di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)
Per più che mezzo secolo non troviamo nella storia del regno memoria alcuna del Castello del Monte; e dobbiam però correre con la mente fino al 1383, quando esso addivenne nuovamente teatro di barbara invasione. Ma sarà pregio dell’opera (e penso che chi mi legge non vorrà notarmelo per male) il riempire cotesta storica lacuna con la narrazione compendiata de’ fatti e delle mutazioni che avvennero nel regno ne’ cinquantatré anni della dominazione Durazzesca. Così non interromperemo la continuità dei tempi, e la storia terrà bordone al nostro studiato edifizio.
Dico dunque che a Carlo di Durazzo, il quale per quattro anni solamente occupò il trono di Napoli, perocché fu presto chiamato ad assumer la corona di Ungheria, succedé il figlio Ladislao, sotto la reggenza della madre Margherita, nel tempo medesimo che Papa Clemente in Avignone riconosce e proclama il piccolo Luigi d’Angiò sotto il baliato della madre Maria. Vengono in Italia i Provenzali col giovin pretendente, e gridano «Viva Luigi, e viva Papa Clemente;» mentre in Napoli si grida «Viva Ladislao, e viva Papa Urbano» — Due bambini, e due vedove si disputano il trono di Napoli, mentre due vegliardi e due concistori di Cardinali contendono per lo trono ponteficale — Dura dicci anni la contesa dei primi; non meno di trenta dura la seconda; e quando il Costanziense Concilio ebbe a definire il turpissimo scisma della Chiesa di Cristo, non più due, ma quattro pontefici si contrastavano la tiara.
Con varia fortuna por undici anni pugnossi nel regno tra Durazzo ed Angioja; più volte stette in sospeso l’evento successo dell’accanita tenzone; e qual delle due madri, e dci due pontefici avesse dovuto esultare non ben si vedeva; ma poi si volsero siffattamente a male le cose di Luigi, che per dar fine alle sciagurate discordie dei popoli, questi 1asciara decisamente il campo al suo emulo, e con la madre sua ritornava in Provenza.
Egregio guerriero per generoso ardimento, e per militare solerzia fu Re Ladislao. Per quattro volte recò in Roma le vittoriose sue armi, e i pertinaci Pontefici fugandone, andossene a por suo seggio nell’aula stessa del Campidoglio. Corse in Dalmazia, ed occupò Zara che poscia vendette ai Veneziani, e tentò non senza gloria, la impresa d’Ungheria. Sconfisse indi a poco in regolare battaglia i primi capitani de’ suoi tempi Braccio da Montone, Sforza da Cotignola, e Paolo Orsino. Ed a più alto scopo mirando, strenuamente e prosperamente procedette alla conquista della Toscana, per farsene indi scala alla intera dominazione Italiana. Ma l’oro dei mercatanti Fiorentini avvelenò in Perugia le sozze sorgenti degli afrodisiaci piaceri del giovin Principe, il quale immaturamente uscendo di vita, rimase il trono alla sorella Giovanna già vedova del Duca d’Austria.
Avaro di moneta, e prodigo di Stati per cavarne moneta; alle muliebri voluttà, oltre ogni termine di lascivia corrivo; tirannicamente prepotente, e ferocemente vendicativo; fallace promettitore, e non sincero amico, le arti benefiche della pace ebbe Ladislao in non cale, posponendole sempre alla inconsulta rovinosa gloria delle guerriere conquiste. Fu poco compianto il suo fato, e molto meno rimpianto il suo governo dai popoli, i quali per la troppo nota somiglianza della mala natura della sorella, migliori speranze nella nuova regina non seppero collocare.
La quale, tra le invereconde predilezioni per Pandolfello Alopo, Sergianni Caracciolo, ed altri molti, i quali nella vedovanza, e durante le malaugurate nozze con Jacopo Della Marca, ebber di lei dominio; e tra la costante inconstanza nelle elezioni e ne’ repudi del suo erede, per più che venti anni a tristissimo ignominioso governo soggettò il popolo napolitano; viva ed ardente rimanendo alla sua morte la contesa tra l’adottato Alfonso d’Aragona, e l’erede Renato, fratello del terzo Luigi d’Angioja.
Fato crudele dell’infelice nostro paese, che, in sessanta anni della Normanna dominazione, n’ebbe sol dodici di guai sotto Guglielmo il Malo. Nei sessanta anni della dinastia Sveva, di quattro soli tra Corrado ed Errico ebbe a dolersi. Nei centosedici di Casa Angioina, sol per venti anni patì il dispotismo del primo Carlo. Ma ebbe poi più che mezzo secolo di luttuose miserie sotto l’iniquo reggimento dei Durazzeschi. E tal fu nei più turpi vizi corrotta 1a gemina prole del terzo Carlo, che assai più della tremenda pestilenza, che funestò il regno della Giovanna, riuscì dannosa ai popoli soggetti alla loro dominazione!
Di alto animo e generosa indole, di cuor giusto e benevolo, nelle arti della guerra esperti, ma di quelle della pace oltre la necessità studiosi, furon pregiati ed amati dai buoni i tre Luigi d’Angioja; né possiam dubitare, che se lo scettro fosse pervenuto nelle loro mani, a migliori condizioni di civiltà essi avrebbero condotto il reame. Ma stava lor contro il Fato; epperò dovettero sempre levarsi con infausto successo dal campo.
Le ragioni di Alfonso stavano tutte nella chiamata e nella adozione della Regina Giovanna; dicevasi forte in suo dritto Luigi, per legittimità di ragione ereditaria. Potente in armi era il primo, e soccorso da numerosi partigiani; i Genovesi e il Pontefice aiutavano il secondo, e Napoli serbavasi a lui fedele, e tra le sue mura accoglieva e custodiva, la virtuosa sua moglie Isabella, che avea nominata Vicaria.
Or vedasi uniformità di casi singolare fra i due contendenti alla corona di Napoli! La flotta di Re Alfonso viene a mala pruova con le galere Genovesi, nelle acque di Ponza, ed è al tutto sbaragliata; ed Alfonso cade nelle mani dei nemici, che il traggono prigione a Filippo Visconte di Milano. E nel tempo medesimo Luigi d’Angiò, venuto a giornata col Duca di Borgogna, vi riman succumbente, ed è menato prigioniero nella Corte di quel Principe. Senonché Filippo Visconti, invaghitosi delle belle virtù dell’animo di Alfonso, gli concede la libertà, gli diventa amico, gli si offre alleato, e lo rimanda nel regno a compierne la conquista. Non così dell’infelice Luigi il qual lungamente rimane in dura cattività presso il Borgognone; né senza grosso riscatto di 200000 doble d’oro esce dalle perfide e avare mani del suo nemico. Quell’indugio decide della sua sorte nel regno.
Or l’animoso contendere dei due Principi di Aragona e d’Angioja, pe’ quali erasi aperto nel regno un turpe e rovinoso parteggiar di popoli e di signori, trovò un terzo competitore nel superbo patrizio Veneziano Michele Condulmerio, che fu Papa Eugenio IV. Il quale facendo le mostre di protegger la causa di Renato, ma veramente per conto della smodata sua ambizione, mandò alla conquista del Reame dodicimila soldati sotto il comando del famoso Giovanni Vitellesco Patriarca di Alessandria.
Nato in molto umile condizion di fortuna da una mala femmina di Corneto, fu il Vitellesco educato fin da’ primi anni al mestiere delle armi; nel quale per una singolar forza di membra, per uno straordinario ardimento, e per uno spregio costante d’ogni principio di fede, in assai breve tempo procacciossi nome di valente capitano. Dal porre le mani ad operare il male, ancorché fosse in danno d’amici, purché lucro a lui ne venisse, giammai seppe astenersi — l’uccidere, il rubare, lo stuprare, l’incendiare eran le ordinarie occupazioni della infame sua vita — scrupoli, rimorsi, pentimenti, non mai conobbe — fu tale infine quale in que’ tempi si volea che fosse un Capitano di Ventura, un condottiere di venali lanze a soldo d’un potente, uno strumento di stragi nelle mani d’un vendicativo signore. Fu temuto in famiglia e nel villaggio, epperò glien venne credito in città; le enormezze della guerresca sua vita meritarongli il nome di invitto in vari paesi della Romagna, e gli conciliarono in Roma quello di invincibile. E per tal modo ei venne in fama non minore del Braccio, del Cotignola, dello Sforza, e del Caldora; e così piacque al Papa Martino che il fece suo protonotario, e nominollo Patriarca Alessandrino. Egregio Patriarca veramente voll’esser costui, armato d’elmo e corazza, di stocco e pugnale, che avea per chiesa un campo, per croce una mazza ferrata, cantava gli uffizi, bestemmiando Cristo o sua madre, ed esercitava la castità per impotenza del vizio!
Venne egli la prima volta nel regno sotto il comando del Tartaglia da Lavello, e mirabili pruove vi fece sì di sterminata audacia, e sì di ferocia d’animo spaventevole; ché di sua mano appiccò alle forche il valoroso condottiero Antonio da Pontedera, nemico del Papa e non della Chiesa, e pria che morisse, lo fè bruciar vivo, e ne mandò le ceneri al Pontefice, Supremo Pastore, Vicario di Cristo, sommo Gerarca, che ne lo avea comandato.
Quando poi il Tartaglia fu ucciso in Aversa, ritornò il Vitellesco al novo Pontefice, il qual se ne avvalse per cavar danari dai ricchi signori di Casa Colonna suoi nemici. Ma quando ebbe annunzio della morte della Regina Giovanna, subentrò nell’animo del Pontefice la brama della conquista del reame; e prescelse a tant’opra il Vitellesco, promettendogli il cappello di cardinale alla prima vittoria che gli avrebbe annunziata.
Or che ti ho detto chi era Papa Eugenio e il suo Patriarca Alessandrino, ritorniamo alla disputa che accanita ferveva tra Alfonso e Renato.
Non in Napoli solamente, né in una sola provincia, ma per tutto il regno questa volta si combatteva; avvegnaché poco o nulla per le opposte ragioni dei pugnanti sovrani; ma per proprio stato conservare, o per invader quello del suo nemico, ogni barone erasi armato; sicché quella guerra era per essi mezzo e non scopo, occasione e non fine. Negli Abruzzi, nelle Calabrie, nelle Puglie, nei Principati, in Terra di Lavoro, nella Basilicata, con egual furore, e nel tempo medesimo, si combatteva; né mancavan, come dissi, ragioni alla pugna; ché la cupidigia, l’ambizione e la vendetta tante ne offerivano quanti erano i possessori di stati, i proprietari di fondi.
Combattevano per la causa di Renato, oltre a molti Baroni, Jacopo Caldora e i suoi figli, Michele da Cutignola, ed altri valenti capitani. Per Alfonso pugnavano il Conte Giovanni da Ventimiglia, il Principe di Taranto, il Duca di Sessa, e il Conte di Nola. — Tutti gli altri Baroni del regno negli opposti campi, coi loro vassalli ed armigeri, eran passati — Men che per assedî delle murate terre, procedevasi per repentini assalti — L’ingresso e l’uscita di queste si succedevano spesso nella medesima giornata — Il saccheggio pareva veramente l’unico scopo di quella sciagurata guerra che non era abbastanza omicida per esser breve, né tanto breve da rimaner qualche sostanza ai derubati popoli.
Le Puglie più che le altre provincie del regno furon funestate ed oppresse in questa occasione, sia perché più ricche, e più capaci di fornir viveri ai soldati, e sia perché i più grandi baroni vi tenevano stato. Ed ecco perché il Patriarca, dopo aver rotto e fatto prigione a Montefusco il Principe di Taranto [Giovanni Antonio Orsino, nel 1437], ed aver messo a sacco, per suo proprio conto, Isernia, Venafro, Montesarchio, e Piedimonte, se ne venne coi suoi 12000 banditi papalini nella Terra di Bari, dove dimandò ed ottenne che fossegli dato nelle mani il Castello di Trani — Ma dopo essere dimorato alquanti mesi in quelle grasse terre, ed avervi commesso immanità senza fine, corse al sacco di Presenzano; fu indi a Giugliano col Caldora, dove mancò per poco che Re Alfonso non cadesse nelle sue mani, e dove giunsegli da Roma il ben meritato cappello di cardinale. Le quali cose avendo compiute ritornò speditamente a Trani, che allor trovavasi per mare e per terra assediala da Messer Pietro Palagano; ma avendovi fatta mala pruova, se ne andò a campo ad Andria, magnificamente accoltovi dal Duca del Balzo, e dal Principe di Taranto Orsino, ch’era della stessa Casa.
Quel che di orribile facessero nelle Puglie quei malvagi soldati delle Sante Chiavi, supera ogni credenza; dà quasi nell’impossibile — Molfetta e Giovenazzo furono prima saccheggiate, e poscia date alle fiamme; e il Vitellesco prometteva, celiando, cento giorni d’indulgenza per ogni albero di olivo reciso, cinquanta per ogni donzella stuprata! Né diversamente operò a Ruvo, a Bisceglia, ed a Terlizzi.
In Andria poi, più che in qualunque altra città del Barese, ferveva e debaccava la licenza militare; non essendoci donna, per onesta e di buon linguaggio che fosse, la qual per seduzione, o per violenza, per inganno, o per forza, sfuggir potesse alla libidine del pontificio soldato.
Tristissima condizion di tempi, ne’ quali sia che Aragona trionfasse, od Angioja vincesse, sia che Renato, o che Alfonso si gridasse, sia che Caldora, sia che Vitellesco predominasse, la gioia della vittoria aveva mestieri e quasi necessità del saccheggio delle case, dell’incendio dei villaggi, e delle lagrime delle donne manomesse.
Giorno non c’era nel quale il Vescovo d’Andria ed il Principe di Taranto non pregassero e scongiurassero il Cardinale a por freno alle violenze dei suoi soldati. Sorrideva di pietà il ladrone; o «Come s’ha a fare la guerra» rispondeva «se ai soldati impor si dovesse il voto di castità?»
«Ma non sono ancor decorsi due secoli» il principe replicava «che i popoli d’oltrefaro, che in pace avean tollerato tutti i peccati dei soldati di Francia, quello solamente tollerar non seppero, e non vollero della incontinenza; e quel che essi fecero ignorar non può un cardinale di quella Chiesa, la quale più che escusare la insurrezione, l’avea prima fomentata, e poscia benedetta.» «Baje, baje son coteste, messer lo principe» soggiungeva il cardinale «baje, che non persuadono il soldato; ché è sua natura il goder del presente, senza tener conto del passato, e senza darsi pensiero dell’avvenire». Una deputazione dei principali cittadini andò a trovare il cardinale che allor se ne stava ne’ beati ozi del Castello del Monte, sacrificando a Venere e a Bacco, e benedicendo Alfonso e Renato; scongiurandolo a torre il campo da Andria, dove cominciava a patirsi gran difetto di vettovaglia. Ma egli non li volle udire, perocché l’aria di Andria molto giovava, come disse, alla sanità dei suoi soldati, ed egli non rammentavasi di aver mai tanto goduto di buona salute, e di aversi mai dato sì bel tempo come ora nel Castello del Monte.
Riuscite vane le suppliche, e vane tornate le minacce, diessi il popolo a provvedere coi fatti alla propria salute; e poiché le sue forze non erano all’uopo sufficienti, ebbe ricorso allo inganno e alla congiura. Il principe di Taranto Orsino Del Balzo, e il Duca d’Andria Francesco Del Balzo tenevan segretamente per Alfonso, ma pur buon viso facevano al Vitellesco, attendendo i loro soldati che per mare e per terra giunger doveano in Trani e in Andria. Or bene; stanco l’Orsino della invereconda tracotanza del cardinale, in sospetto del quale accorgevasi d’esser già caduto, e volendo liberare Andria dal terribile flagello che la travagliava, gli venne in mente di recare ad atto la minaccia, che involontariamente gli era fuggita dal labbro, parlando al Vitellesco. Dal pensarlo all’eseguirlo fu breve il tratto; ché, addettatosene coi principali della terra, e trovatili risoluti del tutto a togliersi dal collo il grave e ignominioso giogo di quelli infami che pur vantavansi campioni di Santa Chiesa, per tre giorni meditarono, e prepararon l’armi, e gli agguati, dando però buone parole, e facendo anzi festa ai nemici.
Correva la più bella state che fosse mai; una brezza soave, che appena agitava le foglie degli olivi, veniva dalla marina sponda fragrante di odori, e fresca di vita a ricreare gli abitatori del Castello del Monte; e la luna ch’era al suo colmo tutta irraggiava l’amena olezzante contrada ch’era a’ piè della collina. A lieta mensa nella oriental sala del Castello sedeva il Cardinale, e tra la gioja dei bicchieri colmi del buon vino di Barletta, e la sbrigliata licenza delle militari canzoni de’ suoi compagni, godeva a suo modo di quella giocondissima notte della state. Un lume intanto apparisce sulla linea del mare che par che venga dalla face di un pescatore; ma cresce in breve quel lume, e si fa più vivo, anzi ecco divampasi, che sembra incendio. «Oh che è mai quel fuoco» dimanda il cardinale ai suoi commensali. «Son le fiamme del funerale di Bisceglia, Eminentissimo» risponde sbocconcellando un capitano «non le sovviene che non ha guari Ella dette ai Biscegliesi l’assoluzione in articulo mortis?» «Hai ben ragione» replicava il Vitellesco, «ma e che vuoi dir mai quell’altro falò sulle mura di Andria?» «Son fuochi di gioja, Eminenza, oh non sa Ella che ritornammo testé in concordia coi buoni nostri Andriani?» «Non vorrei che que’ fuochi» mormorò con sorriso svenevole il Cornetano «parlassero un linguaggio ostile alla giocondità dei miei banchetti.» «Son baje, son baje coteste, Messer lo cardinale (venne su gridando il principe di Taranto, che gli sedea di lato) Ella dee riderne, siccome or fa; la natura del soldato gode del presente, senza tener conto del passato, o darsi pensiero dell’avvenire».
In questa ecco uno scampanare a rintocchi che vien di giuso rotto da mille grida e clamori, e mille e mille lumi apparire e disparire fra le tenebre degli oliveti. «Siamo ai Vespri, Eminentissimo, non ne ode le campane», gli dice l’Orsino «mandi pel piviale e la stola che i suoi canonici l’attendono in Chiesa». E sì dicendo esce dalla sala e dal Castello, monta in arcioni, e corre ad Andria per governare a buon fine quel santo moto popolare.
«Dàlli dàlli, ché è di que’ del Santo Padre — dàlli ché lo mandi in Paradiso con le indulgenze e l’assoluzione del cardinale — dàlli dàIli ché S. Riccardo lo attende alle porte» — ecco le voci di dileggio, che accompagnavano dentro Andria e fuori i bei colpi di labardoni e mazze ferrate, di pertiche, di spiedi e di forche che gli arrabbiati Andriani assestavano a que’ cani rognosi de’ soldati del Papa. Il Vitellesco accorso in città mezzo briaco, avea un bel gridare ai suoi, tenessero fermo, ed attendessero il giorno, apportator di vendetta. Ma venne il giorno, e quei furibondi popolani non restavan dal trarre, e non facevan fine alle stragi — Venne il giorno, e mostrò al cardinale di che sapesse lo sdegno represso dei popoli lungamente travagliati da feroci e stolidi tiranni. E quando poi la colma luna ritornò ad irraggiare l’agitata contrada, e i vespertini zeffiri rifecero l’aere olezzante de’ fiori, una orrenda vista sbalordì quel ladron porporato; ché se trecento Andriani furono uccisi in quelle ventiquattr’ore di stragi, non meno di mille dugento ne morirono de’ pontifici, ed il resto andò in fuga verso le marine coste.
Laonde perduta troppo facilmente (perché contavansi non men di 10000 soldati nell’oste Romana) la speranza di tener campo nelle Puglie, andossene il Patriarca travestito da pastore in Bisceglia a trovar Lorenzo di Cotignola, cui diè il comando delle sue genti, e di là imbarcatosi, recossi per Venezia a trovare il Papa a Ferrara. Ma caduto indi a poco nella costui disgrazia, fu per fraude attirato dentro Castel S. Angelo, dove rimase lungamente imprigionato rimpiangendo il Castello del Monte.
Furon questi i famosi Vespri Andreani; pe’ quali, e per la invereconda defezione del Caldora, e per quel subito volgersi dei popoli alla parte protetta dalla vittoria, uscì il buon Renato dal regno, lasciando libero il campo al suo rivale di Aragona; il qual saggiamente usando della vittoria fu clemente e magnanimo e provvido e sapiente governo fè del popolo Napolitano. [1]
[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 81-95]
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