S. Maria Vetere

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Facciata di Santa Maria Vetere

S. Maria Vetere
o Convento dei Minori Osservanti

di Giacinto Borsella (1770-1856)
Coevo, come si disse, al convento dei Francescani surse in Andria l’altro degli Osservanti; eretto dalle pubbliche oblazioni dei cittadini propriamente nel 1438 con apostolica indulgenza della S. M. di Papa Eugenio IV. Non mancarono delle anime pie di sovvenir con limosine il nuovo cenobio sino all’anno 1583. Quando nell’anno suddetto dalla gentil donna Anna Salsedo, consorte di Giovanni del Poggio, fu il convento istituito utile erede di tutti i di lei beni, con testamento per mano di Decio Benincasa di Napoli, eredità che superò ducati 6000, che dati ad interesse a questo Comune il convento riscuoteva la rendita di ducati 600 annui. Essendosi quindi modernato il convento, e la Chiesa, i 6000 si ridussero a 3000, che anche diminuironsi per liti insorte. La testatrice ingiunse l’obbligo di una messa perpetua nell’altare della Vergine delle Grazie, ove oggi esiste un ovato dell’Annunziata. In questo altare si adempie giornalmente al sacrificio. L’annualità del suddetto capitale esigesi tuttavia dal convento sulle rendite comunali.
Accanto alla porta prima di entrare in Chiesa, vi è una lapidetta di marmo tenendo sculta in mezzo una porta di un tempietto in cui leggesi Aloysius Floridus tulit e Roma anno 1626 Iohannis Lateranensis (supple porta) giacché eravi, che oggi manca, un pezzetto della porta di S. Giovanni Laterano, che baciandosi venivano le persone a guadagnar le indulgenze.
Ragguardevole è l’altare maggiore per lo ciborio di marmo a forma di obelisco. decorato di statuette di santi dell’Ordine, allogate in nicchiette, con quattro colonne, due anteriori, e due ai fianchi aventi basi e capitelli di marmo mischio terminante a cupola. È sostenuto da quattro leoncini di marmo bianco, solito stemma della casa Sveva. Sull’altare elevasi una cupula con pitture a fresco, della Vergine, del Salvatore, di S. Francesco, e di Elia tirato già per le vie celesti dal suo carro di fuoco. Nei quattro lati inferiori veggonsi le figure dei quattro Dottori della Chiesa. Dall’umbilico dell’arco del presbitero scende sfolgorante lumiera congegnata a prismi, onde accesa moltiplicansi i suoi raggi. Dietro l’altare avvi una prospettiva di legno, tutta ornata di rabeschi in oro. Nel mezzo un Crocifisso grande, a fianco S. Michele armato di picca, con cui trafigge l’oste infernale, e quella dell’Angelo Custode luccicanti di oro fino, in cima un mezzo busto di S. Giacomo della Marca con diadema. A destra e sinistra si ergono due colonne spirali, con rilievi di foglie non mancanti di basi e capitelli che sostengono l’architrave sporgente con mensole, e con dentellate cornici. All’architrave soggiacciono i pilastri, e questi sono fiancheggiati da spalliere ricche di vasii lavori che terminano con teste fiammanti. Un grand’arco abbraccia tutto il sottoposto ornato, con fascie rilevate. L’insieme di questa macchina mostra l’antico gusto.
Prima di entrare nel coro a sinistra, e a destra dei muri sonovi appesi due grandi quadri l’uno di S. Maria Vetere e l’altro di S. Pietro Alcantara. Porta il convento questo titolo, dacchè venne fabbricato accanto ad un antico edifizio dove si venerava una vecchia immagine con tal nome. E poiché l’antica chiesa fu incorporata colla nuova così continuossi la pristina denominazione.
Il quadro mostra S. Anna, che seduta sostiene con la manca la Bambinella Maria in tunica bianca e sopraveste cerulea, scinta la bionda chioma. Nella destra il pargoletto Gesù, nudo con semplice zona porporina a sciarpa. Né sembrerà un paradosso, che il Bambolo fosse il precursore Giovanni. Un lume soprannaturale di profezia potè illuminare la vecchia Madre di Maria, a rappresentarselo prima di nascere, dovendosi in lui ultimamente contemplare, ed incontrarsi con felice innesto tutti i prodigiosi avvenimenti dell’antico, e nuovo testamento. A non tacciare intanto l’artista, né d’ignoranza né di anacronismo per aver messo in mano dell’ava il nipote, che stava in mente Dei, il giustificheremo con la licenza che accorda il Venusino ai Pittori, ed a’ Poeti. Retoribus acque Poetis Quolibet audendi semper fuit aequa potestas. A prescindere da tutto ciò, potrà anche dirsi che il quadro in parola essendosi formato molti secoli dopo la nascita del Battista e del Verbo, non implica contraddizione, che sulle palme di S. Anna si vedessero l’uno, e l’altro. L’altro quadro messo rimpetto è S. Pietro Alcantara, elevato con lo spirito verso il vessillo della redenzione sostenuto da due leggiadri angioli che per lo magistero del chiar'oscuro sembran col prototipo staccati dalla tela. In fondo dell’altare vi è il coro di noce, di plausibile lavoro, coevo alla Chiesa.
Dentro lo stesso a destra, e a manca sono situati due altri rispettabili quadri dell’apostolo delle Indie S. Francesco Saverio, e di S. Francesco. Nel primo quell’insigne eroe della S. Chiesa sta in Atto di Battezzare una Eroina umilmente genuflessa ai suoi piedi avendo a fianco il consorte con turbante, e vestire turco a cui d’appresso una damicella sapendosi, che egli in quelle regioni, e nel Giappone multa centena hominum millia ad Christum convertit magnosque Principes, vegesque complures sacro fonte expiavit. Nell’altro la Vergine seduta su di un gruppo di nubi, affida il suo parto tra le braccia ansanti del Patriarca di Assisi, che tutto assorto ne contempla le divine fattezze facendo trasparire dall’aspetto la più profonda riverenza. E chi potrebbe degnamente lodar questi due dipinti che si commendan da loro anche allo sguardo meno perito dell’arte? Dietro l’altare maggiore in un’angolo giace un grosso capitello di marmo, lavorato intorno intorno a chiocciole levigate, e colorite a rosso, bianco, e verde forse per conficcarsi l’asta del gonfalone. Più osservansi a terra varii sepolcri di religiosi rilevati in pietra. È specioso tra essi quello di Maestro Velardo, o Domenico de Tatoja, e suoi eredi, portante l’epoca del 1583. Lo stemma ivi rilevato è una ruota coi suoi fusi, macchina per ottenere le funi.
Fuori del Presbitero sonovi sei altari, dedicati alla Vergine delle Grazie il primo tenendo il bambino in seno. Le soggiacciano S. Antonio genuflesso, e S. Giovanni da Capestrano con bandiera spiegata portante in mezzo lo stemma purpureo della croce. In cima un ovato con la figura dell’Annunziata che ispira la più santa modestia. Viene appresso la Concezione contornata di serafini, tra i quali uno tiene il giglio di purità, e l’altro la S. Bibbia. L’augusto di lei capo è cinto di stelle, come ce la dipinse il Cantor di Valchiusa nella sua celebre canzone.
Vergine bella, che di sol vestita,
Coronata di stelle, al sommo Sole
Piacesti sì, che in Te sua luce ascòse
Amor mi spinge a dir di Te parole,
Ma non so incominciar senza tua aita,
E di colui, che amando in te si pose.
L’ovato di questo altare è santa Rosalia in abito monastico, cinta il capo di rose, che sta salda, ed illesa sù di rogo acceso, in cui fu condannata a bruciare. Nell’altro altare vi è la effigie di S. Francesco di Paola umilmente genuflesso, mentre il Padre Eterno, il Divin Verbo, ed il Santo Spirito lo coronano con triplice serto. L’ovato offre S. Pietro da Galatone sostenuto ne’ suoi soavi deliqui da due serafini. Venerasi su questo altare una urna contenente l’Arcangelo Raffaele bellamente addobbato da Pellegrino, e Tobiuolo genuflesso innanzi col pesce misterioso. Fu lavoro del nostro compaesano Nicolantonio Brudaglio, di ammirabile veramente e fina scoltura. Succede l’altare della Madonna del Pozzo con S. Pasquale, e S. Pietro Alcantarino, prostrati a Lei dinanzi stringente il Salvatore. Succede un Cappellone, in fondo al quale si vede S. Francesco in piedi col Crocifisso alla destra, che nell’aspetto mostra veemenza del suo amore in vagheggiando il subjetto dei suoi trasporti. L’ovato porta la effigie della Madonna degli Angioli. In due grandi nicchie di Cristallo a destra e sinistra dell’altare sono riposte due statue di valente artista, fornite di ricche vesti, l’una dedicata alla suddetta Vergine, la 2. All’Addolorata. Mirabile oltremodo è il dipinto dell’ultimo altare in cui S. Anna sta seduta, facendo leggere la leggiadretta fanciulla Maria. Oh quanta modesta bellezza si annida nel volto di costei! Quanta semplice, e natural leggiadria nella sua tunica bianca e nella di lei mantellina cilestre rivolta alle spalle. Non parlo della santa serietà della Madre sua. (Non usiamo avventurarne l’elogio, se affermassimo essere tela del Divo Raffaele, o copia di quel sommo) ed è rilevabile l’albero di Palma che si eleva dietro S. Anna che le fa rezzo. E del medesimo Urbinate debba essere l’altra tela affissa sulla porta nel mezzo dell’Orchestra dell’organo, in cui scorgesi la Vergine col Bambino. S. Gioacchino e S. Giuseppe col suo bastone fiorito. E chi adeguatamente potrebbe con le parole ritrarne il pregio? Noi ce ne sfidiamo. Per dirne cosa, l’aria, i lineamenti, le forme, i panneggi, le mosse, quei volti divini rallegrano lo sguardo, e lo spirito. Che se taluno pretendesse negarlo, diremo come sopra, o che sono originali, o san tali, che non si distinguono, e che si confondono con gli Autografi. In questa seconda tela si rallegrerà il cuore in osservare il Bambino nelle mosse di slanciarsi fra le braccia dell’Ava. Riflette il Malpica a proposito di Raffaello che in una vita operosa, e gloriosissima di 37 anni, che fu tutta devota all’arte, non passò un’ora che arrichisse il mondo di un portento novello. Solo di Raffaello dirsi può forse, che fece presto, e bene, prescindendo degli aiuti, che davangli i suoi numerosi quanto prodi scolari. In questa Vergine ammirasi quella dolcezza ineffabile, che mai non manca a niuna delle sue Madonne. A lui non mancava di rapir sempre qualche ignota nuova bellezza dal grembo inesausto della natura. A tutte queste tele aggiungansi i quadretti della Via Crucis ragguardevoli pur essi per le impressioni che contengono.
Nel mezzo della chiesa in magnifica lapide su l’achitrave della porta antica, leggesi il seguente epitaffio.
† Digna polo patria, muliebris norma pudoris
De Brunforte iacet Antonia hic Vigiliarum
Stirps comitis, quondumque tuis Dux Andria sceptrum
MCCCCXIX
due scudi uniformi stanno a fianco della suddetta lapide con lo stemma della stella raggiante dei Bauci, ed accanto un campo partito in quattro piani, che è l’impresa di Brunforte. Intorno ai due stemmi veggonsi otto draghi alati quattro per cadauno, emblema guerresco assunto dagli antichi popoli tanto nei loro vessilli, che su degli elmi, onde imprimere terrore.
Si sa che il Dragone fu la insegna particolare della Coorte Romana, come il vessillo della centuria, e l’Aquila della legione.
Fu uso di alcune Nazioni, come i Persiani, i Parti, e gli Sciti di portare effigie di Draghi per insegne, onde queste medesime furono chiamate Draghi. Si crede da molti, che i Romani prendessero in ciò ad imitare i Parti; ma Causabano, pensa, che prendessero questi usi dai Daci, e con ragione perché queste insegne non furono usate negl’eserciti romani se non dopo il ritorno di Traiano dalla Dacia. I Dragones dei Romani erano figure di draghi color rosso, come ricavasi da Ammiano Marcellino, e da Claudiano, o dipinti, cuciti con un ferro di panno nella tela dell’insegne. Ma là fra i Persiani, e i Parti, erano come le aquile Romane, figure di tutto rilievo, portate in cima ad un asta. Veggasi Francesco de Petra L. i. C. 10 sulla origine delle insegne gentilizie.
Tornando alle altre cose degne di osservazione in questa Chiesa, sappiasi, che dietro la porta della stessa venne sepolta la gentil donna Anna Salsedo, sorella di Giorgio; mandato dalla famiglia di Cordova per governatore in Andria. Essendosi quindi alienato nel 1555 questo Ducato alla Casa Carafa, si ritirò l’Anna col fratello in Napoli, ove morì. Le sue spoglie mortali furono tradotte in Andria per seppellirsi nella Chiesa di questi Padri, avendo lasciato un legato a favore dei medesimi. Sù di che convien conoscere, che con la morte d’Isabella del Balzo moglie di Federico d’Aragone Re di Napoli, restò estinta la famiglia del Balzo, ed Andria fu devoluta al regio fisco. Nell’Anno 1506 il Re Ferdinando il Cattolico donò questa Città al gran Capitano Consalvo Fernando de Cordova, che diedela in dote ad una sua figlia maritata con Luigi de Cordova suo parente. Da costui nacque un figlio chiamato Consalvo Fernando de Cordova, e questi fu quello che vendè Andria a Fabrizio Carafa nel 1552. Il primo governatore mandato dal gran Capitano in Andria fù Giovanni de Molina di Valenza, che morì nell’anno 1529, ed ebbe tomba nella chiesa della Porta Santa, ove esiste il suo sepolcro.
Fra queste splendide memorie spicca eminentemente l’organo con magnifica orchestra fiancheggiato da quattro colonne, due a destra, ed altrettante a sinistra, su i capitelli delle quali seggono due Serafini che poggiano in cornici ricurve aventi in cima rabeschi a modo di ghirlande. La bontà dei lavori, e la bellezza delle sopraffine dorature è tale, che rifulgono vivamente allo sguardo, come se l’opera fossesi eseguita da poco tempo. La volta della Chiesa è formata a cassettoni, con cornici e rosoni in mezzo dorati, d’onde si accresce la splendidezza. A questi ed altri ornati concorse la pietà di due PP. religiosi, Giovanni, e Matteo Grimaldi, come riviene dalla lapide apposta a man sinistra della porta d’ingresso, del tenor seguente
D. O. M.
Tectorio opere undique
inducto
Laqueari inaurato Atque Virginis
aris sacellisque excitatis exornatisque
Et pavimento ex quadrato lapide
Iterum strato
In novam fere templi formam
redegerunt
P.P. Ioannes, et Matthaeus Grimaldi
Andrienses
Coenobio Praefecti anno MDCCLV
Sopra il pavimento sottoposto a questa lapide leggesi quest’altra avente una eroina sculta alla greca in abito cenobitico, la quale è appunto la: riferita Anna Salsedo, tumulata nel sepolcro dei P.P. col millesimo 1571.
Nel lato opposto un altra lapide infissa nel muro portante in fronte.
Gregorius Papa XIII
Ad perpetuam rei memoriam Salvatoris Domini nostri Iesu Christi Aeterno Patri consubstanzialis et coeterni, qui pro redemptione generis humani de summo coeli solio ad huius mundi infima descendere, et carnem nostrani et utero Virgineo assumere dignatus est.
ec ec e proseguendo viene per le facoltà accordategli dalle sante chiavi a concedere indulto di salvare un’anima purgante dal carcere di espiazione ogni volta che si celebra una messa in qualunque altare di S. Gregario. L'indulto in parola fu concesso
sub annulo Piscatoris die XVIII Novembris MDLXXVII.
Sotto la suddetta lapide scorgesi altra con questa epigrafe:
Sepoltura della confraternita
Della SS. Concezione
Anno Domini 1599
In questa lapide vi è leggiadramente sculta la lodata Vergine, ed un confratello rimpetto, cinto di sacco col cappello tondo, tenendo in mano un foglio, contenente forse le regole, e le indulgenze che concedeansi non meno alla Congrega, che ai devoti. Questa fu abolita; mentre sottoposto com’era alla giurisdizione del Vescovo non soffrivano i P.P. che la medesima dipendesse dalla potestà della Curia. Quindi venne eretta nella Chiesa dell’Annunziata l’anno 1632. Ai fianchi dell’ingresso sonavi le fonti dell’acqua benedetta in marmo del paese incavate a forma di chiocciole.
In mezzo al pavimento spiccano due altri tumuli l’uno della famiglia Accetta con questa iscrizione
Baldassar Senior de Accetta
Ac Iunior
Condit ille sibi, hic posuitque suis
Anno 1702
Lo stemma presenta in fronte un elmo che sostengono due Genii, nel mezzo un leone con le scure fra le branchie, con croce a fianco indicante l’ordine di Malta. Due altri genii sostengono la impresa. Intorno intorno il sepolcrale coperchio vien rabbellito di rose, in piedi un orologio ad arena con un teschio di morte.
Vicino a questo avvene un altro dei Siciliani di Giovenazzo col titolo che siegue:
Hic requiescit in Somno Pacis
Iosephus Sicilianus Patricius Iuvenacensis
Columen Patriae
Obvium non minus exteris
quam Civibus praesidium Qui cum apud illos
per multis rebus Quam maxime utilibus
Probe sapienter ac feliciter confectis
Immortale merito nomen fuisset adeptus
Heu Mors invida
Eius
falsa melioris huc valetudinis spe seducti
Anno aetatis LV, aerae Christi MDCCLXXIX
Idibus Iunii
quod tantum denique potuit
Unam tot bonis flebilem humum ad humum redegit
Illam Iuvenacensis Ecclesiae Canonicus
Dominicus
Germanus Frater Amantissimus
Et ex alio fratre Nepos Heres ex asse gratissimus
Franciscus
Cum memore et lacrimis hoc lapide
contexerunt
Lo stemma gentilizio presenta un albero di pino con due lioni eretti che vi si arrampicano.
Infisse nel muro della Chiesa si venerano pure in grandi nicchi a cristallo due altre statue di S. Pasquale e di S. Francesco, opere dei nostri valenti artisti, che prima stavano a fianco dell’altare maggiore. Queste nicchie coi cristalli, e rispettive ampie cornici, oltre l’incavo, vennero fatte a divozione di D. Domenico Fiordiliso di Cerignola l'anno 1850.
Inoltre in cornu epistolae dello stesso altare maggiore in un angolo leggesi quest’altro epitaffio:
P. Iohanni Grimaldi Civi Andriensi Lectori iubilato, huiusque sacri coenobii moderatori. Viro integerimo Amicis suavi majoribus obsequenti, minoribus leni, Alienigeris caro, indigenis carissimo, qui seraphici ordinis variis distenctus curis tota fere Europa peragrata, Ac ministerio Provinciali laudabiliter functus Dum sibi in Christianae Philosophiae vacabat, medite inopino pituitosae apoplexiae morbo correptus Ingenti omnium moerore VII Kalendas Martias pie decessit Annos natus LXIII Pater Matthaeus Ex definitor Coenobio Praefaectus Fratri suo germano benemerentissimo Monumentum conficiendum curavit 1762.
Prima però di uscire dalla chiesa piacciati, lettore, entrare nella sacrestia ove altre meraviglie forse nuove ti attendono. Volgiti prima al gran quadro della Maddalena che è un capolavoro della pittura, ricoperta tutta da un gran manto bruno, in atto di orare. Pallida oltremodo e smunta sicché fa trasparire in volto la profonda doglia che l’accora. La tela in campo cupo accresce la mestizia del dipinto, che viene debolmente chiarito da fioco barlume.
Il pennello che distese questo esimio lavoro ne sentiva tutta la ispirazione. A pie’ della pentita giace quell’alberello di alabastro, contenente il balsamo, con cui unse i santi pié del Redentore. Vi si aggiungono molti altri quadri in tavolette bislunghe, tutte in campo d’oro, lavori della celebre scuola Senese.
Cominceremo da S. Antonio col suo giglio, unito a S. Ludovico Vescovo. A pié del quale leggesi: Antonius de Muriano 1467. La seconda è sacra a S. Bernardino, a S. Francesco e a S. Giovanni con l'agnus Dei. La terza a S. Michele con le bilance alla sinistra, armato la destra di alta picca, con cui trafigge il perfido lucifero con San Antonio ancora. La quarta ti offre Ecce Homo nudo a mezzo busto, coronato di spine con la croce eretta dietro le spalle. Nella quinta è figurato S. Pietro, il capo degli Apostoli con le sue chiavi, e S. Bernardino da Siena tenendo in mano l’emblema di Jesus. Nella stessa ti si espone il vecchio Simeone con mitra e ricco ammanto, fasciato nei lembi; non che S. Giovanni Battista colla sua pelliccia. La settima S. Francesco con le sante stimate, a pie’ di cui sta scritto: Opus factum Venetiis per Bartolomaeum Vivasinum de Muriano. 1483. La ottava mostra il calvario con Gesù deposto dalla Croce sostenuto in seno della madre e con la Maddalena a’ piedi. Nella nona mirasi San Bernardino con la pisside in mano, cui soggiace un’umile devota penitente a mani giunte, coperta il capo con fazzoletto bianco, bellamente crespo rinchiuso nei lembi dentro la veste. La decima presenta S. Caterina con la ruota aculeata in mano, atroce strumento con cui venne sottoposta al martirio [1]. L’undecima S. Pietro con le chiavi. L'ultima S. Antonio abate poggiato su rustico bastone, vecchio venerando purtroppo; e S. Agostino in gran piviale, con la sua mitra ed ai lembi del piviale suddetto è bello scorgere, che da una gran fascia che l’orna, escono varie figure rappresentanti i diversi ordini usciti dalla sua regola.
Tutte le indicate tavolette per la vivacità dell’espressioni, per la naturalezza degli incarnati sembianti, per la proprietà dei coloriti e dei vestiti, e per la freschezza che serban tuttavia rendonsi sorprendenti. Sonovi inoltre nell’armadio della sacrestia due altre statuette dei nostri famosi scultori, cioé S. Francesco e S. Antonio, i di cui volti vi parlano. Sappi inoltre che la stessa non manca di preziosi arredi, che le furon donati da Pasquale Spagnoletti Seniore. Consistono in uno splendido gonfalone ricamato in oro, ed argento, in stoffa o raso bianco, con le figure di San Francesco e S. Antonio e una croce pesante di argento indorata, in cui si ammirano varie leggiadre teste di Angioletti. Possiede inoltre l’incensiere, preziosa sfera per l’Ostia sacrosanta ed un apparato in lama d’oro per li-celebranti nelle messe solenni, arredi che costarono circa ducati settecento.
Queste perle raccoliemmo in questo tempio, e ne chiuderemo la descrizione con quei versi dell’Alighieri:
Qui farem punto, come buon sartore,
Che, com’egli ha del panno, fa la gonna.
Ed in uscire nel chiostro ti rallegrerà l’occhio nell’osservare intorno alle mura dipinti a fresco la nascita, i miracoli, e la morte pur anche del Patriarca d’Assisi.
A questo convento non manca il campanile di buona forma, ai quattro di lui fianchi elevansi altrettanti giarroni, che lo abbellano e l’adornano quattro campane. Sul cuspide in lamine di ferro venne fissato il noto emblema del Patriarca delle due braccia a croce.
Giovanni Cimabue nato nel 1240, sebbene imitò la scuola greca aggiunse molta perfezione all’arte, levandole gran parte della sua goffa maniera. Egli onorò Firenze sua patria col nome e con le opere. Fra l’altre fece in una tavoletta in campo d’oro un S. Francesco, e lo ritrasse (il che fu cosa nuova in quei tempi) naturale, come seppe il meglio, ed intorno ad esso aggiunse tutte le opere della sua vita in venti quadretti pieni di figure parimente in campo d’oro. Egli levò via quella vecchia maniera de’ Greci, facendo nelle sue opere i panni, le vesti, ed altre cose un poco più vive, naturali, e più, morbide, che la maniera di quei greci tutta piena di linee, e di profili sì nel mosaico, che in pittura, la qual maniera goffa, scabrosa ed ordinaria avevano, non mediante lo studio, ma per una cotale usanza in seguito l’uno a l’altra, per molti e molti anni i pittori di quei tempi senza pensare mai a migliorare il disegno, la bellezza del colorito, o invenzione alcuna, che buona fosse. Fu sotterrato Cimabue in S. Maria del Fiore con questo epitaffio:
Credilur ut Cimabos picturae castra tenere
Sic tenuit vivens, nunc tenit astra poli.
Lasciò molti scolari, fra’ quali il Giotto grande pittore. Sotto il di lui ritratto si rappresenta Gesù deposto dalla croce, sostenuto da Giuseppe d’Arimatea, da S. Giovanni, e lagrimato dalla Madre.

[integralmente tratto dal libro “Andria Sacra” di Giacinto Borsella, edito a cura di Raffaele Sgarra per i tipi di Francesco Rosignoli, 1918, pagg. 188-202]

[1] Varii furono i tormenti che la barbarie dettò contro i cristiani che non piegavansi ad abiurare la fede. Fidiculae eran tante unghie di ferro, con cui laceravansi le carni di quei santi eroi altrimenti detto Ungulae, che scarnificavano le membra. Il misero straziato facevasi sedere in equuleo, ossia cavalletto di legno, per ricevere quel martirio. Havvi chi stima, che fossero le Fidicule, funicelle di nervo ritorto con cui torturavasi anteriormente agli altri cruciati. Cyphonismus altra specie di martirio che davasi a quei pii credenti, che coperti di miele, ed esposti ai raggi del sole morivan lentamente sotto le beccature di mosche, di vespe ed altri animaletti, cosi appellato, perché al misero legavasi al collo un collare di ferro, onde non potersi muovere. Diasphendon era quel acerbissimo tormento, per il quale ripiegati a forza due alberi contigui, veniva in uno legato il martire per le membra appiccate, ritornando gli alberi alla loro situazione, squartassero così quelle sante vittime di Cristo. Forceps o tanaglia, con la quale veniva straziato nelle varie parti del corpo. Ed sera di tre sorte: la prima tagliente, la seconda solamente stringea, la terza aveva solo tre denti acuti, con cui stringendo strappava a brani le carni. Plumbatae o piombarole altra specie di crudo tormento, di cui spesso si fa menzione nel martirologio. Tormento che solo infiggevasi alle persone nobili, mentre l`equuleo davasi alla plebaglia. Tharincha era una lesina infocata, con cui venivano i cristiani adusti, anche nelle narici e nelle orecchie.