di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)
A chi nell’ottobre del 1507 si fosse aggirato per le marmoree sale di Castel del Monte, una stupenda apparenza di lusso regale, e principesca magnificenza si sarebbe presentata allo sguardo. I più belli serici parati toscani, i più ricchi fiorati tappeti Asiatici, la più elegante copia di domestiche suppellettili; lo splendor dell’argento, il brillar dell’oro, il luccicar dei cristalli; tutto infine il lusso dell’Oriente fecondalo dal genio Italiano, e recato a perfezione dalla pazienza Fiamminga; tutto quel che di più desiderabile, oltre la gloria del nome, poteva agitare l’ambizione d’un principe del secolo decimosesto.
Pareva veramente che il signore di quel Castello tutta sua vita avesse occupata e tutto investito il suo avere in ornarlo, e renderlo tanto leggiadramente magnifico, e tanto elegantemente grazioso. E che fossene alle armi addetto il possessore chiaro il dicevano le splendide panoplie di terse e curiose armature che ornamento aggiungevano e decoro a quelle vaste sale del Castello.
Era il gran capitano Gonsalvo Hernandez de Cordova il signore di quel Castello; né per fermo un più nobile e splendido e lussuoso principe c’era in que’ tempi che al confronto di quelle sue larghezze e magnificenze non disgradasse; e tanto oltre nelle sue rovinose eleganze, e nelle inconsulte generosità sue talvolta ei procedette, che n’ebbe manco allo spendere per lo più urgenti necessità della vita; tant’oltre che destossene la invidia degli uguali, crebbene il sospetto del principe, e non troppo calunniosa imputazione ei ne subì d’ignobil fallo di volgar peculato. Era con lui la bella ed amabile sua figliuola Donna Elvira D’Aguilar, la quale di sua giovanil presenza giocondava i brevi ozi dell’operoso guerriero, del solerte viceré di Ferdinando il Cattolico.
Or nella sala di quell’augusto palagio che risponde a Canosa, ed accenna a Cerignola, stavasene, al cader d’un giorno autunnale, sopra dorato seggio e in gravi pensieri immerso il Gran Capitano. Disteso ai piedi il suo fido Alano di Cordova — aperto innanzi il libro dei Trattati morali del Cordovano Anneo Seneca guardava il mare scintillante degli ultimi raggi del sole, e la lunga sua sponda con l’inconscio sguardo seguiva fino oltre Bari. Guardava il lontano Gargano: immensa piramide di boscose pendici che al cielo si rizza sublime, rompendo la sterminata planizie del suol della Daunia. Guardava i vaghi meandri dell’Ofanto, le verdeggianti, vigne, i bruni oliveti di Cerignola, il castcl1o di Canosa, le mura di Barletta, la Cattedrale di Andria. Magnifica, grandiosa scena era quella davvero per ampiezza di spazio, varietà di prospetti, leggiadria di forme, e vivacità di tinte; incantevole scena delle più splendide vaghezze di natura, delle più mirabili opere dell’uomo; alle quali la vespertina luce dava una vita ed un movimento che di indicibile voluttà i sensi inebbriava. Quasi un immenso incendio miravasi indi a poco nel piano del Tavoliere, ed era il solo tramontante riverberato dai fitti e rossi vapori di quella calda regione; ed a quel vivissimo incendio pareva quasi che novello alimento recassero le marine brezze spiranti dall’Adriatico; ed a quella vivida fiamma, quasi a festa accorrevano numerosi stuoli di uccelli; ed al morente pianeta fitti erano gli sguardi e rivolti parevano i pensieri del Gran Capitano.
In questa ecco giunger da Andria i sonori oscillanti rintocchi della campana dell’Ave Maria «Che pare il giorno piagner che si muore» e quel suono trova un’eco nelle convalli di que’ olivi, e rispondono le campane di Ruvo e di Corato, e le campanelle dei monasteri e delle rurali chiesette sparse per quelle colline. — Arrestansi a quel suono i pastori, che guidano a casa gli armenti; sosta il mulattiere che segue sulla strada il suo giumento; lascia la marra il villano nel non compiuto solco; nel tronco l’accetta rimane il legnajuolo; si cavan tutti il berretto: e rimanendo per poco immobili a pronunziar la prece di nostra Donna Annunziata, e riprendon poscia tranquilli l’opera interrotta per darle il termine del dì. Santa e solenne costumanza è cotesta, per la quale, ad un solenne e pietoso segnale, ogni essere umano della Cristiana comunanza tributa nel momento istesso al Signore ed alla sua Vergine Madre le debite grazie pe’ benefizi del giorno trascorso; cara o pietosa consuetudine, la qual diffonde su tutta una regione quasi un lampo d’aura di santità, che il sol cadente nella maestà dei suoi raggi rende più grave e solenne.
Una profonda melanconia ed una cupa tristezza ingombrava in quel momento l’animo di Gonsalvo. Sia che a men giocondi pensieri avess’egli per natura proclive la mente; sia che da quella montana solitudine, da quel palagio, e da quell’ora fosche tinte prendesse il pensier suo, certo egli è che tutt’altro che invidia ti avrebbe allor messo nel cuore la fortuna del Gran Capitano, veggendolo sì cupamente mesto, è tanto profondamente afflitto. — E se noi credi; se dalla sublimità di sua condizione, se dalla magnificenza della sua vita principesca, se dalle dorate fantasime della sua gloria militare a contraria sentenza ti lasciasti trarre finora, scendi or meco nelle latebre del suo animo, interroga i dolori di quel cuore angoscioso, libra e pondera quanto è che valgono per la umana felicità il rumor delle laudi, la voluttà del comando, la lusinga della gloria; e miglior giudizio m’è avviso che porterai di quelle esterne apparenze di incessante sterminata prosperità sua. — Segui or meco il corso dei suoi pensieri, pon[i]ti fra le sue rimembranze, esamina il suo stato presente, metti a riscontro le sue speranze e i suoi timori, e presto vedrai tra il bene e il male quale eserciti maggiore influenza sui sentimenti del suo cuore.
Rammentava Gonsalvo la giocondità dei primi anni della sua adolescenza, allorquando per la causa, che nobile e santa dicevasi, della espulsion dei Mori dalle Spagne, egli erasi perigliato nei campi Cordovani all’assalto di Baza, all’assedio di Malaga, alla conquista di Granata; e gli tornavano a mente le arrisicate ed audaci, e pur prospere fazioni del suo valor militare, gli onori e le feste della vittoria, i banchetti dell’Alhambra, lo amor delle belle Castigliane, l’estimazion dei suoi principi, la invidia dei grandi, l’affetto dei soldati; e sopra queste cose, e più che queste ei rammentava e rimpiangeva quella sovrabbondanza di vita spensierata e bramosa di strane perigliose venture, quella fede senza termine in un immenso e fausto avvenire, e quella ebrezza delle ben meritate laudi, che la gioventù sua proclamavano salute dell’onor Castigliano, che il suo valore mettevan sopra al valore di ogni altro guerriero, e la casa degli Aguilar la più nobile casa chiamavan di Spagna. — Le sale di Castromonte molto ritraevan per lui somiglianza con quelle dell’Alhambra di Granata, dell’Albraizim di Cordova: e la banderuola Moresca sovrastante al trofeo d’armi che egli scorgeva sulla opposta parete, spontanea gli riproduceva la rimembranza dei pericoli, delle fatiche, e delle glorie dell’ultimo assalto, e della vittoria di Granata.
Rammentava indi, scorsi appena otto anni, la gloriosissima guerra che quasi solo ei sostenne a difesa del sovrano Aragonese di Napoli contro il temerario Carlo di Francia, e contro i suoi valorosi capitani, e quando nelle Puglie, nelle Calabrie, nella Lucania stette egli valorosamente a fronte di coloro che non avean trovato pur un nemico dalle Alpi al Garigliano. E in uno a lui dovette Alfonso il riconquisto del reame, a lui l’Italia l’essersi rincuorata dal timor della furia francese.
E rammentava poscia la lunga e strenua contesa per la dominazion del regno di Napoli tra Ferdinando di Spagna e Luigi di Francia che egli gloriosamente sostenne contro i più bravi ed esperti capitani di que’ tempi; e guardando di là dal piano soggetto al Castello, vedeva Barletta dal suo valore animosamente difesa; e vedeva Canosa e Cerignola, dove vittoriosamente ei venne coi Francesi a giornata; vedeva Andria e il Castromonte premio della vittoria, e tutta la bella region Peucezia, ch’egli aveva per virtù del suo braccio, e per senno della sua mente conquistato al Sovrano di Spagna.
Nobili e liete memorie eran quelle, tra le quali per virtù dell’immaginoso pensiero, quasi di ringiovinire parer gli doveva: carissime rimembranze, che involontariamente gli mettean dinnanzi allo sguardo il luccicar delle armi, e lo sventolar delle bandiere: gli empiva l’orecchie del clangor delle trombe, del nitrito de’ cavalli, del gridar de’ cavalieri, e perfin l’olfatto gli ricreavano per l’odor della polvere, e l’incendio dei campi espugnati — Guardalo — Spianata e serena ha la fronte, vivido lo sguardo, composte a sorriso le labbra; tutto ride nel suo volto, e la ilarità dell’animo per tutta la sua persona si diffonde e appalesa.
Ma por nel mezzo di quella soave gioja delle rimembranze, tra quelle dorate fantasime che in sua mente evocava la potenza di una poetica retrospezione, un pensier molesto viene in breve a collocarsi, ch’egli vorrebbe, ma forza non ha da allontanare; un pensiero che entrato appena nell’animo, mutò tutto l’uomo; attenuando per gradi sua gioja, e facendola passare dalla meraviglia alla meditazione; da questa alla profonda mestizia, ed alla superba indignazione. Quel pensiero era la ingratitudine degli uomini.
I suoi amici, e i suoi compagni, ai quali era stato larghissimo donatore in ricchezze, cessata la speranza di ulteriore benefizio, si rivolsero a Spagna, magnificando lor merito, di Gonsalvo dolendosi, di mendaci falli accusandolo. I signori della sua Corte trovaron facile il trapasso dalla invidia all’odio, e da queste alla brama, ed al disegno del nuocere.
I soldati, perfino i soldati, ch’ei tenne sempre cari come figli, non sazi delle prede e dei donativi, tumultuavano per forzato indugio al pagamento del militare stipendio, ed al loro capitano, che scusavasi sulla remora che i contrari venti cagionavano alle Spagnuole galere portatrici della dovuta pecunia, non dubitarono, gl’infami ch’essi erano! di rispondere «Vendesse l’onor di sua figlia per pagarli.» Incomportevole fra tutte sembravagli ed eragli la ingratitudine del suo principe, che i tanti suoi meriti obliando, della lealtà del suo animo ingiustamente dubitando, aveva schiuse le orecchie alle mendaci accuse dei suoi nemici, aveva osato di farlo richiedere da’ magistrati per le non date ragioni delle spese della guerra; e sospettoso più che ogni altro despota, accolto avendo nell’animo il pensiero, volesse Gonsalvo ritener per sé la dominazion del reame da lui conquistato, non contento di averlo richiamato in Corte, era egli medesimo venuto in Napoli per condurselo sulle sue galere in Ispagna.
Guardalo or che la mente gli traversano siffatti pensieri. Corrugata ha la fronte, tesi i sopraccigli, stretti i denti, composta la bocca a feroce ghigno; ha la sinistra mano sul manco lato, quasi a comprimere i movimenti del cuore; stringe con la destra il manico dell’eburneo pugnale che dal collo gli pende. — Sembra vecchio oltre i sessanta; eppur giunge appena ai cinquant’anni. — Oh, egli è che se la passione l’animo l’ingiovanisce, e il cuore rinverde, il volto poi e la persona ne van sempre con la peggio in quelle tremende guerre del pensiero, in quello sordo conteso fra la ragione e lo istinto. Viva l’amore, e viva ogni dolce sentimento del cuore che dan luogo a placida vita, ed a serenità di mente e di volto! Lungi l’odio e lo sdegno, che la vita accorciano e la fan rapida e triste, togliendo dal volto ogni altra bellezza che non sia quella restata all’Angelo per superbia caduto! —
Né solamente il tempo presente eragli allor molesto al pensiero, che assai peggio dello avvenir prevedeva. Ove mai sarebbesi arrestata la malevolenza dei suoi scelerati nemici, e qual mai termine si poteva assegnare al maltalento del suo sospettoso signore? — Male per bene gli si rendeva; allo amore ed alla fede con l’odio rispondevasi e con la perfidia. — Per chi adunque, egli pensava, e per qual mai causa tanto operai, tanto soffersi, e tanto pervenni a conseguire? — E la fama del nome, la nobiltà della casa, l’onor della vita di Gonsalvo faran dunque naufragio nel mar delle nequizie di vilissimi delatori? — E piegando il capo, e lo sguardo abbassando gli venne innanzi vivido e spiccato il nome di Anneo Seneca, il cui volume sullo sgabello a lui dinnanzi si spiegava; e quel nome, quel solo nome ad una più angosciosa serie di tristi idee aprì di repente il varco. — Cordovani entrambi, aveano entrambi aperto l’amimo di buon’ora, a concetti, ed opere grandiose; una sterminata ambizione, la qual non soffermossi se non ai piedi del trono, le menti d’entrambi aveva agitate; ed entrambi avevan venduta la loro vita, e l’onor loro alla causa dei loro principi. — E fu, ei pensava, pe’ malvagi consigli, e per le criminose arti di Seneca, che, in pregiudizio di Britannico, pervenne al trono il figliuol di Agrippina, che egli, l’immortal Filosofo morale, aveva erudito alle scienze ed alle lettere, e che nei tanti casi non prosperi del suo regno andò egli sempre confortando del suo volpino senno politico. Fu in somma onoranza, fu ricchissimo dei beni di fortuna, fu invidiato per una felicità, che il volgo credeva sincera, e reputava perenne.
Eppure ci fu mai al mondo una ingratitudine che quella pareggiasse di Claudio Nerone verso il suo maestro? Sventura ci fu mai che stesse al confronto di quella del ricchissimo spregiator delle ricchezze?
«Sarebbe egli mai un presagio,» pensò Gonsalvo, «sarebbe mai una ammonizione del Cielo questo nome malaugurato che or vennemi innanzi? — Ma,» poi soggiungeva, «tanto indegno pei miei falli dovrò io tenermi del perdono di Dio, che ad un egual fato già condannato mi abbia a stimare? Ah no, che né le grandi colpe di Anneo Seneca in me ritrovo, né tanto pazzamente malvagio Ferdinando mi sembra quanto veramente fu Claudio Nerone.» —
Si levò da sedere, ciò dicendo, e diessi a percorrere con passo concitato la sala. — Del molto bene da lui operato gli rinvenne in mente la rimembranza; dei grandi onori dal suo re ricevuti gli sovvenne; e siccome di pensiero in pensiero leggiermente l’uom valica, ei ne venne per gradi in sul persuadersi di nulla avere a temere; ormai sicura esser sua fama dalle calunnie dei tristi: star le sue gesta, e le sue conquiste a prepotente ostacolo, a non fallibile difesa dalla malevolenza del principe. —
Ma, quasi a benefico consiglio del Cielo, perché nella stolta sua fede ei non invanisse, alzando dal suolo lo sguardo, gli venne innanzi il ritratto di Cristoforo Colombo recentemente a lui pervenuto dalla Spagna. — Quella immagine del sommo navigatore, l’anno prima mancato ai vivi, vestita non si vedeva delle insegne di grande Almirande, né intorno al collo aveva il ricco monile della nobiltà, per premio, conferitagli. Pallido il volto emaciato, calva la fronte, è da profonde rughe solcata, bianca e negletta la barba, sordide le vesti, e i pugni avvinti da ferree catene. — E guardava; guardava fiso, con immota pupilla Gonsalvo, quasi commiserandolo, quasi ammonendolo a non porre fidanza nelle false blandizie, nella finta benevolenza della ingrata razza dei principi.
Eloquentissima fu all’animo di Gonsalvo quella visione, e per verità che avrebber potuto dir di più le parole? — Oh ed a qual nuova serie di tristi pensieri aprì la sua mente quella quasi evocazion dello spirito del suo defunto amico!
Alle amarezze de’ ripetuti indegni rifiuti lo aveva egli veduto esposto in Cordova, allorquando, venendo ad offerire un nuovo mondo ai sovrani di Spagna, egli Italiano, fu indarno che per lui parlassero il Marchienna, e il Talavera, ché ci trovò scherno e derisione dove sarebbe stata poca l’ammirazione, appena uguale lo stupore allo annunzio del sublime concetto.
Rammentavalo poscia giunto quasi da trionfatore in Barcellona, recando le faustissime nuove, e le doviziose spoglie del conquistato emisfero. — E quali festose accoglienze, quali onori, quali elogi, quante promesse e speranze non furono allor prodigate all’impavido fortunatissimo navigatore!
Or che aveva egli mai fatto Gonsalvo; che era mai quel che egli aveva procacciato di potenza, e di gloria alla monarchia Castigliana, che non disgradasse al confronto di quel che fece, di quel che conseguì per essa l’altissimo genio, la indomita costanza, il felice ardimento del grande Italiano?
«Eppure nol vidi io,» esclama, «e nol vedo ora a me presente, carico di infami ceppi, avviarsi a durissima prigionia; e quell’animo altero, cui non bastava di spazio un mondo, ebbe a patir supplizio di carcere angusto; e quelle mani, che governarono il timone delle navi cariche della spagnuola fortuna, rimanersi inoperose, avvilite, oppresse! — Onde poscia, a memoria, più che della ingiustizia degli uomini ch’ei perdonava, della instabilità della sorte sempre ai buoni avversa, volle fossero alle pareti della sua stanza sospesi que’ ceppi, e nel sepolcro comandò che fossero accanto a lui collocati.
E qual fede metter posso io,» esclamava, «nella gratitudine di Re Ferdinando, che verso il Colombo così ingratissimo si è dimostrato? — Regium, merito dixerunt veteres, ingrati animi crimen; nam semper reges, et antiquo more, ingenti injuria ingentia, benefìcia persolvunt. Solenne detto fu questo di Anneo Seneca, che pur trova riscontro in quello che la tradizion popolare rammenta di Cristoforo Colombo. Star la ingratitudine dei principi in rispondenza del ben che ricevono; ed a coloro che ad essi maggior copia di beni largiscono, non trovando adeguato nemmen lo estremo supplizio, la fama benanche, postumo dominio, insidiano e rapiscono.»
Oh non era antico, non lontano, né dubbio il fatto del Colombo, né da altri e di altri avea Gonsalvo a temere se non del medesimo principe del quale il gran Genovese fu vittima.
Gli entrò allora nell’animo tale un pensier molesto che giammai il simile non avea conosciuto. «E per serbare incolume mia fede a costui io feci il gran rifiuto del regal diadema che il popolo Napoletano, e i maggiori duci del mio esercito un dì mi offersero? Il Pontefice, i Fiorentini, e i Veneziani a quel non difficile disegno mi incitavano. Di scrupoli tener non dovevo ragione; ché diversa origine non ebbero le più nobili dinastie reali se non il felice ardimento di un loro guerriero antenato.»
ln quei sciagurati momenti di perturbazione di animo e di esasperazione di sdegno, il ricordo del male che non si è fatto punge più di quello del bene largito; e soprattutto acerbo è il rimorso di non aver danneggiato in propizia occasione colui che poscia si è mostrato del benefizio non degno. I vizi e le colpe, e i delitti, de’ quali era brutta la fama del principe suo Signore, vividi di funesta luce allor presentavansi alla mente di Gonsalvo: delle ingiustizie, ed iniquità di Ferdinando in danno di tanti uomini commesse, leso egli allor si teneva, come se egli medesimo patite le avesse. Non da una, da mille sorgenti era alimentato quel torrente di sdegno che l’anima gli infiammava, e da ogni parte novelli alimenti riceveva quell’incendio che consumava ogni benefica influenza di temperante ragione.
Pervenuto ora in quella rapida concitazione di animo, esamina quel volto, nel quale si rivelano tante minacce, e dimmi se di pietà o di invidia ti par degna la sorte del signore di Castromonte!
Ma pure, poiché ogni esagitata passione, giunta ch’ella sia al suo punto culminante, cede e rimette per gradi, e dà poi luogo alla prostrazione delle forze morali; oltreché in quel letargo de’ generosi sentimenti dell’uman cuore, comincia sempre a penetrare il lume della ragione, che involontariamente, ma efficacemente ci trae a riflettere ed a considerare alle cause del mal presente, ed a vedere se esenti davvero dir ci possiamo da colpa nelle avversità che ci opprimono, cominciò Gonsalvo a passare quasi a rassegna tutti i falli di sua vita, non più, come prima, per trovarvi ragione ad esaltar suoi meriti, ma per discoprirvi non avvertiti od obbliali falli; per rintracciare materia a spiegare, se non a giustificare quella perversità di fortuna, di che eragli allora incomportabile il rigore.
Ed appena in quella nuova strada furon costretti ad entrare i suoi pensieri, ecco che disabbelliti di ogni loro giocondità gli apparver gli anni trascorsi, e fedati li trovò di inescusabili falli, e perfin di veri delitti. La fede oltraggiosamente rotta, le spregiate promesse, l’onor vilipeso, la tradita amicizia, la religion dell’ospizio manomessa; e più che tutta la vacuità dello scopo, i biasimevoli mezzi, la incuria di male certo e presente per raggiunger futuro incertissimo bene; la ferocia e la crudeltà sotto nome di valor guerriero; la pervicacia e la ostinatezza coperta dalle pompose apparenze della fermezza e della costanza: e per ultimo, a lui che di esser Cattolico e Spagnuolo menava vanto e prendeva superbia, cuocente rimorso svegliava nel cuore lo spregio c la profanazione delle cose più sante della religione di Cristo.
Arma perfida e sleale fu egli dapprima nelle mani del suo Signore nella guerra Moresca; perocché, simulando amistà, pretessendo parole di affetto, o promettendo soccorsi, insinuossi siffattamente, per volpino artifizio, nell’animo troppo confidente di Boabdil Elchicho, che giunse a farsi ammettere dentro le forti mura di Granata, e che poscia iniquamente tradì, e diè nelle mani di Ferdinando. — Di quali onori, di quanto amore non fu egli colmato da quel virtuoso principe suo ospite! E quanto essergli doveva agevole, rispettando la santità dell’ospizio e la fede delle promesse, il condurre quella gente sotto le leggi della novella monarchia spagnuola, in luogo dello sterminio, e della distruzione, che pe’ suoi consigli, e per opera del suo braccio fu in breve compiuta! — Parevagli ancor vederlo; eragli quasi dinanzi allo sguardo quell’infelice vecchio, sbigottito più che addolorato dell’infame tradimento, ma pur dignitoso e altero nella sventura, rimproverargli, tacendo, quello scellerato spregio della giurata fede; opponendo, in silenzio, alla ipocrisia dei falsi seguaci del Vangelo, la sincerità della fede de’ settatori del Corano.
Ma, comunque oltre ogni dir molesta fosse a Gonsalvo quella rimembranza, lo scopo e il conseguito fine di quella guerriera fazione ne facevano più assai acerbo e dolorante il pensiero. Poiché nascondere, or che spassionatamente vi rifletteva, ei non si poteva, essere stata quella gente Africana la custoditrice dell’antica sapienza, la promotrice dell’antico culto della Ragione in mezzo alle intemperanze della barbarie del mondo nuovo succeduto al mondo romano; ad essa portar debito le scienze, ad essa le arti, se malagevolmente e quasi per miracolo sopravvissero al naufragio delle scomparse generazioni; l’agricoltura, e i commerci dovere ad essa la loro incolumità; la restaurazione infine della civiltà d’Europa essere opera indubitabile dei Saraceni Califfi delle Spagne. — Qual nome adunque dar si doveva a quella impresa militare che volle distrutta, e che espulse finalmente dalle Spagne quella generosa e benefica nazione Moresca? — e di che poteva egli mai superbire il gran Capitano per essersi adoperato efficacemente a quella sciagurata espulsione, a quella ostinata e perfida guerra fatta alla causa santa della civiltà?
Ampliò, scrisse di lui Paolo Giovi, ed affermò l’imperio del suo Signore, e per lui ebbe pace la Spagna. — Davvero? Oh se ciò è vero, lo è alla maniera dei barbari; pei quali «auferre, trucidare, rapere, falsis nominibus, imperium; atque ubi solitudinem fecerint, pacem appellant.» —
Con qual sincera gratitudine, con quanta generosa riconoscenza fu indi a poco compensato dagli Aragonesi di Napoli l’ajuto ch’ei lor diede contro i capitani di Carlo di Francia. — Ei protettore, ei salvatore del reame fu chiamato, difensore ei dei giusti, e propugnatore degli innocenti lo acclamarono. Dal suo senno i consigli, gli ordinamenti del politico governo dello stato dimandavansi. Terre e castelli, feudali signorie, e preziosi giojelli ebbe egli in dono da que’ principi sventurati; e più che tutto, egli ebbe piena, sincera, illimitata la lor fede, e pressoché filiale devozione. — Or come rispose egli a quella fede? In qual modo mostrossi grato a quella tanta munificenza? —Portando le armi contro i suoi benefattori, o con tutte le sue forze adoperandosi a cacciarli dal loro regno! - E terribile allor venivagli in mente la memoria di quel solenne colloquio col virtuoso Federico, il quale, delle sue finali intenzioni richiedendolo, obbligavalo a torsi dal volto la maschera, chiarendosi nemico parato a venire alle armi, rinnegando sua fede, non curando l’onore, spregiando la gratitudine. — Non rimproveri, non ingiurie, e nemmen doglianze opponeva l’infelice principe, che dignitosamente subiva quella immeritata calamità; ed a lui, che del mal fare escusavasi, a ciò stretto dal comando del signor suo, benignamente rispondeva: «Troppe virtù avere il mondo ammirato nel Gran Capitano, perché non avesse a rinvenirvi benanche la fedeltà al suo signore.» —
Cuocente oltre ogni termine riuscivagli poscia il ricordo del turpe e sacrilego tradimento da lui commesso in danno del giovin principe Ferdinando, che nella sua fede e nei giuramenti suoi stoltamente confidando, diè Taranto a patti, e carico di catene fu da lui poscia spedito in Ispagna. — Un grido di orrore levossi allora per maledirlo in tutta Italia, e quel grido trovò eco nel suo stesso esercito; e perfin nelle Spagne fu biasimato quell’infamissimo tradimento. E parevagli aver dinnanzi quell’animoso giovanetto, che sorridente dicevagli «Giustamente, o Gonsalvo, a voi si addice il nome di Grande; ché niente giammai nel ben faceste, e nel male, che grande e memorabil non fosse. La bandiera di vostra casa andò sempre innanzi a qualunque impresa senza consultar la causa che la muoveva, e senza tener di conto il vento delle imprecazioni e delle bestemmie che l’agitava — La fama vostra mirabilmente si è ognor prestata a qualsiasi fazione, purché enorme ella fosse, purché fosse immane e non più udita. — Aveste or di me e dei miei non ardua, ma nemmen gloriosa vittoria; questo so ben dirvi che il cuor vostro, anche prima del biasimo che se ne leverà pel mondo, trar non saprà mai superbia da essa, e vorrà, non mai potendolo, disperderne la rimembranza.» — Chi in quel momento, agli occhi dei mille e mille ch’eran presenti, chi era il vinto, il vincitor quale era dei due? A qual d’essi era dovuta pietà, e chi di essi era degno d’invidia?
E scorso appena un anno, di qual nuova macchia bruttossi turpemente Gonsalvo, tradendo la fede data, e spregiando il salvacondotto concesso, facendo caricar di catene ed inviando in Ispagna il suo amico e compagno d’armi Cesare Borgia duca di Valentino? — Il qual venutogli innanzi, più beffardo che irato «Sincera ho pietà del tuo stato» gli diceva «perocché in tal condizione, o Gonsalvo, io veggoti costituito, che astretto ne sei a violar la fede, a macchiar l’onore, a torre a modello un di que’ Borgia che pur dicevi spregiare, che maledicevi, e odiavi — Or chi di noi due vuoi tu che vile si estimi, quei che fidente nella possanza del suo nome e del suo senno, non dubitò di venir solo ed inerme nelle mani di un suo amico, ovver colui che forza non ebbe, e potenza bastante nella forza di molti eserciti, e nella potenza di due regni per opprimere un amico; e dovette però rivolgersi alla fraude e al tradimento? — Alla Fede, è vero, giammai fu che desse culto un Borgia; ma a gran fine rivolgemmo sempre lo sguardo, e per altrui profitto non già; per noi stessi nuove ed ardue cose tentammo. Tu vendesti, o Gran Capitano, l’anima tua al Pontefice, al cattolico Re tua fama vendesti. Stanne ora al turpe mercato, e tienti l’obbrobrio, e la ignominia che ne conseguita — Grande e forte re diran gli avvenire Ferdinando di Spagna, per la cacciala dei Mori, per la conquista di Napoli; né di coloro, che furono strumenti di sì grandiosi fatti terran ragione; perocché costoro alla regal dominazione il corpo e l’anima turpemente commodando per mercede di ricco stipendio, al diritto di trar gloria del ben da essi operato volontariamente rinunziarono. — Un Borgia in catene è certamente più libero del gran capitano Gonsalvo forzato a macchiarsi di infamia. — Verrai, il cuor mel dice, ancor tu fra non molto in Ispagna, né forse si vedran ceppi ai tuoi polsi, come or si vedono a questi di Cesare Borgia; ma durissime e pesanti catene avvinceranno il tuo animo sì che si possa altrui come in dura prigione ti sembrerà di vivere, e proverai peggior il crucio di ogni altro martirio, il fastidio della vita!» —
Oh avrebbe fatto ben egli pietà il Gran Capitano a quei che guardato lo avesse allor che quasi schiacciato trovavasi sotto il peso dei suoi pungenti rimorsi. — Angoscioso, anelante, trafelato, fatto abbietto a se medesimo, minacciose fantasime lo incalzano da ogni parte, imprecandogli, terribil supplizio di lunghissima vita. — Boabdil, Aben Afiz con la generosa stirpe dei traditi Abenceragi, gli Aragonesi principi di Napoli, il duca Valentino gli si addensavano intorno, lo accusavano, lo malediceano, e vilissimo tra gli uomini lo proclamavano.
Ecco la casa dove il buon Federico, e la sua virtuosa consorte splendidamente accolto lo avevano, tenendolo in regal condizione. — Ecco dove il giovan principe Ferdinando aveagli saputo tribuir filial devozione. E qui del medesimo ospizio con lui godette il Borgia, che de’ suoi segreti intendimenti lo faceva consapevole. — Or questo nobil Castello rappresenta il guiderdone dei suoi tradimenti; è la mercede del rinnegamento della fede, del ripudio dell’onore, del dispregio della onestà. — Ogni sala, ogni angolo, ogni torre ha una memoria di onoranza vilipesa, e di affetto tradito; e grande una parte della ricca suppellettile di che splende il palagio è una rimembranza di non meritata benevolenza, di mal collocata amistà.
Un grido tremendo uscì allora dal petto di Gonsalvo; un grido che tradusse in voce, e quasi compendiò i lunghi e penosi pensieri, che l’animo gli avean travagliato; un grido che trovò eco in tutte le sale e le torri del Castello, e fece accorrere la bella Elvira con le sue donne esterrefatte, c con gli impauriti familiari — Le selle ai palafreni, e via subito da questo Castello «Non un’ora, non un minuto di indugio, ché gravissime cure me chiamano in Napoli».
E partì; e dilungossi dal Castello del Monte; partì senza rivolgere indietro lo sguardo; ed a notturno viaggio avviandosi, lasciò a manca Andria, passò Trani fra le tenebre, e ricovrato la notte insonne a Barletta, proseguì la domani sua strada per Napoli.
[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 173-196]