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Cappuccini
di Giacinto Borsella (1770-1856)
[Elaborazione elettr. del colore su foto d'archivio]
Quattro altre Chiese ci resta ad osservare. Noi ci avremmo taciuto se qualche preziosa Margherita
benché sola in esso loro non si manifestasse. Parleremo in prima della chiesetta dei Cappuccini,
sulla cui porta leggesi
[1]
Sacra Aedes, Vincentii Carafae aere fundata Anno 1577,
Ope fidelium restituta Anno Domini 1843. Nell’intromettersi, vedremo che è formata a due navi con presbitero.
Gioiremo in rimirare l’ammirabile dipinto della Visitazione sull’altare maggiore
di stucco fornito con ciborio di marmo, con custodia in lama d’argento, nella quale
è figurato il calice coll’Ostia, avendo in fronte tre Angioletti alati di marmo bianco.
Sull’architrave dell’altare sono allogate due Statue di S. Felice, e S. Giuseppe,
da Lionessa matrice, entrambi santi dell’ordine.
Di povertade e d’umiltà maestro.
A questo martire, venne troppo spietatamente strappato il cuore che porta in mano.
Il quadro di questo altare ben grande, espone ammirabile dipinto della Visitazione,
cinto di cornici inaurata.
E qui cade in taglio ricordare il proverbio antico, che la
Cornice fa il quadro.
Le cornici dorate hanno un doppio vantaggio, che senza cagionare una grande spesa
offrono un apparenza elegante, e ricca; ed inoltre fan si, che i colori del quadro
ottengano miglior effetto. È bello mirare Elisabetta che uscendo incontro alla Vergine
corre e le si avviticchia ansiosa, lasciando un braccio sospeso sugli omeri
e coll’altro porgendole la mano; sicché rimangono strette fra loro con le mani
conserte sospese dal suolo. Bella è la mossa di Gioacchino, che tra la soglia
dell’uscio togliesi reverentemente di testa il berretto a quel felice arrivo,
veder S. Giuseppe, che alle spalle di Maria riman compreso di tenerezza,
scernere la veste della prima di bianco lino, e con candido lino anche in testa,
in soprabito fino al ginocchio, colore fior di malva
[2].
Il vestir della cognata in corta tunica purpurea, con sopraveste cilestre
modestamente riversata alle spalle, ornata il capo con lembo di bianco velo,
S. Gioacchino in sottana scarlatta e berretto simile, orlato di pelle bianca,
e S. Giuseppe in toga azzurra, e ferraiuolo giallognolo rivolto sugli omeri,
e bastone ad armacollo, come addicesi ai viandanti; tale vestire e mosse
offrono lo più grato spettacolo a chiunque vi si affissa. Né meno piacer debbono
i due angioletti con zone di porpora e chiome inanellate d’oro fino,
pei disegni degli ospiti l’uno portando argenteo giglio e l’altro un cappello
a modo dello sposo di Maria. Il pittore saccente non omise in cima del quadro
lo spirito Vivificatore. Veggonsi inoltre delle teste alate di Serafini,
spettatori lieti dell’augusta visita.
Or chi non gioirà per le ammirabili tinte sì delicate e fine, per le vive
e parlanti espressioni, per un certo che di divino, che spira dai volti
di quelle sacre persone con tanta grazia ornate?
Questo si egregio dipinto sembra potrebbe essere opera di Guido Reni,
celebre pittore Italiano, nato a Bologna l’anno 1575. Ei mostro nei suoi lavori
una certa nobiltà ed eleganza, cui dava ancora maggiore risalto un colorito
tenero e delicato, una distribuzione di luce mirabile, e tutte le grazie del pennello.
Or se questa tela non è originale di famoso artista, è tale da gareggiare
colle primarie, per quella tanta modestia, che ne riluce complessivamente.
E siccome questo quadro fu dono dell’illustre fondatore, così ben esser dovea
dono degno di Lui. Gioiremo pure in osservare, che la fantasia del pittore,
che ritrasse il Serafino Romito nell’altare a lui dedicato,
ben meditò il Canto X del Paradiso, quando il sole di Assisi
Nel crudo sasso intra Tevere ed Arno
Da Cristo prese l’ultimo sigillo
Che le sue membra du’ anni portarono.
E però pennellavalo magro, umile; ma splendente del martirio. Ed è tale quell’attitudine
sì rifinita che diresti aver già quel Divo coll’ultimo anelito, varcato il passo,
donde non si fè mai ritorno. E se l’alma non commuovesi da tanto vedere,
e non sente altamente e convolta nei vizii non sale ad ispirarsi nella santità
di lui celestialmente dipinto, di lui
… La di cui mirabile vita
Meglio in gloria di ciel si canterebbe.
Altra tela si offre col titolo sottostante di Consolatrix afflictorum,
dipinto pieno di vita, con manto in testa azzurro cupo, la cui nera chioma
scende dipartita sul petto. A sua lode direm solo che eccita fidanza, riverenza,
divozione, ed affetto. Le tele degli altri minori altari sono la Concezione
inghirlandata di stelle, che col piè schiaccia la biscia dell’Erebo;
veste rossa, e manto cilestre la decorano avendo sul capo l’amor Divino.
Due angioletti le soggiacciono con giglio, e serto di rose fra le mani
circondata da altri celesti spiriti. Succede l’altare di S. Giuseppe da Lionessa,
Cappuccino, trafitto il petto donde sgorga vivo sangue, col sincipite spartito
da crudo fendente. Gli stanno a fianco due Angioli l’uno col libro aperto,
in cui leggonsi queste parole;
Unus Deus una fides unum Baptisma;
l’altro stringendo in pugno una lancia, due altri scendono dall’alto,
l’uno con la palma, il secondo con la corona del martirio.
Il terzo altare tiene il quadro del B. Angelo dell’ordine Serafico,
sostenuto da un cherubino alato che coll’indice additagli il colle
da battere nel viaggio. Il quarto è dedicato all’Addolorata,
statua chiusa in cristallo ricoperta con veste serica a bruno orlata
di fimbrie di argento, fattura dei nostri buoni scultori.
Il quinto ha un quadro del Bambino col cuore in mano ed a fianco
due statue di S. Francesco e S. Antonio, lavoro degli stessi nostri scalpelli.
Oltre le suddette tele sonovi in cima della prima nave sei occhietti con le seguenti figure:
S. Orsola, la Pastorella, S. Agata, S. Francesca Romana, S. Agnese e S. Irene.
Questi altri dipinti sono cari e graziosi, per la leggiadra espressione non meno che
per la proprietà e freschezza dei sembianti e morbidezza del colorito.
Nelle mani della prima sventola uno stendardo di porpora; la seconda carezza
candidetta Agnella in grembo. Di lei, potrebbe quasi ripetersi quell’ottava
spiritosa dell’Ariosto, esagerando le bellezze di Olimpia.
E se fosse costei stata a Cotrone
Quando Zeusi l’immagine far volle
Che pur dovea nel tempio di Giunone,
E tante belle nude insieme accolse
E che per una farne in perfezione
Da chi una parte, e da chi l’altra tolse;
Non avea altro da torre, che costei,
Che tante le bellezze eran in lei.
S. Agata con le mani ligate vedesi in prigione, per essersi denegata d’impalmare
Quiziano Pretore in Sicilia Sotto Decio Imperatore. Perlocché non avendolo
quel feroce potuta vincere, nè spaventare con le minaccie, ordìnò finalmente,
che le fossero bruciate le mammelle con lamine roventi. In mezzo al quale
tormento la verginella rimproverava quel feroce ministro con tal acre rimbrotto:
Crudelis tyranne non te pudet amputare in foemina quod ipse a matre suxisti?
Vien poi la illustre patrona S. Francesca Romana, di cui ben a ragione vantasi
la Chiesa per quello spirito di santa umiltà, di cui fu rivestito il suo cuore
e per quei volontarii strazii, cui assoggettò il di lei corpo.
Imperciocchè non solo fu specchio di S. Sapienza, ma anche modello di modestia,
per quelle luride aspre lane, di cui faceva uso a scorno degli altrui sontuosi vestiti.
Quanto poi fossesi la Eroina inoltrata nella pietà basta dire, che
i suoi deliqui verso la croce eran deliqui di atroce punture,
e che non arrestavasi ad esercitare qualunque atto a servizio più vile,
onde alleviare gli altrui travagli; ne sparambiava sorta di più duro martirio,
per resistere alle tentazioni di averno. Sicchè meritò dal Cielo il dono esimio
delle predizioni, e l’altro dei prodigi più segnalati che il signore si compiaceva
di manifestare dietro le sue preghiere. La onde si vide sorgere un Ordine religioso
sotto la sua regola. Che dirò di S. Irene? Ben si ravvisa al fulmine trifulco,
che le guizza intorno, allusivo all’insigne protezione che ancor dà in allontanare
siffatte tremende meteore.
Dietro l’altare maggiore avvi un modesto coro a due ordini di sedili, costrutti di buona noce,
e rimpetto affisso nel muro un quadro spazioso della Vergine che affida nelle sante braccia
di S. Felice il suo diletto, il quale a lui rivolto gli carezza amorevolmente la canuta barba,
perlocchè è tratto in estasi soave. A piè del Santo sta una bisaccia inforcata da una mazza,
dalla cui bocca, sporge pagnotta bianca buffetta, che la carità dei fedeli largita aveva
alla povertà dei frati, nihil habentes, et omnia possidentes. Se non altro,
mostra questa tela ingegno, grazia, naturalezza, e piacevole colorito.
Quindi il Filicaia nella canzone 28 al serenissimo Duca di Toscana per la fondazione
del Convento dei PP. di S. Pietro d’Alcanta¬ra così scriveva:
Ruvide vesti, e breve sonno, e vitto
Usar semplice e parco, e parchi accenti;
Altar l’oppresso e consolar l’afflitto,
E qual torto sentiero, e qual sia dritto,
E insegnar come Dio s’ami e paventi;
E qual dietro al piacer vengan tormenti,
Son questi di Dio servi ed amici
L’opre men belle ei più volgari uffici.
Ti piaccia per tanto volgere il piè, e lo sguardo al capo della scala che mena sul dormitorio,
ove è messa una tela della Vergine appellata la Madonna della Grazia,
che latta il suo fanciullo. Egli tiene una tunica rossa sopra la camicia,
la Regina porta bianco lino in testa, veste colore fior di malva, e manto cilestre.
I di lei lumi ti parlano, come quei pur anche del bambolo, che si nutrica
dell’intemerato di lei seno. Dopo avere, su recitato un’ave ti piaccia lasciarla,
mentre ti parrà che ti segua coi Santi suoi lumi piene di soave dolcezza.
Che dir dovrò a sua lode? Meglio encomio che tesserle saprei,
sarà riportare quello del Filicaia nella Canzone 49 di un concepimento
assai fino, e sublime:
[Elaborazione elettr. su foto di M. Monterisi - 2010]
O di figlio maggior gran madre e sposa,
Vergine madre, e del tuo parto figlia,
A cui non fiume fia mai simil cosa.
Vergine bella in cui fisso le ciglia,
L'eterno Amor per far di sè un esempio,
Che più d’ogn’altro il suo fattor somiglia.
Dolce vero di Dio sacrato tempio,
Unico scampo delle afflitte genti
Vita dell'alma, e della morte scempio.
Tu innamorar coi bei pensier ardenti
Sola potesti e coi begli occhi il Cielo,
Con quei begl’occhi più del sol lucenti.
Non saettavan col raggiante telo
Ancor la notte i giorni, e non ancora
Facean le notti al morto giorno velo;
Nè dall’aurato suo baIcon l'Aurora
Vergini rai piovea, né alate piante
Avea quel che i suoi figli, e se divora:
Né circumfuso in tante parti e tante
Era il grand’aere, che la terra abbraccia,
Nè invoca l’Oceano il pié spumante;
Né gli abissi sull’oscura faccia
Alzate ancor l’alto motore avea
Le creatrici onnipotenti braccia;
E vivo già nella superna idea
Era il tuo esempio, e già faceanti bella
I rai di quell’amor, che amando crea.
E quando ei mosse i cieli, e la novella
Tela ordìa delle cose, e in mezzo al Polo
Accese gli astri, e la diurna stella
E quando all’acque il corso, e all’aere il volo,
E alle piante diè vita, e quando apprese
Le fondamenta dell’immobil suolo ecc.
[integralmente tratto dal libro “
Andria Sacra” di Giacinto Borsella, edito a
cura di Raffaele Sgarra per i tipi di Francesco Rosignoli, 1918,
pagg. 239-246]
[1]
Vincenzo Carafa, secondogenito del Duca Fabbrizio I. occupa un nome nelle storie del regno,
pei grandi vantaggi procacciati alla religione dalle sconfitte da lui date alle schiere ottomane.
Essendo qua pervenuta la notizia essere l’isola di Malta assediata dai turchi
e che molti personaggi cristiani accorrevano in sua difesa, egli come appartenente a quell’Istituto,
elettisi quattro giovani delle prime famiglie Andriesi anche Cavallieri di Malta,
cioè i signori Giammarco Quarto, Cesare Marulli, Federico Leopardi, e Marino Filangieri,
corse con essi alla sorte delle armi. Ed avendo assoldato nel Regno a proprie spese
molti uomini armati al pari di altri principi, venne a giornata col nemico.
Si distinse tanto il suo valore, già disfatti i Turchi, che venne decorato della gran croce,
indi essendo al gran piorato di Ungheria, e finalmente dichiarato capitano generale
delle galere della Religione. Gli Andriesi di suo seguito, che avevan fatto da capi
nelle sue legioni, vollero ritirarsi. Ed il Re Filippo prendendo in considerazione
i servizi prestati donò loro alcuni poderi nei tenimenti di Andria. Ma il gran Priore
Vincenzo volle percorrere lo stadio della gloria.
[2]
Nonnullae mulieres symmetriam induunt, quae est tunica talaris purpuream fibriam habens.