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San NICOLA
di
Giacinto Borsella (1770-1856)
Passiam quindi secondo l’ordine, al descrivere il Tempio
della collegiata di S. Nicola di Mira, che cominciò a costruirsi nel 1796 e
venne condotto a termine nel 1805,essendosi per tre anni interrotti i lavori, a
causa che discordavano i Preti circa la forma della costruzione. Ove entrando,
ti si para innanzi una gran nave, a tre porte, con ampio presbitero sul quale si
ascende per gradini di marmo ornato, di quattro ben alte e grosse colonne
lapidee, vestite a stucco lucido color giallognolo macchiato. Fra le seconde
s’erge, avendo alle spalle il coro, stupendo altare maggiore nel cui frontone di
Patrio marmo rilevansi i simboli degli evangelisti; l’Aquila, l’Angelo, il Leone
il Torello, che eccitano tutta la meraviglia, non solo per le posture, vivacità,
finezza di membri e regolari muscolature, che per lo insieme assai proprio e
naturale. Tanto il Leone, che il Torello coll’Angelo sono forniti di ali, e di
codici, avendo questo nella destra il calamaio.
Nei corni dell’altare due scudi contengono ingegnosi scorci
secondo i riti dell’antico patto, gli olocausti di un Ariete; di un bue giacenti
sull’altare. In mezzo della mensa in nicchia i pani di proposizione, e accanto
le ampolle, grappoli d’uva pampinosa con attorti viticci, e spighe rilevate con
somma maestria significanti i riti della nuova legge. Sono ragguardevoli pure i
gradini nei quali poggiano i candelabri ed i fiori intarsiati bellamente di
foglie, e di altri ornamenti di vari colori con delle varie cornici incastrate a
marmo nero. Questo altare tanto insigne, opera di scalpello maestro della
Capitale, costruissi sotto la vigilanza del Primicerio Francesco Saverio de
Risis, soggetto bastantemente dotto ed erudito dello stesso Collegio, nostro
concittadino.
[1] In rimirar questo altare ben s’intravede, che la
fantasia erasi accostumata a meditare ed ispirarsi sopra i massimi monumenti
dell’eterna Roma, nonché sopra i miracoli di Michelangelo. Non ti disgradirà
osservar dappoi, la volta del Presbitero, e la cupola del coro in cui sono
rilevati a stucco dei grandiosi candelabri, a simiglianza di quelli, che una
volta rifulgeano nel Tempio di Gerosolima, con altri fregi e ghirlande tramiste,
che risaltano, nell’insieme. Il coro di solida noce costrutto dal nostro
concittadino Giuseppe Gigli, a due ordini di sedile, termina con la fascia di un
cornicione sporgente, su cui è infissa una cresta traforata a rabeschi, teste di
fiori alternati. In fronte del sedile del Prevosto, prima dignità del Capitolo,
leggonsi le seguenti iscrizioni, che restano alquanto oscurate dal ridetto
sedile fatto a modo di baldacchino.
D.O.M.
Haector Dominus Familiae Carafae Dux Andriae,
et Castrimontis.
Comes Ruborum, Marchio Corati Princeps Clusani;
utilis Dominus Maschiti, Paterni Compilaetii, et Campipetrae.
Magnus Ispaniarum perpetuus primae classis. Magnus Regni siniscalcus:
Eques insignis ordinis sancti Ianuarii, utriusque Siciliae Regis aurae clavis
cubicularius
Mareschallus exercitus, et Sicilianae, et Catholicae Majestatis
tribunus Regni militum, et Regiae Chortis Praefectus.
Aram maximam cum sacra Icone
Divo Nicolao Miren, Ecclesiae titulari et Tutelari dicatam.
Quae ad ora Tribunae alter ex Carapheis Ducibus summa pietate,
ac munificentia Extrui, ornari, deaurari curavit
pro novi chori Amplitudine, atque ornatu,
supplicantis Capituli Votis annuent,
ad extremum parietis prospectum transferri, salvo iure, indulsit,
et ubi ligneum Ibi marmoreum monumentum
locari iussit
Anno Domini MDCCXLIX
D.O.M.
Nicolao Francisco Pontio
Regalis Ecclesiae Barensis Canonico,
tum genere tum virtute clarissimo.
Quod aere ex DC. iugerum redditibus parto,
hoc in templo
Divo Nicolao Mirensi dicato
Majoris arae ornatum, cultunique omnem
perenni renidentia comparari mandavit.
Quodque amplius atque venustius
Chorus erectus,
et ara maxima ex marmore
et hyerogljficis sit sacris extructa.
Testem hunc lapidem,
largitatis ex una et obsequii ex altera
Collegiatae, et Curatae Ecclesiae
Capitularis
PP.
Anno reparatae salutis
MDCCL.
Quindi ai fianchi dell’altare in due scudi sonovi gli stemmi
del ridetto Canonico Ponzio, che mettono in campo una sbarra dentata a traverso.
Sopra le iscrizioni sta affisso ampio quadro del Mirano sullodato
patriarcalmente vestito alla Greca, con cornice dorata. In cima sporge un fregio
di stucco lucido ed ai fianchi sorgono mostre di pilastri a verde antico, e di
altri colori, onde il quadro, riceve più lustro. Nei due angoli superiori del
quale son dipinti a mezzo busto il Salvatore e la Vergine. Inferiormente a
destra quel nobile giovinetto Barese, che secondo la tradizione fatto schiavo da
Turchi trovavasi a servire un Pascià da coppiere. Quindi, avvenne, che
ricorrendo la festività del Santo in sua Patria, sospirava nel dolore di non
trovarsi ivi per goderla. Accortosi il Padrone del mal umore del giovinetto,
mentre versavali col boccale in bacino d’argento dell’acqua, gliene dimandò il
motivo, e quegli gliela manifestò schiettamente. Il Pascià cachinnandolo fecegli
allora sentire, che quando fosse tanto miracoloso il Santo, potuto avrebbe
secondare il di lui desiderio. Quand’ecco apparve il mitrato di Patara, e preso
il coppiere per il ciuffetto dei capelli, tradusselo nella patria, tenendo
tuttavia in mano il boccale, col bacino. Imparò così quel Barbaro a rispettare
gli eroi della Chiesa. A sinistra vedesi una tinozza dalla cui bocca scorgono
tre fanciulli ch’erano stati uccisi, e fatti in brani seppelliti nella stessa
con tanta spietatezza. Il S. Pastore tiene alla manca un libro aperto, sul quale
osservasi prominenti tre palle d’oro, significative dell’altro stupendo miracolo
da lui fatto, in aver provveduto di dote tre povere donzelle che per deficienza
della stessa collocar non poteansi in matrimonio. Sotto il ridetto quadro lo
stemma gentilizio di Carafa. Sul merito del pennello diciamo, che l’antichità
del lavoro, la espressione delle figure, le tinte fine orlate d’oro, e il tutto
insieme non con iscarsa lode conferiscono all’insigne artista. Negli opposti
lati sonovi due affreschi per mano del Calò di Molfetta; l’uno di Ester che con
tutto lo sfoggio regale presentasi ad Assuero seduto in trono; che accordatale
la facoltà di palesargli tutto ciò che le occorresse prese a manifestargli le
sue suppliche. L’altro contiene il giudizio di Salomone per il fanciullo che
reclamavasi dalle due madri, ignorandosi la vera. Onde sentissi proferire quella
decantata sentenza,
Dividatur puer. Pitture di poco conto, procedendo agli altri affreschi
della volta bastantemente alta, la quale cammina a livello sino all’ingresso del
Tempio, veggonsi i più tre strepitosi miracoli del S. Pastore. Nel primo prova
agli Ariani il mistero della Trinità premendo tra le palme un mattone da cui
sfavillò fiamma che salì al cielo, scatorì dell’acqua al suolo, rimastogli la
creta nelle mani. Nel secondo con tutta la pompa celebra l’incruento sacrificio
in presenza d’una turba di eretici convertiti alla fede. Nell’ultimo rimpatria
in Bari quel leggiadro garzone di cui si e parlato poc’anzi. Queste pitture
producono più effetto. L’Organo con buone dorature è messo a fianco dell’altare
maggiore abbellito in faccia all’orchestra di fregi esprimenti il canto, il
suono; di prospetto altro organo consimile finto, con ornati eguali. La mensola
su cui poggiano i candelieri per le messi solenni, e gli altri sacri arredi, ha
colonne e cupole di stucco lucido a varii colori. La stessa è tutta intarsiata
di marmi fini a musaico formando diversi fregi e lavori, non mancandovi delle
agate onde rendersi più cospicua. Ai lati del Presbitero in due nicchie a
cristallo con larga cornice di noce si venerano due statue. L’Arcangelo
Raffaele, che sviscera il misterioso pesce, lavoro del nostro Brudaglio, che
tanta fama di sè lasciò. E S. Ciro in abito monastico, con crocifisso alla
destra, scultura mirabile dello scalpello Napoletano, cui manca solo la parola,
tanto sono bene espresse le fattezze del volto e la soave santità, che riluce
tra i suoi lumi.
Innumerevoli voti a lui offerti mostrano la fervida
divozione che riscuote dal suo potente patrocinio.
[2] Il pergamo colorato a marmi tiene il suo
luogo nel mezzo della nave poggiato alle spalle della stessa.
Veniamo agli altari, contansi sei cappelle opposte tra loro.
La prima è dedicata alla nascita del Messia, cui si accorre ad offerirglisi i
presenti. Quadro di plausibile bellezza. A proposito cantava il Filicaia nella
C. 44 alla Vergine del Presepio.
Al fortunato speco
Eccoci giunti, amore.
Tu che a miei passi, amor, compagno, e Duce
Fosti per l’aere cieco
Tu qui rimanti meco
Qui si pieghi il ginocchio, e qui s’adora
La pargoletta luce
Che da vergine aurora spuntò poc’anzi, ed ora
Sparge più chiaro a queste mura intorno
Di veritade il giorno
Ma tanti a prima giunta
Vibra l’infante Nume
Lampi dal ciglio, che degli occhi miei
La mal temprata punta
Nei forti rai si spunta
Del nuovo apparso in terra estraneo lume.
Dunque adoriam costei,
Amor, che al mondo sola
Del santo suo figliuolo
Il chiaro sol dei suoi begl’occhi ad ombra
D’alta umiltà coll’ombra.
Lateralmente all’altare sono affissi due ovali l’uno di S.
Rita, sostenuto da un Serafino in uno dei suoi deliquii, con altro Serafino, che
le mette nel capo una corona di rose, l’altro del Taumaturgo da Paola rivolto al
sole di carità i di cui raggi gli rifulgono sul volto. Queste due tele avanzano
in pregio quello della nascita. L’altare vestito a stucco lucido con tutta la
Cappella in varie guise e con diversi lavori graziosi, finché l’animo e lo
sguardo ne rimangono soddisfatti. Segue l’altra Cappella del Santissimo, con
balaustre, ed altare di marmo, pregiata quella di pilastrini traforati di ottone
e di creste rabescate dello stesso metallo, oltre l’inferriata con borchie di
ottone. Sonovi due cornucopii, che contengono le lampade accese innanzi al
Tabernacolo del Signore. Il quadro dell’altare è la cena, uno di quei tanti
imitati, Dio sa come, da quello di Michelangelo. Che sperar, da chi
nell’imitare, manca l’ingegno d’invenzione, di forza, di facilità, e di
quant’altra arte non traditur, secondo ci lasciò scritto Quint: 1. 10 C.
2, quest’illustre autore vorrebbe che il copista fosse tale da supplire alle
mancanze dell’originale, se ve ne fossero. Chi troveremo aver tanto polso?
Vien di poi quella di S. Eligio che col Borromeo stanno
supplici a piè della Concezione. Incantevoli sono di vero la verecondia del
volto della Vergine, quella modestia delle divine pupille, la morbidezza
dell’aurea disgiunta chioma, e del vestire, bellezze, che sembrano da
sottilissimo velo ricoperte, cotanto delicato, fu questo provetto pennello.
Pregevoli similmente sono i ritratti dei sullodati santi per la umiltà somma da
cui son compresi. Questo dipinto dì scuola moderna ben può vantarsi di stare a
fronte degli altri, meritano rispetto pei famosi loro maestri. La scultura del
Crocifisso cui è sacra la quarta Cappella è riguardevole al disopra
dell’Addolorata, e di S. Giovanni, dipinto da Calò di Molfetta che non si
estolsero dalla mediocrità. Un quadretto di S. Giovanni Neupomicene é esposto su
questo medesimo altare che ha del merito. Il tutelare della Collegiata sul suo
altare ha il mezzo busto nel paliotto e la balaustra in marmo. Il suo gran
quadro coi due ovali infissi nei muri opposti, l’uno sacro al martirio di S.
Lucia e l’altro a S. Rocco sono lavori dell’istesso Calò. Gli stessi pennelli
effigiarono la Vergine del Carmine dell’ultima Cappella in atto di consegnar
l’abitino ad un Angelo, le anime purganti nell’accesa fornace implorando aiuto
con un confratello vestito di sacco. A destra e sinistra dell’altare sono messi
nel muro due ovali. Nel primo S. Donato, che tiene la faccia rivolta alla luna,
per la protezione che accorda agli infelici che soffrono il mal caduco. Stagli
sottoposti due Angeli, con la mitra ed il pastorale nelle mani. Nell’altro S.
Gaetano, cui la Vergine gli lascia fra le braccia il Divin Pargoletto, opere
degli stessi Calò. Il gran quadro che desta meraviglia è quello soprapposto alla
porta maggiore che prima della soppressione ornava il Tempio dei nostri
Cassinesi. E come non rimaner sorpreso dalle mosse dei personaggi, dai vestiti
dalle tinte si varie, dagli sfumi, dalle ombre, che gradatamente si affacciano
allo sguardo? Giuda Maccabeo è il soggetto del quadro, in atto che dopo la
vittoria tragge in trionfo su di una picca la testa di Nicanore; é poco lungi un
sommo Sacerdote con le palme sporgenti ringraziare il Dio degli eserciti; altri
Guerrieri, la testa del Duce espugnato con la di lui spalla portare in mostra in
segno dell’ottenuta vittoria; l’affollarsi d’un popolo festivo per la memorabile
sconfitta, fra gli Osanna, e gli inni, guerrieri incedenti al Tempio dell’Adonai
sono le altre fantasie del Cavaliere Conca che sì egregiamente il ritrasse. Un
albero spazioso gli è vicino, forse a dimostrare la sua mossa dal Campo,
ov’erasi pugnato. Molto lontano vedesi eretta una colonna avanti della quale un
uomo nudo, fasciato la cintura, tien per orecchio il figlioccio, cinto pure di
zona, sol perchè si ricordasse della gloriosa giornata, che riportato aveva
sopra i nemici suoi il popolo d’Iddio. Questo quadro tanto magnifico, vien
ricinto da larga cornice convessa di stucco lucido del colore medesimo delle
colonne del Presbitero. Le due fonti dell’acqua benedetta, scanalate a
chiocciola, son messe a destra e sinistra dell’entrata, di marmo piombino, con
piede anche di marmo, in forma d’un festone. Se non ha questo Tempio il
campanile, non manca d’una torre ove sono sospese tre campane per l’uso
conveniente. Pregiasi pur questo Capitolo dei suoi preziosi arredi di argento,
inservienti all’altare; come eziandio per i paramenti per le diverse solennità.
L’uno di raso bianco con graziosi ricami in oro. L’altro di stoffa con fiori di
seta variopinta rabescato d’oro. L’ultimo di damasco nero, con galloni di
argento oltre gli altri di minor conto.
Oltre la sfera dell’ostia sacrosanta, possiede il capitolo
due reliquiarii, che gli largì Monsignor Bolognese del costo al di sopra di
Ducati trecento, contenente il primo una scheggia del legno della Croce, una
spinuzza della corona di Gesù, un pezzetto di pietra della colonna, con altro
del Sepolcro, una pezzolina della veste della Vergine. In altra piccola teca di
argento una seconda spina del Redentore.
[3]
Più altra teca di argento con bricciola d’osso di S. Francesco Saverio.
[integralmente tratto dal libro “Andria Sacra”
di Giacinto Borsella, edito a cura di Raffaele Sgarra per i tipi di Francesco
Rosignoli, 1918, pagg. 130-139]
[1] Oltre il de
Risis autore di una buona Tragedia sulla Passione, tanto applaudita, che andò
sulle scene, fiorivano in questo Collegio a quell’epoca il Prevosto Giovanni
Pastore. Autore della storia di Andria, che conservasi manoscritto dalla
famiglia D’urso; nonchè il sullodato Giacomo Brunetti, di cui non mancheremo
farne cenno in prosieguo, il Canonico D. Vincenzo Frascolla, mio zio materno,
che tradusse il libro di Giobbe, soggetto dotto e laborioso. Opera che vide la
luce in forma drammatica. Egli per non pochi anni insegnò grammatica ed umane
lettere in questo Seminario avendo di sè lasciato valenti Allievi.
[2] Anathema
chiamavasi ogni dono fatto agli Dei, che sospendevasi nel Tempio. Voce greca
Anathema id dicitur, quod Deo est dicatum atque destinatum, et in communem usum
amplius non convertitur. Fatt. mort: ad quest 121. In questo secondo
leggiamo. che la santa vedova Giuditta dedicò le spoglie riportate dal superbo
Oloferne, « Porro Iuditte universa vasa bellica. Holofernius, quae dedit illi
populus, et conosceum quod ipsa sustulerat de cubiculo ipsius, obtulit in
anatema obblivionis, C. 16. E perché tal donativo non poteagli toccare, ne
convertire ad uso comune, venne poi a significar questa parola lo scomunicato,
il sequestrato dalla comunione dei fedeli, viene abborrito e fuggito da tutti.
Ovvero perchè siccome quei doni sospendevansi nelle pareti, cosi i nomi degli
scomunicati anticamente si sospendevano tutti in tavoletta nelle colonne e negli
atrii delle Chiese o in altri luoghi pubblici. Taluni forse meglio derivano
questa voce dal greco
anathema
scritto con e non col eta che significa cosa abbominevole, esecranda. Nel qual
senso diceva l’apostolo Paolo estuante di carità
Cupio anatema esse pro
fralibus meis. (Mi con tento di venir cosa abbominevole per la salute dei
miei fratelli). Si forma poi da questa voce il verbo anatemizzare, che significa
abbøminare, detestare. Donde pure Anatemabilis, detestabile come scrive Arnobio.
[3] Rhamnus
sorta di spina forte, dura e grande, detta dai greci
ramnos, di cui il
salmista: priusquam intelligerent spinae vestrae rhamnum. Plat: 57. Parla dei
peccatori giovani rapiti dalla morte prima che diventino più ostinati, e duri
nel peccato avendo preso la metafora delle spine tenere consumate prima che
s’indurissero, e diventino ranno. Alcuni hanno pensato, di questa sorta di spine
stata fosse intessuta la corona pungente di Cristo, Re dei dolori per essere tra
le spine la pungente ed usata. >— Quid est rhamnus? Spinarum genus est,
dentissimae quaedam spinae esse dicuntur. — Augusto biol. 57, lo stesso
confermasi da S. Geronimo. Rhamnus salena sentibus et o similis. Produce un
fiore di soavissimo odore; come attesta il medesimo Dottore. Rhamnus sensium
genus est, asperrinum aculeis, et flore gratissimum Unde intelligitur duplam
habere virtutem.
I monumenti Italiani dell’età di Teodorico sono punto diversi da quelli che in
altre contrade non soggette a loro si costruivano. Teodorico il solo Re Goto,
che abbia avuto qualche amore per le fabbriche, in una sua lettera al Ministro
Cassiodoro, esprimeva ammirazione per lo stile dei suoi tempi, gli raccomandava
di risparmiare con gran cura e di conservare gli edifici. Il solo monumento
superstite veramente fabbricato dai Goti è quella della Cappella funeraria
innalzata in Ravenna dalla Regina Amalasunta a suo padre Teodorico; ma quivi
nulla di vago e di leggiero; non archi a sesto acuto con colonnette a trafori,
non volte ardite, non statuette, non decorazioni in forma di merletti e
ghirlande; ma massi pesanti, finestre strettissime con una cupula di un sol
pezzo di pietra; talchè sembra quasi di costruzione Ciclopica, o Egizia. Inoltre
nè in Italia nè in Alemagna, Inghilterra, Francia ed altrove si conosce un
edifizio di Architettura così detta Gotica, il quale appartenga al tempo che i
Goti abitavano queste regioni. Tutti quei che si conoscono son posteriori al
mille. I Goti adunque nè condussero architetti, né Artisti seco i quali operando
secondo un gusto loro proprio, ci trasmettessero siffatta Architettura; nè alla
vista dei monumenti Greco-Romani combinando decorazioni e modenature, e variando
foggia di costruire crearono questo genere novello. Essi eran privi della luce
delle scienze, e quel che appresero da noi non bastava. Ciocchè fecero gli Arabi
e i Saraceni in Sicilia, e nella Spagna, non poterono far i Goti. Quelli avevano
istruzioni già molte antiche, coltivavan le scienze, professavan le arti, questi
nulla di tutto ciò. Fecero tremare di spavento il mezzo di Europa e scomparvero,
lasciando il nome loro come un distintivo delle barbarie.
è
certo, che per disprezzo questa maniera di Architettura venne appellata Gotica,
quasi nata dalle barbarie, al modo medesimo che si dissero Gotici i caratteri,
di cui ancor oggi si servono gli Alemanni, e che sono pur di tempo a noi più
vicini. Giorgio Vasari, Filippo Baldinucci, ed altri molti scrittori di arte
Italiana invece di gotica soventi gli danno il nome di Tedesca, di Alemanna. A
Napoli e Sicilia chiamasi pure francese. Così l’Enciclopedia Popolare.