La distinzione tra la vecchia Andria e la nuova, che le è sorta d’intorno durante il secolo scorso, è tuttora evidente, e, benchè pochi ruderi avanzino delle mura e una sola delle quattro porte resti in piedi, è agevole delimitare la cerchia.
Se avviandoci dalla porta del Castello — che era posta tra la casa Porro e l’edicola del Carmine — prendiamo per via Ugo Bassi, e attraversando la piazza Umberto I scendiamo per via Attimonelli e pel pendio San Lorenzo e dopo oltrepassata la porta Sant’Andrea, proseguiamo per le vie Porta Nuova e Manthoné e giunti a Piazza Ettore Carafa volgiamo per via Orsini, risaliamo a piazza Ettore Fieramosca e di là, per via Ruggiero Settimo torniamo a Porta Castello, avremo compiuto il giro delle mura. Avremo avuto sempre a destra i nuovi quartieri, mentre tutte le costruzioni che avremo viste alla nostra sinistra sono in parte sovrapposte o addossate alle mura e in parte elevate nei fossati.
Una precisa immagine della cinta ci è data dalla pianta di Andria che fu rilevata con scrupolosa esattezza di misure nel 1758 dall’architetto Carlo Murena e fu incisa in rame e poi riprodotta in minori proporzioni nell’articolo su Andria che Riccardo Colavecchia inserì nell’opera dell’Orlandi sulle città d’Italia (Perugia, 1770, t. II, pag. 68).
Le mura che si stendevano per la circonferenza di un miglio erano fortificate da dodici torri e da un bastione trapezoidale di cui si vede ancora parte del basamento a levante della porta del castello. Oltre questa vi erano altre tre porte: porta S. Andrea, l’unica conservata; porta della Barra, il cui posto è indicato dall’incrocio della via omonima colle vie Palestro e della Costituzione; porta nuova che era posta quasi al-l’estremo della presente via Cristoforo Colombo presso la casa Verona.
Sorgevano queste mura sulla stessa linea tracciata dal normanno Pietro, Conte di Trani, quando verso il 1046 ampliando e fortificando locum Andre, indicato fino a quel tempo e a cominciare dal secolo IX come appartenente al territorio e alla diocesi tranese, gli diede forma ed onore di citta?
Alla risposta mancano i sicuri argomenti di fatto. Quando considero che la collina dove sorge la nostra città degrada da levante per mezzogiorno a ponente e si slarga in piano verso settentrione e considero il posto accanto alla cattedrale dove si eleva il castello, mi sembra che la linea primitiva delle mura verso nord dovesse trovarsi più indietro, lasciar fuori gran parte della «Catuma» venendo dall’angolo di «Fravina» e andando verso la porta santa. La necessità della difesa doveva consigliare di porre il castello nel punto culminante ma anche estremo dell’abitato e nel lato dove per la facilità dello spiegamento delle forze nemiche fosse maggiore il pericolo. Non so immaginarmi come proprio da questo lato il feudatario normanno abbia permesso intorno alla sua rocca impaccio degli agglomerati di case di S. Ciriaco, del Casalino e di S. Bartolomeo. Ma è poco prudente avventurarsi in ipotesi che poi un bel giorno possano essere contradette da uno scavo fortuito o da un nuovo documento.
Certo se non proprio dall’origine già al tempo svevo il circuito delle mura aveva quella forma che si è conservata quasi immutata per cinque secoli. All’intorno, a poca distanza dalla cinta, sorgevano le antiche chiese di Sant’Andrea e di S. Bartolomeo, questa seconda già nominata nel 1196, e proprio adiacenti alle mura erano il convento di S. Francesco (ora palazzo municipale) e l’ospizio dei cavalieri Teutonici (di poi convento di S. Agostino) che rimontano al primo ventennio del secolo XIII. Non sappiamo in che tempo sia stata aperta la Porta Nuova, il cui nome ricorda una modifica e forse un ampliamento della città da quel lato; come non sappiamo quando sia stata chiusa l’altra porta a mezzogiorno e al suo posto elevata la chiesa di S. Maria di Porta Santa, ma questo fatto è attestato da oscure tradizioni e per tentare di chiarirle andrei troppo per le lunghe.
Le nostre mura sentirono presto, non appena costruite, l’impeto degli assalti nelle guerre combattute tra i baroni normanni ribelli, dei quali era a capo il conte di Andria, e Roberto Guiscardo duca di Puglia e poi molte altre volte soffrirono l’ira nemica, nell’invasione degli Ungheri, venuti nel regno per vendicare l’uccisione di Andrea marito di Giovanna I, nelle fazioni dei baroni del partito angioino contro i sovrani aragonesi o infine nella lotta per la supremazia fra Spagna e Francia.
Dovettero avere frequenti rifazioni e restauri, ma a noi è giunta notizia dei lavori compiuti dopo la spedizione che prese nome dal Lautrec, quando ristabilita la quiete furono ricostruite le mura da Porta S. Andrea e Porta Castello. Dopo la metà del secolo XVI cominciò un lungo periodo di pace e non si ebbero fatti d’armi intorno ad Andria. Le mura andarono a poco a poco assumendo una funzione fiscale per impedire le contravvenzioni al pagamento delle gabelle, e per tutto il secolo XVIII troviamo frequenti reclami degli esattori per le brecce che si erano aperte nella cinta. I reclami verso il 1774 furono alfine esauditi e la cinta ripristinata nella sua potenza e si trovò in grado di rendere possibile per qualche ora la resistenza dei borbonici all’esercito della repubblica napoletana nella fatale giornata del 23 Marzo 1799.
A chi entrava in città dalla porta del Castello si offriva la vasta spianata della Catuma in fondo alla quale sorgeva la chiesa maggiore e accanto ad essa il castello feudale. L’originario livello del suolo si elevò alquanto per l’ingente copia dei materiali venuti fuori dalle fondazioni del castello e dallo scavo del largo fossato che lo circondava. Così la chiesetta primitiva del loco Andre si tramutò in cripta e sopra di essa fu costruita la chiesa maggiore sede del vescovo nuovamente istituito. Accanto al prospetto ma isolata sorse la torre campanaria che ancora rimane, unico avvanzo della costruzione primitiva del tempo normanno.
Il castello, da dove dominarono sulla città i conti normanni della stirpe di Amico, appartenne poi agli Svevi e ai principi angioini finchè il feudo non fu concesso ai Del Balzo. Questi magnifici e colti signori, varie volte imparentati colle case regnanti degli Angioini e degli Aragonesi, dovevano trovarsi a disagio nel vecchio fortilizio normanno: lo demolirono e al suo posto edificarono un palazzo. Un’ampia strada fu sostituita all’antico fossato, che i nostri documenti chiamano valleum addolcendo con un e il latino vallum, e posteriormente il none fu sempre più addolcito in valeum, valio, vaglio.
Dopo la breve dominazione del Gran Capitano Consalvo di Cordova e dei suoi discendenti Andria fu comprata nel 1552 dai Carafa e allora scomparve anche il palazzo quattrocentesco per dar luogo ad un altro più ampio e sontuoso che è giunto fino ai nostri giorni ma in molte parti rimaneggiato per adattarlo agli usi moderni.
Ecco come lo descrive un colto viaggiatore, l’abate Giambattista Pacichelli, che passando da Andria nel 1686 vi ebbe ospitalità: «Il Signor Giacomo Pacini [Segretario del Duca Ettore Carafa] mi fe’ vedere quel palazzo che è grande, in isola, di pietre proprie del paese con ampia sala e tre comodi quarti in piano, in uno dei quali allog-giato aveva il Signor Marchese de los Veles Vicerè, nel ritorno da Bari, scuderia di cinquanta bizzarri cavalli di quelle razze, un giardino di dove un corridoio coperto porta nel vescovado ... »
Di fianco al palazzo ducale verso mezzogiorno erano le carceri, le presenti case Fortunato e Parlati, e più avanti sorgeva il sedile dove si riunivano gli amministratori dell’Università, e la casa dove il governatore rendeva giustizia.
Verso ponente si inizia la via che è stata la principale di Andria fino al 1799 e che va a terminare alla Porta di S. Andrea. Era detta dell’orologio dalla torretta coll’orologio fatta elevare al tempo del Duca Francesco II del Balzo e rifatta nel 1754 dall’Università come appare dallo stemma cittadino in belli mattoni smaltati, che vi e incastrato.
Il nome, se non nella intitolazione ufficiale dove è stato sostituito da quello di Corrado IV di Svevia, si conserva nell’uso del popolo, che continua anche a chiamare larghe longhe (rues longues del francese e rugae longae del latino curialesco) alcune delle stradette a destra, serbando così memoria delle sistemazioni operate in questo punto della città nel Trecento. Quasi a mezzo della via si slargava la piazzetta, dove in un lato sorse nel 1398 per munificenza di Sveva Orsini vedova del Duca Francesco I del Balzo la chiesa e il convento di S. Domenico. Dirimpetto era la taverna maggiore, l’albergo dei viaggiatori modesti, giacchè per gli altri a pena di qualche conto si offriva larga ospitalità nel palazzo ducale o nei conventi, o presso le famiglie della nobiltà. Molte, i Colavecchia, i Tupputi, i Di Chio, aveano le loro case in questa strada, e nelle vicinanze i Marulli, i Curtopassi, i Rimedii, i Zagaria: costruzioni modeste ma di severa architettura che si rileva pur tra le ingiurie del tempo e degli adattamenti. Molte case, specialmente nelle vie laterali, hanno il bugnato di piccolo rilievo nel quale si aprono finestre semplicemente incorniciate da un listello che si prolunga dalla cornice del basamento su cui poggiano. Ai lati degli stipiti sporgono due mensole nei cui fori si introduceva l’asse che sosteneva il tavolato di difesa.
Un’altra via notevole, detta la plancata sin dal secolo XIII e poi e anche ora volgarmente la chiancata forse perchè fu la prima ad essere lastricata in pietre, menava dal palazzo ducale al convento di S. Agostino. Ai lati si vedono il palazzo De Excelsis (ora Orfanotrofio Concezione) e dirimpetto quello dei Guadagni e più giù erano le case de’ Tafuri, dei Giugni, dei Conoscitore. Innanzi al convento e alla chiesa di S. Agostino era la piazza detta così semplicemente senza altra specificazione. Ivi si teneva il mercato dei commestibili e un lato era occupato dalle beccherie che avevano alla spalle il cortile del macello, sul quale per concessione dell’Università gli Agostiniani vantavano il dritto di privativa.
La terza strada maestra portava dall’angolo dell’Episcopio a Fravina, ed era fiancheggiata fra l’altre dalle case dei De Anellis e dei Leccisi, mentre a poca distanza sorgevano quelle dei Tesorieri.
Dal centro, cioè dalla spianata dove si elevano la chiesa maggiore e il castello, queste tre vie raggiungevano l’altra che rasentava all’interno le mura e tra esse e le piccole piazze si svolgeva la rete delle minori vie strette e tortuose che formano la vecchia città, la cui pianta si conserva quasi immutata tuttora. Ma in esse le case non erano, come oggi, attaccate l’una all’altra, ma erano spesso intramezzate da giardini o da sem-plici cortili con qualche albero da frutta o di olivo.
Dopo questi rapidi cenni sulla topografia della città, destinati ad eccitare la curiosità più che soddisfarla, passo a riferire qualche notizia intorno alla popolazione. Non posso risalire al periodo delle origini per difetto di dati sicuri, nè finora risultano accertate da testimonianze coeve, le affermazioni dei nostri scrittori, che fanno ascen-dere a 20.000 nel 1104 e a 25.000 nel 1126 gli abitanti di Andria. Tale numero sarebbe stato già superato nel 1328, se potessi credere ad un documento prodotto nel 1778 dal Capitolo della Cattedrale in una delle fasi del secolare giudizio contro il Capitolo di S. Nicola. Le notizie certe, a mia conoscenza, cominciano da tempi relativamente recenti e sono fornite dai censimenti ordinati del Fisco per la ripartizione tra le varie città del regno della tassa dei «fuochi» istituita dal re Alfonso I d’Aragona.
Per Andria la prima numerazione che conosco è del 1532, nel qual anno il numero dei fuochi, cioè delle famiglie, ascese a 1154 e quello degli abitanti a 6924 computando sei individui per ogni famiglia. Non sembrerà esagerata questa media quando si tenga conto dell’interesse che avevano le Università, ad occultare una parte dei fuochi per essere meno gravate nella ripartizione delle imposte. Nel 1545 le cifre non variano, ma nel 1559 già si sale a 10.584 e nel 1561 a 13.146 abitanti, che diventano 17.352 nel 1595. La popolazione si mantenne costante in quello scorcio del secolo e fino alla metà del seguente trovandosi segnata la stessa cifra nella numerazione del 1648. Otto anni dopo nel flagello della peste Andria perdè più della metà degli abitanti, che si trovano ridotti a 8526 nella numerazione del 1665.
Per quasi un secolo mi mancano le notizie.
Trovo che nel 1761 la popolazione di Andria era calcolata a circa 8.000 abitanti,
a 11.000 nel 1751, a 13.000 nel 1773. Una statistica pià precisa, seguita dal 7763 al 1798,
si conserva nell’Archivio della Curia Vescovile e mi fu comunicata dal compianto Mons. Emmanuele Merra.
Vi rilevo che gli Andriesi da 10.935 che erano nel 1763 andarono gradatamente aumentando fino a raggiungere i 12.291 nel 1775. Nei due anni seguenti si ebbe una notevole diminuzione scendendo a 11.278; ma dal 1778 ricominciò l’aumento graduale e costante in modo che nel 1786 gli abitanti erano 13.327. L’anno seguente si ebbe una repentina diminuzione, e non saprei indicarne le cause, di più che mille abitanti, ma furono gradatamente sostituiti e ricominciò l’ascesa nel 1797 raggiunsero il numero di 16.097. Come l’anno seguente si riducessero a 11.914 colla diminuzione di più che duemila anime non so spiegarmi, e la diminuzione dovette ancora accentuarsi nel 1799 quando soltanto nel 23 marzo, per la presa e distruzione della città morirono 685 persone.
Ma col nuovo secolo ricominciò l’ascesa, diventando sempre più rapida di anno in anno,
e non ebbe più soste. La popolazione di Andria che fu accertata nella cifra di 12.928 abitanti
al 1803, salì a 16.200 nel 1815, a 18.478 nel 1830, a 21.461 nel 1840, a 24.311 nel 1851,
a 27.114 nel 1857, a 29.451 nel 1860, a 37.471 nel 1881 per raggiungere 50.434 nel 1901:
si è dunque durante il secolo quintuplicata.
Ha prodotto questo fenomeno un lungo periodo di prosperità economica che non si può qui studiare nelle sue peculiarità.
Mi basterà accennare tra le cause che diedero il primo e potente impulso, all’alba del secolo, l’abolizione della feudalità, la soppressione della «manomorta» e la conseguente vendita dei territorii già appartenenti ai monasteri, la censuazione del Tavoliere e la savia legislazione del regno Murattiano; e tra le cause che si aggiunsero nella seconda metà del secolo, dopo la felice ricostituzione dell’Italia a nazione, il completamento della vendita dei territori ecclesiastici e la trasformazione delle culture.
Ma questo ingente accrescersi della popolazione ha fatto aggiungere agli altri tormentosi problemi, legati dal vecchio al nuovo secolo, uno particolare per noi andriesi: il problema delle abitazioni.
Quando, considerando che l’area occupata dai fabbricati «dentro dalla cerchia antica» è di circa 20 ettari, e che quella occupata dai nuovi quartieri è appena di 50 — esclusa dall’una e dall’altra cifra l’area delle strade — e si riflette che mentre i fabbricati si sono triplicati la popolazione si è quintuplicata, si comprende importanza del problema e l’urgenza di risolverlo. E forse l’unico modo è di rifare all’inverso il cammino percorso al tempo normanno, ricostituendo le borgate rurali, che allora furono soppresse e riunite nella città fortificata.
Giuseppe Ceci
[testo tratto da "ANDRIA le sue VIE e i suoi MONUMENTI a volo d'uccello" di Nicolò Vaccina Lamàrtora, tip. F. Rossignoli, Andria, 1911, pag. V-XV]