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Acquaforte di Castel del Monte del 1860 circa

Il Castello del Monte
in Terra di Bari

Studi e pensieri

di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)


XII.
Federico d’Aragona a Castromonte

Bene aveva preveduto l’accorto Ferrante come in grave pericolo versasse la dominazione Aragonese nel regno di Napoli; giustamente temendo l’avventata natura del giovin Carlo di Francia, e troppo non fidando nella ipocrita benevolenza dei suoi congiunti di Spagna, Ferdinando ed Isabella. — Domati egli aveva i baroni Napoletani, parte già spenti per mano del carnefice, parte aggraziati e sommessi, e parte usciti volontariamente del regno. Ma pur non ignorava, sorger dal sangue dei martiri la spada o il pugnale della vendetta; non ignorava dubbiosa e precaria esser la fede dei nuovi amici tratti da necessità a sommessione; possente ed inefficace riuscir sempre il consiglio degli esuli nell’orecchio de’ principi forestieri, guerrieri e ambiziosi: e ben presto si vide quanta buona ragione egli avesse a dubitare e temere.

Ludovico il Moro, avendo usurpata la signoria di Milano in danno del nipote Giangaleazzo, marito di una nipote di Re Ferrante, e volendo fortificarsi nella usurpata dominazione e premunirsi dalle costui minacce, diessi a suscitar l’ambizione e fomentar le pretensioni di Carlo X di Francia, chiamandolo a1 riconquisto del reame di Napoli; e promettendogli col suo concorso gli ajuti dei principi e delle Repubbliche Italiane, a Re Ferrante grandemente più che avverse nemiche. E quell’audacissimo giovine, che di stimoli non avea mestieri; tanto rodevagli l’animo la brama ambiziosa di percorrer col suo esercito l’Italia per andarsene al possesso di Napoli, passò ben presto con oste poderosa le Alpi, e pose piede sulle terre Italiane. Stettersi neutrali i Veneziani, che a troppo rischioso giuoco commetter non volevano le sorti della loro repubblica. — Scosso il mediceo giogo, si accostarono a Carlo i Fiorentini, e sovvennerlo, forzati, di lor danaro; dandogli ben anche per opera di Piero Capponi, solenne, e benefica lezione di militare e civil temperanza. — Fra due acque navigar volle Papa Alessandro, che di Carlo avea giusta paura, né dell’Aragonese star poteva senza sospetto.

Morto frattanto il perfido Ferrante, eragli succeduto sul trono, di lui più perfido, il figliuolo Alfonso; il quale, per premunirsi contro la imminente invasione del Francese, che sulle Genovesi galee, col grosso della sua armata, se ne veniva in Toscana, mandogli incontro con forte naviglio il fratel suo Federico in compagnia del Pescara, e del Trivulzio. E posciaché mala pruova ebber fatto costoro contro le armi Francesi nelle acque di Porto Venere; e Carlo, occupata Roma, frettolosamente avviavasi verso Napoli, ei che sapeva a sé nemici, al Francese principe, o meglio alle novità forestiere stoltamente inchinevoli i popoli, rinunziò non senza manifestarne altissimo cruccio, alla corona in favor del figliuolo Ferdinando, raccomandandolo al baliaggio e protezione del suo bravo zio Federico.

Ben voleva, ma certissimamente non poteva Federico avvisare a difendere il regno, che in breve tempo fu tutto occupato dai Francesi. Epperò, cedendo allo imperio della fortuna a Carlo propizia, ed aspettando tempi men rei, lasciò Napoli, ed andossene a stanza col nipote e con tutta sua Corte, nell’Isola d’Ischia. —

Senonché mal non si appose Federico, sperando salute dalla intemperanza del vincitore, e dalla sfrenata licenza dei suoi soldati, che funestarono Napoli di strazi senza fine e ragionevol timore infusero nell’animo di ogni principe, e d’ogni popolo Italiano di que’ mali della cui soma eran più che gravati, oppressi i napoletani. — Furono nella città nostra saccheggiate la più parte delle case dei ricchi, e i magazzini dei mercatanti; derubati ed espulsi gli Ebrei; furon dispogliate le Chiese de’ sacri arredi; furon violati e fedati i chiostri delle monache; oltraggiate violentemente le più distinte dame, e le più caste donzelle; le ferite, le uccisioni, senza causa, e per solo diletto di ferina indole, gli incendi senza ragione, a solo scopo di nuocere ed atterrire. Un flagello maggior di questo non era a memoria d’uomo nella miseranda città.

Eppure fin da quel tempo vantavansi i Francesi della loro civiltà, superbivano della loro lealtà e generosità cavalleresca, menavano orgoglio del loro rispetto alle donne; e la umanità e la galanteria del loro popolo mettevan sopra a quelle d’ogni altro popolo dell’Europa!

Buoni frutti portarono, siccome avevalo già preveduto il saggio Federico, quelle turpitudini, e quelle immanità dei soldati di Carlo; perocché la indignazione, lo spavento, la rabbia, e lo stupore dei popoli e dei principi Italiani trovarono eco in Germania e in tutta la Cristianità, e perfino nel Turco. Da quel momento la causa di Carlo fu giudicata e condannata. La nobiltà della conquista convertissi in ladronaja da bandito; la generosa brama di gloria si volse in efferata cupidigia di impero, e l’arditezza del valor militare tramutossi in tracotante ferocia da barbaro. E, come da Brenno ad Attila, e da questi al primo Sovrano Angioino, la intemperanza francese ebbe sconfitta e punizione nel punto medesimo che stava raccogliendo il frutto della più completa e splendida vittoria.

Infatti Papa Alessandro, Massimiliano di Germania, Ferdinando di Spagna, la Veneta e la Fiorentina repubblica, e Ludovico Sforza, tardi pentiti d’aver chiamato i forestieri in Italia, si collegaron tutti a danno di Carlo, coscrissero eserciti, assoldarono capitani; e nella santa loro federazione non dubitarono di ammetter benanche il Turco Bajazet, che mandò sue navi, sulle coste dell’Adriatico.

Videro il nembo i capitani di Carlo, e le feste sospesero; il tuono udirono e contro il fulmine di premunirsi tentarono. A non precludersi il ritorno alle Alpi, lasciarono nel regno il Beaucaire, il Vitri, il Montpensier, ed il D’Aubigni; e più che di passo avviaronsi a combattere nell’alta Italia lo esercito degli alleati. Di Novara non senza gravi perdite, si fecero padroni; ma tentarono invano la espugnazione di Milano; e presso Parma, nelle Valli Pontremolesi, soffriron tale strage di soldati, che a mala pena le reliquie del già fiorente esercito, potettero, per obbrobriosa pace, agli alleati richiesta, riprender fuggendo la strada di Francia.

Tal fu la fine di quella sterminata e precipitosa spedizion militare, dalla quale il baldanzoso Sovrano francese promettevasi la conquista della intera Italia, per indi andarsene, come diceva, alla impresa della cacciata in Asia dei Musulmani. Fu torrente impetuoso di lungo corso di gravi danni; ma di corta durata.

La partenza dei Francesi ebbe ben presto rincuorati i Napolitani, che e cacciarono a furia dalle loro mura il Montpensier, e richiamaron da Ischia, ove erasi rimasto ad attender gli eventi della guerra, la Corte de’ loro Sovrani. — E poiché le Calabrie e le Puglie erano ancora in mano dei Francesi, richiese Federico ed ottenne da Ferdinando di Spagna, che mandasse al nipote validi soccorsi di soldati sotto il comando del gran Capitano Gonsalvo da Cordova. Furono allora coscritti buoni soldati, fecesi lega col Pontefice e co’ Veneziani, e furon condotti a grosso stipendio Prospero e Fabrizio Colonna, il marchese Gonzaga, ed altri valenti capitani.

Moriva in questa il giovane Ferdinando, e gli succedeva lo zio Federico, giustamente per le virtù del suo animo pregiato ed amato dal popolo. Imperocché la giustizia, la umanità, la temperanza eran suoi pregi singolari; l’amor delle scienze, delle lettere, e delle arti gli avean fatto gentili e graziosi i costumi; e le dure lezioni delle avversità di sua casa esperto e cauto lo avean renduto ne’ fortunosi eventi della vita dei popoli, delle smodate esigenze delle loro passioni, della necessità di far paghi i loro richiami fondati sul diritto.

E che bene le comuni speranze fossero in lui collocate, presto si vide. La pace e l’abbondanza ritornarono in Napoli. Il regio tesoro versò quanto possedeva in sollievo dei danneggiati dalla guerra. Furon chiamati agli uffizi i migliori cittadini.

Furon munite a difesa le terre della Campania e dei Principati; e da molti paesi della Calabria furono, ad onta della loro vittoria di Seminara, cacciali i Francesi. — Datosi poscia a purgar le Puglie da que’ terribili occupatori, ne venne a capo coi soccorsi dei Molfettesi, e degli Andriani. — E comeché lo amor di quei popoli pel loro carissimo Principe andava ordinando in onor suo magnifiche feste, fece egli venir di Napoli con splendido corteo la Reina Isabella, e la ebbe compagna nelle feste di Andria, di Barletta, e di Canosa. Passò quindi tutta la corte a prender stanza in Castel del Monte, il quale Castello ben può farsi ragione quanto lietamente rivedesse Isabella Del Balzo, che dopo quattro anni ritornava onorata regina in quel luogo, donde era partita miseranda progenie di stirpe proscritta.

Ed ivi, mentre Federico andavasene per lo regno a ricevere in soggezione le terre da’ Francesi occupate, e quelle per opera degli infidi baroni contro il suo governo insorte, alla regina accorsero ad omaggio di devozione, i più distinti signori del Barese; e nelle cronache Molfettesi serbasi memoria di quattro nobili cittadini, delegati da quella Università a complir la sovrana a Castromonte, invitandola ad onorar di sua presenza la festeggiante loro patria.

Due strani ospiti vennero in quel tempo e fecero breve dimora in Castel del Monte, il duca Valentino Cesare Borgia e la sorella sua Lucrezia; inviato il primo da Alessandro VI suo padre qual Cardinale a latere, per incoronare, e dar l’investitura del reame a Federico; venuta la seconda in nome del duca di Bisceglia suo marito a fare omaggio baronale alla sua sovrana. —

Al Cardinal Vitellesco che fu già ospite di quel sublime palagio, molto bene, per la malvagia sua indole, e pe’ suoi rotti costumi, somigliava il Cardinal Cesare Borgia; ma riscontro non trovò fra la gentile e virtuosa Lucrezia d’Alagni, che avea giocondato quel luogo di sua cara presenza con la inverecondamente incestuosa, e ferocemente omicida Lucrezia Borgia.

Pochi mesi trascorreranno, ed il povero duca di Bisceglia, chiamato a Roma dal Pontefice, suo suocero, cadrà pugnalato per mano dei sicari del cognato, Cardinal di S.ª Chiesa, geloso del marito di sua sorella Lucrezia! Pochi altri mesi trascorreranno, e costei, non inconscia, anzi ordinatrice di quella morte, volerà alle terze nozze dello Estense duca di Ferrara, senza però cessare dalle domestiche turpitudini. — Quanto sangue, quante vendette, quanti delitti erano allor presenti in Castel del Monte nella mente e nel cuore della gemina prole del Vicario di Cristo! —

Le feste alle feste succedevano nel regal Castello, allo annunzio d’ogni novella vittoria di Re Federico, e splendidissima fra tutte fu quella per la espugnazione di Diano, che con la caduta del principe di Salerno, il qual da più mesi vi si difendeva, produsse la dedizione di tutti i ribelli baroni del regno.

Ma mentre a si gioconda vita, frutto di prosperosi eventi, lasciavansi andare gli ospiti del Castromonte, ecco una sera giungervi il Re procedente da Altamura, e il cavaliere Jacopo Sannazzaro che veniva da Napoli; e quando entrambi furonsi ristretti, per qualche tempo, fra loro in segreti colloqui, chiamò Federico la sua buona Isabella, e con sereno volto, e non turbata voce in tal modo le andò favellando.

«Rammenti, o mia diletta, allorquando in questo luogo, or sono cinque anni, a te, che della rovina di casa Del Balzo eri oltremisura dolente, io porgeva parole di conforto, ed a mostrarti superiore alla rea fortuna ti esortava? Cangiò metro dappoi con noi la fortuna, e misti a dolori ed affanni, ci diè pure giorni felici, ed avventurata condizion di vita regale. — Tu sempre mostrasti, costanza d’animo virile pari alle mutate condizioni di nostra sorte. Or perché mai dovrei io temere della virtù tua nello annunziarti i tristi eventi che la nostra casa percuotono, minacciando di trarla alla estrema rovina? — Sii forte adunque, e prepara il tuo animo alle funeste novelle, che testé recavami il nostro buon Sannazzaro dal suo viaggio da Roma.
Il Re dei Francesi Luigi XII, per le ragioni dell’avola Valentina Visconti, pretende la signoria di Milano, e pe’ diritti, ben contestabili, di casa d’Angioja, la dominazion di Napoli pretende. — Ricco di milizie, e di danaro, la potenza pur procacciossi delle efficaci alleanze, e con poderoso esercito mosse alla volta d’Italia. — Cedette Milano, e con gioja spensierata accolse fra le sue mura il re francese. — Fuggì Ludovico il Moro dopo essersi vanamente difeso a Mortara, e dopo essere stato tradito, e venduto dai suoi mercenari Svizzeri a Novara; la infelice vedova di Giangaleazzo, che esce ella pure di casa del Balzo, fu mandata in Francia, e il misero figliuol suo fu obbligato a prendere abito monastico. — Congiunto a me per trattato d’alleanza, messa a premio di quarantamila ducati, por non s’è curato Massimiliano di serbar fede ai giurati patti, ed al Francese diede favore di tregua opportuna. — Dimentico il Pontefice della antica amistà con la nostra casa, e memore soltanto del mio rifiuto alle richieste nozze della nostra virtuosa figliuola col suo bastardo Cardinal Valentino, tutto si volse alla causa del nostro nemico, del nemico d’Italia — Improbi feneratori, ci soccorsero i Veneti patrizi di navi e di danaro, ma tre fiorenti città del mio regno, Trani, Monopoli, e Gallipoli pretesero in luogo di pegno, fruendone le ricche rendite, e protestando di non volerle rendere se non quando vedran pagati i loro crediti. Né a ciò contenti, si van destreggiando presso il Francese, promettendogli favori a patto di concessione di novelle terre nelle Puglie.
Ecco, o mia Isabella, qual è lo stato deplorabile delle nostre cose; e ben tu fai ragione quanto piena di perigli sia la nostra condizione a fronte di sì possente nemico con tanto deboli od infidi amici. — Non me illude lo amor del popolo alla mia causa devoto; peroccbé né ignoro, star la sua gioja e l’amor suo nel trionfo della causa più forte, qualunque siasi il vincitore, e molto più alla mia casa oltremisura avverso che a me sinceramente amico lo estimo. — Né per ultimo intera posso io metter la mia fede in Ferdinando di Spagna, comunque pe’ suoi ajuti, e per lo valor del suo Gonsalvo io venni a capo di ricuperare il mio regno. Troppo dall’ambizion dominato io lo conosco, e molto non sembra alla insaziabile sete di Reina Isabella tutto quel nuovo mondo che testé le donava il felice ardimento del Colombo; né davvero; ché ella, e al ver m’appongo, agogna benanche la corona di Napoli.
I timori, siccome vedi, le speranze sopravvanzano di molto; e sperimentato vano finora ogni argomento di ragione, ogni richiamo di giustizia, ogni profferta di concordia, e di pace, a noi or non rimane che serbare incolume la dignità regale, propugnando con le risolute armi il diritto, e cedendo per impotenza di difesa al predominio della forza.»
 
«Ben di me giudicasti, o Federico» a lui rispondeva Isabella «alle mutazioni della sorte credendomi apparecchiata; perocché i tristi eventi non varranno a fare men temperato il dolore di quel che i buoni successi fecero temperata la gioja. La reggia del principe, o la tenda del soldato, la patria o l’esilio, l’opulenza, o la miseria non cangeranno per certo il mio animo, e infievoliranno il mio culto alla virtù, e la mia confidenza nel Signore; e bene avventurata tener mi debbo, se, incolume e salvi i figliuoli nostri, potrò serbar la coscienza libera da rimorsi, oltre la forza della umana natura pungenti, e confortar l’animo nel pensiero di avere almen bramato se non sempre operato il bene maggiore che per me si poteva. — Quello di che sento non esser possibile il consolarmi sarebbe la sciagura del dividermi da te e dai miei figli; ché ciò andrebbe troppo oltre i termini della virtù mia; ma pur non penso che a tal martirio voglia sottopormi il Signore.»

Piangeva il fedel Sannazzaro a quel nobile rassegnarsi dei suoi Principi alle avversità della fortuna; le loro mani baciava, ed a sperar meglio dello avvenire li esortava: confidassero, pregava, nella giustizia della loro causa, nello amor del popolo Napoletano, nella devozion dei baroni, negli ajuti di Spagna, nel valore del gran Capitano. E in lui oramai vecchio esser viva la fede di vedere nell’antica luce splendere l’arco d’Aragona: che ove altrimenti avessero i Cieli prescritto, egli non mai si separerebbe da una casa le cui generose virtù avrebbero agli avvenire narrato come la fortuna non sempre sia alla causa migliore. —

La mano stringevagli Federico, e
«Ben mi doveva la sorte,» dicevagli, «il compensamento della virtù vostra, o buon Jacopo, a conforto della turpe defezione di Giovanni Pontano; il quale dalla mia famiglia beneficato, e fatto grande, obbrobriosamente disertò la nostra causa, rinnegò la fede ai suoi signori, maledisse la memoria dei suoi benefattori, e si fè ligio e seguace di Carlo di Francia. — La tristizia dei tempi e degli nomini di tanto pur non mi opprime la mente ch’io non discerna e non pregi, il Sincero cantor di Mergellina, il dolce poeta de’ Cristiani misteri, il più fedele amico della mia famiglia. — Del rimanente, bando per ora ai tristi pensieri. — A rea fortuna buon riso si vuol mostrare; né senza valida difesa uscir conviene dal campo, né senza dignità e protestazione riconoscer si deve la prepotenza della forza».

Oh aveva ben egli ragione quel saggio principe a disperar del successo dei suoi diritti in quell’acre contesa delle sterminate ambizioni dei suoi nemici, a diffidar di Spagna, a temer di Francia, a non confidare in Roma, a non augurarsi bene da Venezia. Imperocché una turpe lega tra que’ principi erasi in suo danno formata, e per essa dovean Luigi e Ferdinando partirsi il bel reame di Napoli; alla Veneta Repubblica sarebbesi dato aumento di territorio nel Lombardo, ed al duca Valentino grande una parte della Romagna sarebbesi assegnata. — Fu in Roma, nelle sacre mani del Pontefice, giurata quella colleganza da ladroni, che al povero Federico si tenne celata fino allo ingresso dei Francesi negli Abruzzi.

A Gonsalvo allora il Re si rivolgeva, richiedendolo di consigli e di soccorsi; a Gonsalvo da lui già oltre misura rimunerato di terre e castelli. Ma Gonsalvo destreggiavasi con fallaci promesse e subdole parole di fedeltà a prender tempo; infino a che, passato i Francesi il Garigliano, e dovendo egli torsi dal volto la maschera, restituì suoi doni a Federico, aprendogli intero l’animo del suo Sovrano; ed escusandosi inverecondamente della necessità di volgersi da amico in nemico colla prepotenza della ragion di Stato, e colla obbedienza agli ordini del suo signore.

Ritenesse i doni, rispondevagli Federico, ché egli rammenterebbe sempre il bene ricevuto; del male presente ed avvenire non altri piacergli accusare se non la perversità della sua sorte. — In quanto a sé, il soccomber da re forte e valoroso sembrargli più assai bello e desiderevole che il vincer da vigliacco ed usurpar da fedifrago e da spergiuro.

Entrarono in Capua allora i Francesi sotto il comando del legato di re Luigi Cesare Borgia, preceduti dalle bandiere dei Gigli di Francia; e delle pontificie chiavi; la saccheggiarono, incendiarono case, profanarono chiese e monasteri, stupraron donzelle, oltraggiaron matrone; e (siccome il narran le storie sincrone) l’infame Borgia trasse dal chiostro e serbò alla sua sfrenata libidine quaranta giovanette delle più distinte famiglie Capuane, avvelenando in esse, per lo feral morbo Americano [la Sifilide], le sorgenti della vita, e della sanità di tutta una gente avvenire.

Alla fama intanto di sì orrende nefandezze si commosse Napoli sbalordita, per sé temendo la medesima sorte. Ed indarno essendosi Federico adoperato a rincuorar gli animi, veggendo ormai disperata la sua causa, lasciò libero il campo al nemico, e si ritrasse colla sua famiglia nello antico ricovero dell’isola d’Ischia. D’onde poi meglio in Luigi, suo nemico, confidando che in Ferdinando suo congiunto, passò in Francia con la buona Isabella, e col suo fedel Sannazzaro, e dal francese Monarca con le onorate accoglienze, ebbe il ducato di Angri con 30000 ducati di annua provigione.


[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 151-165]