di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)
Col morir di Federico sparve il magnanimo non compreso pensiero della unificazione degli Stati Italiani, e venne meno la idea della ricostruzione dell’Impero Romano. Tacque Roma e giubilò per quella morte sì provvidamente e opportunamente per essa avvenuta; ma pure senza timore non istette per la potenza ancor grande della Casa di Svevia. Che se la non ben ferma dominazione del lontano principe d’Hohenstauffen ancor minorenne, e l’esecrato governo del giovane Corrado detter luogo alle papali speranze di usurpazione del bel reame di Puglia, presto avvedevasi il Pontefice, che in Manfredi era ancor vivo il padre, e che maturi ancor non erano i tempi per recare ad atto quel sì lungamente ambito, e invan tentato conquisto.
Giustamente per le virtù sue pregiato, e sinceramente per la grazia della sua persona, per la leggiadria dei modi, per la gentilezza dell’animo era dai popoli amato Manfredi. E di lui elegantemente scriveva il Montrone [1].
«Biondo era e bello, e di gentile aspetto,
Com’ il canta l’altissimo Poeta,
Di cacce e d’armeggiar prendea diletto,
Di suoni e versi avea corte ognor lieta;
Ma sue leggi di là, ve in picciol letto
Strependo Aufìdo al mar d’Adria s’acqueta
Feano al di dentro i popoli felici
E spavento al di fuor l’arme a’ nemici.
Tal fu Manfredi, il qual render felice
Volea non che il suo regno, Italia tutta.
Perché spegner cercò nella radice
De’ Guelfi il seme, che l’avean ridutta
In si torbido stato ed infelice
Per la continua sanguinosa lutta
Contra i feroci dell’aquila artigli
Che serva ell’era omai dei propri figli.
Suonava il nome riverito e caro
Del figliuol del Secondo Federico;
Che il ciel non fugli de’ suoi doni avaro
Di quanti al padre ne concesse amico.
E simiglianti in tutto anco provaro
Destino in pria secondo, in fin nemico;
Destin che a lui vietò seguir l’ardita
Impresa di far sua l’Esperia unita».
Per lungo tempo tenne Manfredi corte bandita in Barletta, dove sì magnanimo e generoso principe mostrassi, dispensando feudi, armando cavalieri, perdonando ai colpevoli, premiando i buoni, facendo rispettar le leggi, e promuovendo le lettere, che in breve tempo, c senza sforzo conciliossi gli animi dei più schivi e permalosi Baroni pria avversi alla Casa di Svevia.
«Dalla Daunia Manfrcdi era tornato
Della bella Peucezia alle marine;
Poich’ebbe il fosco tempo ivi passato
Che cuopre il suol di nevi e di pruine,
Ora andando a falcon com’era usato
Coi suoi baroni, ed or cacciando; alfine
In Barletta il bel tempo si godea
Né men saggio a regnar quivi intendea.
Quivi il giovane Re corte bandita
Tenea di dame e cavalieri ornata,
E di giuochi e di cosa altra gradita
Allegrava ogni dì quella brigata:
Né la facea men nobile e gradita
L’eletta gente a festeggiar chiamata
Da circostanti luoghi, e ancor la molta
Che da longinque ville eravi accolta.»
E frequenti e magnifiche al dir dei cronisti, eran le feste, le cacce, e i conviti ch’egli allora teneva al Castello del Monte. Tra le quali feste giocondissima fu quella ch’ei diede in occasione delle seconde sue nozze con la bella Epirota, Elena degli Angeli, figliuola del Despota di Morea.
Le allegre cacce col falcone, le piacevoli cavalcate per gli ameni boschetti di quelle colline, la sontuosa magnificenza dei regali banchetti, la soavità dei canti dei menestrelli e novellieri, le splendide luminarie diradanti le notturne tenebre tal fecero di questo Castello e di questo monte lietissima dimora che per lungo correr di tempo ne durò nelle Puglie la rimembranza.
Né penso che vorrà riuscir poco grato a chi mi legge il trascriver ch’io qui faccio le ingenue parole di quel caro cronista che fu lo Spinello da Giovenazzo, narrando lo arrivo della bella Elena nel porto di Trani.
«A lo dì doi de lu mise de Junio de ipso anno MCCLIX arrivao in Apulia cu octo galere la zita de lu seniore Re Manfridu, fillia de lu despotu de Epiru, chiamata Alena: accompagnata da multi Baruni, et damicelle de lu nostru reami, e de quilli de lo soi patre, et sbarcao in lo portu de Trano, dovi l’aspectava lo seniore Re; lu quali, quando scisi la zita da la galera, l’abbrazzau forti, et la vasao. Dopo da l’appe conducta per tutta la nostra terra, fra l’acclamaziuni de tutta la genti, la menau a lu Castellu, dove ci fero grandi festi, e suoni; e la sera foro facte tanti alluminare, e tanti fanò in tutti li cantuni che paria che fossi die — Lu juorno appressu lo seniore Re creao multi cavalieri; tra li quali foro li nostri concittadini, Messeri Cola Pelaganu, e Fridericu Sifula, che avianu accompagnata la Reina in lu viaggiu. La dicta Reina è multo avvenente, et de bona manera, et è più bella de la prima mogliera de lu Re; et se dise, che non have più di 17 anni.»
Di molto benigna natura, di lieto carattere, e gioconda indole fu Re Manfredi; e di lui scrivea lo Spinello «Lo Re la notte esceva pe’ Barletta, cantando strambotti, et canzuni; che iva pigliando lo frisco; e con isso ivano dui musici Siciliani, che erano gran romanzaturi.» — Figlio, com’egli era, dello amore, allo amore avea l’animo proclive; e l’unica Canzone che di lui ci rimane c’è argomento della squisita delicatezza dei suoi amorosi sentimenti. Belle sono in quella canzone, fra le altre, quelle parole:
Il vero certamente credo dire
Che fra le donne voi siete sovrana
E d’ogni grazia, e di virtù compita;
Per cui morir d’amor mi saria vita.
Se lingua ciascun membro
Del corpo si facesse
Vostre bellezze non potria contare …
E con egual magnificenza in Barletta, e nel Castromonte Manfredi accoglieva l’amico Baldovino Imperator d’Oriente, dopo le feste, i torneamenti, e le luminarie coi quali onori avealo accolto precedentemente in Bari.
Ma tra le feste e le cene del Castello dcl Monte ecco una tremenda tempesta addensarsi sul capo del buon Manfredi. L’indomabile ambizione e l’odio antico del Pontefice per la casa di Svevia, dopo aver fatto mala pruova delle spirituali e temporali armi contro il figliuol di Federico, dopo avergli invano suscitati contro molti baroni del Regno, non rifugge dalla infamia di chiamar lo straniero in Italia.
E Carlo d’Angioja ha già passato con forte armata le Alpi; e Buoso da Doara gli ha, per tradimento, fatto libero il passo di Lombardia; e le disperse navi Pisane trovansi in mal punto da contrari venti rattenute in Ostia, ed Onorio ha, senza pudore, già coronato del regal diadema il principe Francese, ed ha messa nelle sue mani la funesta bandiera delle papali chiavi, acclamando quel barbaro campione della Chiesa Cristiana in pericolo.
Ma pur non si sconforta in tanta periclitanza di avversi casi il prode Manfredi; e radunati a parlamento nel Castello del Monte i suoi fedeli Baroni, e capi dell’oste Saracena, provvede con essi ai mezzi migliori per la difesa del reame. Il cronista Matteo Spinelli da Giovinnazzo narra di cotesto parlamento al nostro Castello — Ma il malguardato passo di Cepperano «dove mendace fu ogni Pugliese», e la turpe defezione del Conte di Caserta; e, più che ciò il voler del Fato che alla Sveva signoria avea segnato la fine, detter successo non prospero al valore e al senno di Manfredi, e l’odiato Francese entrò nel regno, e vinse a Benevento, e prostrò l’ultimo de’ Svevi che vi rimase ucciso, e insepolto.
Or bene, se dopo pochi anni dalla fatal battaglia di Benevento, tu volgi l’occhio della mente al Castel del Monte, una tremenda mutazione in esso avvenuta ti narreranno le storie dell’Ammirato, e del Capecelatro, e la monografia del Forges Davanzati.
Il magnifico palagio, l’elegante ostello delle cacce del gran Federico s’è tramutato in durissimo carcere, nel qual son rinchiusi i tre infelici figliuoli di Manfredi. E per tal modo, vedi istabilità della umana grandezza! Il luogo delle paterne e delle avite delizie s’è volto in prigione per questi miserandi avanzi della regia stirpe d’Hohenstauffen.
La bella regina loro madre, Elena degli Angeli, con la figlia Beatrice, fuggitive da Lucera, poscia imprigionate per tradimento di malvagi frati nel Castello di Trani, ed indi tramutate nella rocca di Nocera, furono per ultimo tratte nel durissimo carcere di S. Salvatore, che or si domanda Castello dell’Ovo — E quando, per opera della vittoria navale del gran Lauria, fu coi prigioni Francesi scambiata la giovano Beatrice, che andò moglie al Marchese di Saluzzo, sola rimase nel carcere la inconsolabile madre in compagnia della figlia di Giordano Lancia; e di dolore più che di infermità o di patimenti miseramente nel carcere finiva la vita.
I tre giovanetti poi Errico, Azzolino, e Federico furono tolti, eccesso di barbarie! alla madre nel castello di Nocera, e furon trasportati nel Castello del Monte; dove già si trovavan prigioni Corrado di Caserta, la contessa Manfredina, ed Errico di Castiglia, sotto la custodia del francese Gherardo di Samminiaco. Senonché mentre a quegli altri prigioni avea Cario assegnato pel giornaliero alimento tre tarì d’oro, cioè grani 54, ai figli di Manfrcdi non no dava che un solo, cioè grani 18; e per l’annuo vestimento dei tre non oltre a 12 ducati avea concesso.
Familiari e servi non aveano, e da sé stessi provveder doveano alle più umili necessità della vita. Né liberi, siccome i loro compagni di cattività, andar poteano per lo castello, avendo le mani e i piedi gravati da pesanti ceppi. Infermatisi i più giovani Federico ed Azzolino, furono passati nel castello di Canosa ed ivi morti, furon sepolti, in ignobile luogo della Chiesa di S. Sabino. Più assai di essi sventurato rimase Errico per molti anni ancora in Castromonte, e non prima del suo quarantesimosesto anno, di dolori, di patimenti, e quasi di fame veniva per ultimo a morire nel Castelnuovo a tempi di Re Roberto.
Oh quanto diverso aspetto assunse il Castello del Monte sotto la novella odiosissima dominazione di Casa Angioina! Cacciati i falconi e i levrieri, tolti i ricchi arnesi e le eleganti suppellettili, non più visti i nobili baroni e i lieti romanzatori, non più canti di amore e storie di cavalleria. Ma invece stridor di ceppi e ferrei fermagli, lamenti di prigionieri, grida di scolte, rauco comando di inumano custode, turpi bestemmie di briachi soldati — nuova lingua — nuova fede — la solitudine del carcere! Oh chi avrebbe potuto mai prevederlo del nobilissimo palagio del gran Federico!
Ma pur di tante sciagure, e della rovina di casa Sveva vantaggio non trasse il Pontefice; ché alle promesse venne meno il Provenzale, né alla Romana sede fu più ossequiente dei suoi predecessori. Ed intorno a ciò il Ghibellino marchese di Montrone andava cantando:
«Pur mentre ei (Manfredi) visse, a’ cenni ubbidiente
Ebbe Toscana tutta e Lombardia;
Ché a quei del Ghibellin sangue valente
Cittadi e rocche avea poste in balia.
Perché volesti, o buon pastor Clemente,
Piantare in questo suol nuova genia
Che non fosse dell’altra a Santa Chiesa
Men sconoscente, e le arrecasse offesa?»
[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 43-51]
NOTE
[1]
De Bianchi Dottula, Giordano, marchese del feudo di Montrone (Montrone [dal 1929 Adelfia], 31 gennaio 1775 – Napoli, 19 febbraio 1846);
queste rime sono tratte dal suo poemetto "Manfredi Re".