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Chiesa di San Sebastiano o della morte
di Giacinto Borsella (1770-1856)
[Elaborazione elettr. su foto di S. Di Tommaso - 2010]
Prima di metter piede in quest’altra chiesa suburbana, dedicata anticamente a S. Onofrio,
volgiamoci poco cogli sguardi a rimirare il frontespizio della stessa, tutto di pietra viva.
Ci si offrono in prima ai due lati due scheletri di morte rilevati secondo natura,
e nel mezzo una giovine donna scarmigliata divorata dalle fiamme espiatrici della colpa.
Al di là altro teschio fra due ossa incrocicchiate, ed in cima un secondo con crocetta
in capo fra due oriuoli, misura del tempo, che statuì l’Eterno, onde uscir
dal tormentoso carcere. Nel mezzo la statua di S. Sebastiano legato ad un tronco, nudo,
spietatamente trafitto dalle saette. Lavori maestosamente eseguiti dagli scalpelli
di nostra patria. Il tutto insieme mostra la chiesa a chi dedicata sia.
E qui convien sapere, che nell’Agosto del 1656 videsi aggredito il Regno da fierissima peste.
Non affacciavisi appena una pustola nerognola detta bubone, in qualunque parte del corpo,
che subito sopraggiunta una febbre, lasciava estinto il paziente. Su questa Città
incrudelì tanto questo flagello, che nello spazio di sei mesi mietè al disopra di
quattordicimila anime, di modo che Andria che numerava 22000 anime rimase distrutta di due terzi.
Per arrestare questo ferale malore non vi fu riparo. Si pensò di segregare gl’invasi dai sani,
ed a questo scopo venne destinato come lazzaretto un camerone attaccato alla Chiesa di S. Maria Vetere.
Servì anche a quest’uso un gran casino nel promontorio in cui fu eretto il convento del Carmine.
Ma anche tai provvedimenti riusciron vani, perchè gli assaliti per non essere condannati ai lazzaretti,
celavansi, e così campeggiava sempre più la strage. Finalmente quando videsi dilatato l’esterminio,
si ricorse alle violenze. Dovunque trovavansi coloro, che dall’aspetto apparivano essere attaccati,
a viva forza venivano spinti a quei luoghi. Di continuo vedevansi i becchini raccogliere
messe della sventura, e correre a depositarla in granai, che questa città tenea nel d’intorno.
Ne furono riempite a ribocco sette nelle adiacenze del Carmine, che ancora appaiono.
Tre vecchie cisterne vicino S. Lucia, e due accanto al convento di S. M. Vetere.
Non è da passarsi sotto silenzio lo zelo e la pietà del Vescovo Monsignore Ascanio,
il quale non cessò di visitare ogni tugurio per apprestare ogni sollievo alla indigenza
e per non far mancare gli spirituali sussidii. Della sola Cattedrale si contarono
morti quarantasette sacerdoti. Tutte le famiglie facoltose abbandonando i loro tetti,
si ritirarono nelle case di campagna.
La Casa Ducale lasciando qui due suoi uffiziali a dispensare ai bisognosi il vitto,
andossene nel Castello del Monte, in unione di molti altri notabili Andriesi, ove dimorò sei mesi
in perfetta salute. Nel Dicembre si scoperse un rimedio alquanto efficace e consisteva
nell’applicazione del fuoco sul comparso bubone. Ma poichè molti, e specialmente le donne
non resistevano alla ustione, nel Gennaio 1657, alcuni vecchi rimembrando la tradizione,
che in un consimile disastro era stata questa città liberata dietro un pubblico voto
al glorioso Martire S. Sebastiano, e che perciò n’era stato eletto per Patrono meno principale,
fu perciò che si ricorse di bel nuovo alla sua intercessione, conferendosi ogni giorno
il Vescovo col clero e la Università a pregarlo nella sua Chiesa.
Quindi dalla vigilia di questo santo, qui non si avverò altro caso, mentre nei luoghi limitrofi
la strage infieriva. Allora si stabilì un triduo di preghiere, e l’offerta annua
di dieci libre di cera al martire. Intanto fu presa determinazione di bruciarsi
tutte le suppellettili rinvenute nelle case degl’appestati, il pio Prelato Ascanio Cassiano,
che per divina provvidenza non soggiacque al comune infortunio, dopo altri cinque mesi
corse all’eterno sonno dei giusti: il suo corpo venne tumulato nella cappella di S. Riccardo.
In questa peste si distinse nel lazzaretto di Napoli la pietà di un nostro concittadino,
il servo di Dio, Fra Pietro della Croce, carmelitano, dell’Osservanza di S. Maria
della vita di Napoli. Egli era nato da Giacomo de Feo, e da Mariella, persone molto religiose.
Tenendosi occupato al servizio degli appestati, ivi morì in concetto di santità, correndo il 1656.
La sua vita non senza miracoli fu egregiamente scritta dal P. Maestro Fra Andrea Mastelloni
dell’istesso Ordine, Provinciale di Scozia. Essa fu stampata in Napoli nel 1698 dal Gramignani.
Post hanc orationis excursionem, in entrar nella Chiesa ti si para di fronte
magnifico l’altare maggiore per marmi ed intagli, decorato nel frontispizio di tanti e diversi lavori,
con due cornicioni. Leggiadramente contorti, le cui mensole, ove adattansi i grandi candelieri
e giari riboccano di foglie ed intagli. Ai fianchi gli stemmi dell’Arciconfraternita
della morte ivi eretta. Questo altare poggia sopra quattro gradini di marmo fasciati
di giallo e nero. Ai fianchi sono infissi due credenze. Questo altare sì ornato,
sì splendido fu fatto in Napoli ai tempi di Riccardo Carafa confratello della pia adunanza.
Nei muri opposti del presbitero, chiuso da decente balaustre di marmo osservansi due quadri
di mediocre pennello. Nel primo Gesù viene dai perfidi Giudei tratto a viva forza
sulla croce presente l’augusta Genitrice, S. Giovanni con una delle Marie
e la peccatrice di Maddalo prostrata a pié del patibolo, con fazzoletto sugli occhi,
onde asciugare quel pianto che le ottenero salute. Quadro fatto a divozione di Vito Favano
in cui vi è il di lui stemma, che mette in campo un fagiano sorvolante il mare.
Nel secondo Cristo chiodato sull’infame legno con la vergine trafitta dalla spada
del dolore in unione del prediletto discepolo con anche la Maddalena.
Fatto a divozione di Croce Zingarelli che altri ne fece dipingere come vedremo.
Ci glorieremo quindi delle quattro statue esprimenti i misteri della passione,
riposte ai fianchi dell’altare, a dritta e a sinistra; come pure di un’urna tutta
in nicchie di cristalli, quest’ultima portatile fregiata ai quattro lati con cornici
rabescate in oro fino, che chiude la mortal salma di Gesù disteso sopra soffici cuscini,
opere prestanti dei nostri egregi statuarii.
Ai due lati dell’altare leggonsi in marmo queste iscrizioni.
Pius VI P. M.
Fidelibus defunctis nimium indulgens
Hanc venerabilem aram
Perenni privilegio per singulos dies
Clementer ditavit
A. D. MDCCLXXXI Die XVI Maii
L’altra è la seguente.
Ut sacris misteriis Fideles
Quotidie praecipue festis
In missae sacrificio commodius vacarent
Devotis praecibus
Huius Venerabilis Arciconfraternitatis
Clemens XIV P. M.
Religiose anuuens
Die XXV Maii MDCCLXX
Apostolica benignitate
In fra horam post meridianam
Posse sacrificium celebrari
Permisit atque laudavit
In mezzo del presbitero quest’altra del tenor seguente:
A. Hoc in requietorium, Ω.[1]
Ad novissimam usque tubam
Piorum sub mortis tutela Fratrum Sororumque
Huius Archisodalitii
Exuviae inferuntur
Ut quos charitas viventes coniunctissimos devinxit
Urna post fata haud divelleret
Havete Anirnae pientissimae
Ipsi vos quo Natura iusserit ordine
Sequemur
A. D. MDCCXCIV
ΊΧΘΎΣ
Questa iscrizione veramente classica da capo a fondo che comincia dall’alfa
e l’omega secondo la nota sentenza del Divin verbo, Ego sum principium et finis,
e termina colla parola greca dinotante piscis, ben direbbesi composta
dai primi Maestri della Epigrafia Latina. In quanto al piscis trovasi
già da noi assegnata la ragione, perché i cristiani, venissero chiamati così.
Ben inteso che nei sepolcri antichi la suddetta parola spesseggia.
Or chiunque si fermi a considerarla, rimarrà certamente soddisfattissimo per la eleganza,
per torno, per la proprietà delle voci e pel modo con cui fu dall’autore congegnata.
Ai corni dell’altare non mancano due grandi Cornucopii di ottone per accendersi i cerei nei dì festivi.
Sul coro di noce messo dietro l’altare è appeso un grande quadro della Vergine del carmine
che sostiene il parto delle sue viscere e ai di Lei santi piedi S. Riccardo e S. Sebastiano.
Nel mezzo della gran cornice rabescata a rosoni in oro sono figurati i quadretti
da una parte S. Antonio, e S Domenico dall’altra.
Questa tela fa onore al pennello che ritrassela. Chiunque poi alzerà lo sguardo
alla eminente cupola, costrutta sopra l’altare, istoriata a fresco coi dottori
della Chiesa ai quattro fianchi, colla Triade nell’apice, e la vergine,
insieme con l’augusto coro dei Santi, Confessori, Vergini, Martiri,
una col sussieguo degli spiriti celesti, non farà a meno, che non ne rimanga compiaciuto.
Al disotto la suddetta cupola è ricinta dal carcere di espiazione,
nel quale scendono quelle beate schiere coi calici di refrigerio ed altre
con le destre in atto di liberare quelle anime, che dopo il termine
della pena son chiamate ai gaudii dell’Empireo.
Sulla porta vi è l’organo con orchestra ben commoda. La volta della Chiesa è formata
concava con fascie larghe, le quali dividonla in quattro parti, così la prima,
così la seconda. Nel centro della prima leggesi questa breve iscrizione:
Tempore sindicatus Antonii Picentino 1593.
Nel pavimento s’incontra un sepolcro col leone rampante sopra un ramo di rosmarino;
forse arma di famiglia del Picentino. Nell’entrare a manca vi è la fonte
dell’acqua santa fatta a chiocciola striata, di breccia.
Alle mura della Chiesa sull’ingresso sono apposti dei quadri grandi.
In uno scorgonsi cinque anime desolate, che purgansi tra vive fiamme,
ed un Angelo che scende dalle nubi con calice di refrigerio in una mano,
mentre stendea l’altra a quella più avventurosa fra le altre,
cui è concesso di salire al possesso del Paradiso. Sussiegue un contadino in ginocchioni
vestito alla spagnola, con giamberga cioé larga di falde, lunga fino al ginocchio,
e calzoni corti, l’uno e l’altro forniti di bottoni di metallo dorati
anche nelle rivolte delle maniche, tenendo vicino il suo cappello a triangolo.
Su di un nastro leggesi: A spese di Croce Zingarelli, confratello di questa congrega 1795
con la sua impresa che mette in campo un ponte a due archi con triangolo equilateri in cima,
sussiegue un sacerdote in atto dell’elevazione dell’ostia sacrosanta, prostrato
ad un altarino fornito degli arredi eretto in una cappella bene ideata,
con quadretto della concezione. Dietro al celebrante un chiericotto in cotta,
tenendo in mano una candela accesa.
Viene appresso altro quadro, in cui osservasi in molta distanza la divina Gerusalemme,
e quinci Mosé con le sue tavole, ed un Angelo, che ce le indica, e quindi
il Redentore col sacro vessillo della rendezione, in cui è sculta
una gran croce color porpora, nelle mosse di estrarre dal limbo un vecchio venerando,
per la sua canizie. Dietro a Gesù due anime escite da quelle bolge purganti;
ed altre in alto in atto di ringraziamento, già fatte libere dalla pena loro inflitta.
Dietro al chiarore di queste fiamme mirasi spaventevole tenebrio con globi di fumo
che elevansi dalla bocca spalancata del Tartaro, sbuca un demone alto in iscorcio,
della figura d’un caprone con ritorte corna ed occhi di brace.
Accanto vi e la dolente madre, che prega la triade Santissima a commiserare
lo stato di quelle infelici prigioniere. E già un Angelo ne salva una per effetto
delle esposte suppliche. Il trono dell’Eterno è corteggiato dagli angioli e serafini.
Di poi altro dipinto vien dietro, che espone Cristo deposto dall’infame tronco,
adagiato nella Sindone, la quale teneanlo avvolto nella tomba.
L’afflitta genitrice gli sta a’ piedi, sostenuta dal pio discepolo, compassionevolmente
rimirando l’inumano strazio, e in lontananza il Calvario con tre patiboli eretti,
e più in là Gerusalemme. Questo quadro venne fatto a divozione di Agostino Carpignano,
il suo stemma porta il sole raggiante fra due stelle. Confessiamo che tutti
i suddetti dipinti sono fattura di ordinarii pennelli.
Nella porta della sagrestia dalla parte interna della chiesa havvi un dipinto di uomo
precipitato dal suo destriero, avendo un piè conficcato nella staffa.
Il suo vestiario appalesa per un viandante con stivali bordati, di pelle rossa.
Egli veste giamberghetta corta fino al ginocchio, con berretto orlato di pelle.
Il cavallo di pelo morello ardito e bizzarro, come mostrasi alla cervice ardita,
e agli occhi bianchi vien trattenuto da uno scheletro di morte.
Quindi il figurato apparisce in lontananza a cavallo nella posizione di entrare
nella porta di sua casa. Colui che ebbe la grazia di campare dalla calamità
di restar vittima al suolo appellavasi Filippo de Lauro, che meritamente
sciolse il voto a favore di quelle anime benedette, facendo dipingere in tela
il miracolo riportato, lavoro egli è di ottimo pennello, stimabile in tutte le sue parti.
Nell’entrare in sagrestia a manca vi è un Oratorio con altare di pietra,
sul quale si erge una croce con Gesù chiodato, sacro in epoca vetusta a S. Onofrio,
in cima scorgesi la nascita della Verginella Maria; S. Anna adagiata in letto modesto;
S. Gioacchino ilare per quel felicissimo parto, e delle fantesche che rasciugano
i pannolini al focolaio. Non saprei come lodare la mano del pittore,
per le figure espresse al vivo, e per le mosse di esse che parlano agli occhi.
Lateralmente all’altare, stanno elevate due, nicchie di cristallo contenente l’Addolorata,
e S. Sebastiano, lavori dei nostri valenti artefici. Nel paliotto, l’urna
di cui fu fatta parola, in cui giace il buon Gesù.
Nella porta della sagrestia è affissa altra tela votiva. Una donna vestita a bruno
prostrata orando le anime Sante, onde impartirle la grazia di liberare il suo marito
fatto schiavo dai Turchi. Costui vedesi seduto su di uno scannetto fustigato
alle spalle da barbaro manigoldo con aspro flagello. Non passò gran tempo,
che l’infelice schiavo per intercessione delle anime benedette tornò in patria.
Sicché a memoria dell’avvenimento prodigioso fece appendere il voto.
Questo quadro ha la espressione la più viva e naturale, onde colpisce l’animo del riguardante.
In prosieguo altra tabella votiva, che espone un miracolo riportato
da un certo Giuseppe Nicola D’Avanzo, nostro concittadino di condizione oliandolo.
Costui avviatosi per Bitonto con la vettura, onde caricar l’olio, giunto vicino la città
videsi aggredito da un ladro, il quale dopo avergli tolto il danaro,
staccò la mula dal bilancino per condursela. Or l’animale a tal mossa dà fuori
sì alto strido dietro l’orecchio dell’assassino sicché rimastone spaventato,
caddegli di mano il fucile. Colsero allora gli aggrediti d’Avanzo e Sebastiano Carbone vetturale,
di dare addosso all’aggressore, di legarlo ad un albero, e correre in città
a darne parte all’autorità giudiziaria. Sicchè il ladro caduto in mano
della giustizia pagò il meritato fio. In memoria di tal prodigio,
venne appesa quella tavola votiva.
Sopra la porta che conduce in piccolo discoperto leggesi:
Iohanni Donato Aybar Andrien
Mirae probitatis Sacerdoti
Qui verbo et exemplo ad Cristi obsequium
Multos perduxit
Cuius opera oratorium
Hoc et in coeptum
Et perfectum est
Huius Congregationis Confratres
Parenti in spiritu optimo benemerenti
Posuerunt
IV Kal Feb: M.D.C.XXXVI
La confraternita bastantemente doviziosa di rendite possiede ricchi arredi
per l’altare, anche di argento, oltre della sfera del Sacramento.
Il campanile, che si eleva sulla volta della Chiesa, è un quadrato a quattro balconi,
con tre campane, due mezzane, ed una piccola, che dà il segno per la messa,
che si celebra a mattutino, e nelle ore pomeridiane.
[Pianta schematica della Chiesa ai tempi del Borsella (non presente nel testo originale)- elab. Sabino Di Tommaso]
[integralmente tratto dal libro “
Andria Sacra” di Giacinto Borsella, edito a
cura di Raffaele Sgarra per i tipi di Francesco Rosignoli, 1918,
pagg. 247-256]
[1]
Alfa ed Omega dall’alfabeto greco. In sostituzione dei caratteri greci si è usato carattere latino [Nella trascrizione sono stampati quelli greci].