello più corrente di “ruscello”; anche perché una delle sue accezioni è quella di “canale”. D’altronde “rivalis” (rivale) era il “confinante sul canale d’irrigazione” (13 bis).

Del resto, se i Benedettini possedevano una “curtis in rivo qui dicitur de Monaco”, questa doveva essere stanziata in una zona irrigua e non certo su di un ruscello.

Il Du Cange, in vero, c’informa che nella bassa latinità il termine “curtis” aveva il significato di “villa, habitatio rustica ædificiis, colonis, servis, agris, personis etc. ad rem agrestem necessariis instructam(14).

Il Racioppi, inoltre, rileva che lo stesso termine s’estendeva ad indicare tutto il podere, cui la “corte” sovrastava (15).

Il Lizier, infine, precisa che la “curtis” si aggregava alle terre dominicali o a qualche cella o cappella ad essa più vicina, retta da un “vice-dominus” o da qualche “sacerdos billanus”, sicché l’unità agraria risultava costituita a zone concentriche: intorno alla casa padronale e agli annessi edifici rurali si estendevano la “terra dominica” e la “terra servile”; quindi venivano le “pertinentiæ”: pascoli, boschi, saliceti, canneti che servivano ai bisogni culturali e domestici delle terre dominicali e servili; infine i fondi dati a “censo” e quelli concessi “ad enfiteusi” (16).

Tale era l’organizzazione della “curtis” durante l’età prenormanna nelle nostre regioni, si trattasse di grande, media o piccola proprietà e proprietario ne fosse un feudatario, un “liber homo” o un ente religioso secolare o regolare.

Nel caso nostro la “curtis” dovette essere una piccola unità agraria, retta da un “grangiario” o comunque da un monaco. Essa era situata in una zona canalizzata: ce lo comprovano gli studi di Riccardo Ottavio Spagnoletti, nostro concittadino, e le riflessioni critiche su di essi di Cosimo De Giorgi.

Lo Spagnoletti nel 1892 pubblicò le sue “investigazioni” su “ I Lagnoni e S. Croce in Andria(17) e spiegò che “Lagnoni” — la contrada in cui vi sono tracce di una “laura” basiliana e sorge la “cripta” di S. Croce — è il plurale accrescitivo di “lagno”, voce della bassa latinità derivata da “landia/landea”, il cui significato — secondo il Du Cange — è “corso d’acqua artificiale per scolo di stagni e paludi(18): lo stesso significato, del resto, ho riscontrato nella “Toponomastica pugliese” del Colella (19).

Quindi il nostro studioso, esaminando l’aspetto in cui i “Lagnoni” si presentavano ai suoi tempi, rilevò “un ampio sprofondamento di suolo dal mezzogiorno di S. Croce sino alle rocce calcaree, sulle quali — egli dice — oggi si leva il pubblico macello, mentre in giù della strada vicinale si vedono parecchi scoscendimenti che da mezzogiorno discendono nella valle sottostante a Cristo della Misericordia, altra chiesetta rurale”; e concluse: “Se vi fosse un sufficiente volume di acque, avremmo certamente anche oggi nello sprofondamento una non breve palude, alla quale gli scoscendimenti sopraddetti farebbero da ‘Lagnoni’, deviando le acque paludose e riversandole nella valle che si estende a settentrione di Cristo della Misericordia”.

Una siffatta ipotesi non sarebbe un mero “exemplum fictum” perché le terre di Andria in tempi non antichissimi dovettero essere irrigate non solo dal fiume Aveldium della Tavola di Corrado Peutinger, ma anche da ruscelletti suoi tributari. Le osservazioni e gli esami accurati del Giovene, infatti, condussero il Forges a scoprire le foci dell’Aveldio nel sito delle Paludi di Barletta ed, in seguito, a riconoscerne il corso seguendone le tracce fino alla valle “che si sprofonda ad occidente della Colonia Agricola provinciale, valle denominata di Santa Margherita fino alla metà del XVI secolo e della Madonna d’Andria d’allora in poi”.

particolare della Tavola Peutingeriana
Segmento VI della "Tavola peutingeriana", che si conserva nell'ex biblioteca della corte imperiale di Vienna, copia medioevale (XI-XII sec.) di una carta d'età imperiale (III-IV sec.). Fonti della carta devono essere state: Agrippa (per la geografia fisica) e qualcuno degli Itinerari; fra i quali, almeno indirettamente, quello che ha servito come fonte anche al cosiddetto "Itinerarium Antonini"; da "Enciclopedia Italiana Treccani" ad vocem.
[Nel testo originale del Barbangelo l'immagine non è a colori]

Ma le campagne di Andria erano irrigate da altri “ruscelletti”: di un paio parla il Corcia; su d’un altro lo Spagnoletti riferisce le testimonianze di Lorenzo Troya e dell’avvocato Nicola Leonetti. Il Troya — egli scrive — “aveva scoperto il letto di un ruscelletto con arena e ghiaia fluviali” nel corso di “scavazioni fatte per mettere le fondamenta al palazzo appartenente al Sig. Ceci-Martinelli”. Analoga scoperta avrebbe fatto il Leonetti scavando per gettar le fondamenta del suo palazzo a fianco di S. Maria Vetere. Codesti “ruscelletti” erano tributari dell’Aveldio (20).

Il De Giorgi, d’altra parte, in un suo studio sulle cripte bizantine in Puglia (21), richiama la nostra attenzione su di un dato di fatto incontrovertibile: “Nel Barese … il suolo è in generale formato di rocce impermeabili che non permettono la formazione di vasti bacini acquiferi alimentati da sorgenti perenni”; e conseguentemente ne deduce che “l’Aveldio non fu un vero fiume, alimentato da sorgenti perenni; ma bensì un ‘canale di scolo’, pari a quelli che scendono nel Mare Adriatico dalle nostre Murge tra Barletta e Brindisi”.

La deduzione del De Giorgi, del resto, non contrasta neppure con l’appellativo geografico “flumen”, a cui si accompagna di solito l’Aveldio, perché anche la voce latina “flumen”, come già “rivus”, ha un’accezione corrispondente all’italiano “canale”.

Orbene, se l’Aveldio e i suoi tributari erano “canali di scolo” ; se i “lagnoni” erano “corsi d’acqua artificiali per scolo di stagni e paludi” e il “rivus qui dicitur de Monacho” delle “carte” della fine del secolo X e — come vedremo — dei primi decenni dell’XI è proprio uno di questi “canali di scolo” che “anche ai nostri giorni ha lasciato una sua traccia nel nome di un podere, ‘Monachicchio’, sulla via per cui (esso) dové discendere e ora precipitano le acque alluvionali”; non si può non concludere concordando con lo Spagnoletti: “È da ritenere che il podere ‘Monachicchio’ faccia supporre un’altra maggiore distesa detta ‘Monaco’ … Di certo la Badia Cassinese dové delegare la sopraintendenza ai possedimenti di Andria ad uno dei suoi monaci e questi dové abitare la ‘corte’ (22). Ed io mi permetto di rettificare: “dové dirigere ed amministrare la ‘Corte’ ”.

*    *    *

Chiusa quella ch’è potuta sembrare una digressione pretenziosamente erudita, ma in realtà è voluta essere una lettura critica, in chiave filologica e storiografica, di un “documento” pertinente alla storia del nucleo originario della nostra città; ci resta da determinare in quale epoca i possedimenti benedettini si siano andati costituendo nel territorio di “Andre”.

Ebbene, una congettura d’una affidabile ragionevolezza storica ci consente di risalire al terzo quarto dell’VIII secolo, quando “il gastaldato di Canosa appare sufficientemente organizzato e funzionante con un’estensione che comprende l’intera Terra di Bari e … si assiste; non solo genericamente, all’insediamento monastico benedettino, il che conferma ancora una volta la penetrazione di codest’Ordine parallela all’avanzata longobarda(23).

Quindi almeno fino a quella epoca si può far risalire la esistenza del “locus” Andre. Al di là non è lecito avventurarsi, se non ci si vuol imbattere nella “vexata quaestio” della leggenda bauciana, su cui qualche parola ci toccherà spendere, ma al momento opportuno.

NOTE
(1) Secondo l’autorevole giudizio del Capasso (B. Capasso, “Le fonti della Storia delle provincie napoletane dal 568 al 1500”, in “Archivio Storico Napoletano” vol. I 1876 p. 17) è la cronaca più importante che innesta alle vicende del monastero gli avvenimenti dell’Italia meridionale”. Essa riguarda gli anni che vanno dal 529 al 1075. Composta tra il 1086 e il 1105, fu riprodotta dal Muratori (“Antiquitates Italicæ Medi Ævi” p. 151) e dal Wattenbach (M.G.H. “Script." VII, 551). Fu continuata da Pietro Diacono fino al 1136.
(2) Cfr. G. Coniglio, “Note storiche sulla Chiesa di Puglia e Lucania dal V al X secolo nei fondi pergamenacei”, in “Vetera Christianorum” a. VII, fasc. 2, Bari 1970, p. 368.
(3) C.G. Mor, “L’età feudale”, Milano 1952 pp. 247 e segg.
(4) C.G. Mor o. c. p. 269.
(5) P. Barbangelo, “Andria nell’Alto Medio Evo: dalle oscure origini alla fine del secolo X” in “Andria Fidelis” - Quaderni di storia andriese, I, Andria 1982. p. 50.
(6) D. Morea, “Il Chartularium del Monastero di S. Benedetto di Conversano”, vol. I, Montecassino, 1892, Doc. VI a. 915 p. 17.
(7) C.G. Mor o. c. pp. 269 e segg.
(8) D. Morea o. c. Introduzione p. XXV.
(9) D. Morea o. c. Doc. IX a. 938 p. 26.
(10) R. Jorio, “Canne e il suo territorio nell’Alto Medio Evo”, in “Quaderni Medioevali”, 10 Dicembre 1980, Bari, p. 50 e passim.
(11) C.G. Mor o. c. p. 269.
(12) P. Barbangelo o. c. p. 45.
(13) D. Morea o. c. Introduzione p. XIX.
(13 bis) G. Devoto, “Il linguaggio d’Italia”, Milano, 1974, p. 111.
(14) Du Cange, “Glossarium Mediæ et Infimæ Latinitatis”, ad vocem.
(15) G. Racioppi, “Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata”, Roma 1889, vol. II p. 29.
(16) A. Lizier, “L’economia rurale dell’età prenormanna nell’Italia meridionale”, Palermo, 1907, pp. 154 e 155.
(17) R.O. Spagnoletti, “I Lagnoni e S. Croce in Andria: investigazioni”, Bari, 1892.
(18) C. Du Cange o. c. ad vocem.
(19) G. Colella, “Toponomastica pugliese”, Trani, 1941 p. 486.
(20) R.O. Spagnoletti o. c. pp. 5 ... 9 e rel. note.
(21) C. De Giorgi, “Cripte bizantine nelle Puglie”, in “Rassegna Pugliese”, vol. IX, nn. 15 - 16, Trani, 1892, p. 230.
(22) R.O. Spagnoletti o. c. p. 10.
(23) R. Jorio o. c. p. 28.

[da “Andria nel Medioevo”, di P.Barbangelo, tip Guglielmi, 1985, pp.39-48]