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Acquaforte di Castel del Monte del 1860 circa

Il Castello del Monte
in Terra di Bari

Studi e pensieri

di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)


XV.
Casa Carafa

In condizione poco men che di prigioniero, inviso a quanti c’eran sulle regie galere, col veleno nel cuore, ma pur col sorriso sul labbro, dovette Gonsalvo seguire re Ferdinando che ritornavasene in Ispagna. Dove giunto crebbegli ognor più profondo nell’animo il cruccio e il dispetto contro l’ingrato e sospettoso suo signore; e non fu forse mendace la fama la qual gli suppose, più che la brama, il disegno di venirgli a fronte per opera di bene ordita cospirazione. — Che che di ciò sia, nel 1515 ei dette per marito alla figliuola D.ª Eleonora il suo congiunto Aloisio Guevara di Cordova, assegnandole in dote, oltre a molti stati nella Spagna, i suoi feudi di Napoli; tra’ quali il ducalo di Andria col Castello del Monte.

A Gonsalvo di Torres che fu il primo governatore del ducato, successe Giorgio di Salzedo; nobili entrambi ed umani signori, i quali sommamente di Andria e di Castromonte si piacquero, e delle loro sostanze furon larghi, morendo, in pro della Università Andriana.

Pochi anni trascorsero dalla partenza di Ferdinando da Napoli, e le condizioni politiche, la faccia quasi dell’Europa trovasi affatto cangiata; recando nuovi tormenti, e novelle tribolazioni alle nostre regioni. Imperocché Carlo Imperatore, e Francesco di Francia s’eran messi al mal giuoco delle armi; e combattevano nelle Fiandre, in Francia, in Italia; per terra, per mare; con alleati Turchi, Cristiani, Protestanti, Cattolici; per guerresche fazioni maestrevolmente condotte, e per destreggiamenti politici slealmente adoperati. Valorosi Capitani, grandi uomini di stato, sommi artisti venivano in luce, gareggiavan per primato, salivano in alto, andavan giù; pochi tra essi sopravvivendo nella memoria dei posteri, e spesso i men buoni, anzi i più malefici alla umanità.

Fu quello veramente il tempo delle grandi ambizioni di ogni genere, d’ogni natura, d’ogni condizione. Da Clemente VII all’ultimo clerico della Cristianità; da Carlo V all’ultimo principe del più piccolo stato di Europa; dal Doria, dal Navarro, dallo Strozzi all’ultimo de’ loro soldati; dal Sanzio, dal Buonaroti, dal Macchiavello, dal Guicciardini all’ultimo artista, all’ultimo scrittore, tutti guardavano in alto, tutti ambivano di andare più oltre, tutti miravano a conquistarsi un dritto all’ammirazione dei contemporanei, alla memoria degli avvenire. E quanto di bene, quanto di gloria sarebbene provvenuto alla causa santa della civiltà delle genti, se uno scopo veramente benefico, esente da egoismo, immune da cupidigia avesse sospinto gli animi di quei sommi agitatori dei popoli! — Ma il meglio, ma l’essenziale mancava a quelle grandi ambizioni Italiane; perocché ad esse mancava la nazionalità, e la indipendenza. — Oh ma dove mai mi trasporta il pensier di que’ tempi? — Facciam di ritornare, e per la men lunga, al Castello del Monte.

A Carlo Imperatore obbediva Napoli e Sicilia, il Milanese ed altre terre Italiane; ed Andrea Doria facevalo sicuro della non lieta obbedienza di Genova; ed il Mediceo signor di Toscana prestavagli omaggio della sua fede. Occupava re Francesco il Piemonte ed il Monferrato. Trovavansi nel suo campo i più potenti fuorusciti Italiani; e per tema della irrefrenabile ambizione Cesarea, s’eran messi, pria velatamente, e poscia alla scoperta, nelle sue parti i Veneti patrizi.

A Marignano, a Pavia, a Montemurlo, a Siena, sempre a scapito, e sempre a disdoro delle sorti Italiane, vennero a giornata quei sciagurati irreconciliabili rivali; scopo di bene alle armi loro non proponendo, sol che di stato, e di potenza l’un l’altro sopravvanzasse.

Nel 1515, a turbar la breve, e ingloriosa pace di che Napoli godeva, venne con grossa armata Gastone di Foix signor di Lantrec; ed a lui si congiunsero molti fuorusciti Italiani, che tenevano per Francia, e venner le Venete galere sotto il comando di Giovanni Moro. Cadde Aquila nelle mani dei Francesi, e ne andò a sacco ed a sangue. Cadde Lucera, indi Troja, Ascoli, e Venosa. Soggiacque poscia Melfi che fu saccheggiata. Furono occupate Barletta e Trani. Vennero in dominio dei Veneziani Mola, Polignano, e Monopoli; e tutta Terra di Bari fu messa a soqquadro. Ma quella della città Pugliesi che più di ogni altra ebbe allora a patire dalla Francese barbarie, fu Andria, siccome quella che soggetta alla dominazione della casa di Gonsalvo da Cordova, ingrate e dispettose memorie destava nel Lautrec pel troppo spesso fiaccato orgoglio delle armi Francesi. Sicché fece distruggervi i suburbani giardini; fece diroccar le mura della città, commettendovi immanità senza termine, e ruberie da saccomanni. Ed al Castello del Monte, dove erasi rifugiato il governatore, ed i notabili del paese, minacciava arrogante di volere appiccare il fuoco. Lo che fatto avrebbe indubitabilmente, se lo ingrossarsi delle armi Imperiali nella parte più meridionale del regno non lo avesse obbligato a correr più che di passo alla volta di Napoli; avviandosi, senza saperlo, alla sua morte ed alla rovina dci suoi. Imperocché giuntovi, e messosi a campo al Poggio Reale, sia per la mancanza di buone acque in quella calda stagione scarsissime, sia pei disagi della troppo aperta stazione di quei luoghi maremmosi, una orribile pestilenza distrusse in breve il suo floridissimo esercito, ed egli medesimo vi lasciò la vita.

E fu per fermo grande argomento di prisca longanimità nel nipote del Gran Capitano Gonsalvo, Ferdinando, l’obbliare la distruzione di Andria, e le minacciose parole dell’arrogante Francese, e il riscattar che fece dalle mani di soldati Spagnuoli il corpo del Lautrec, al quale data onorevole sepoltura in S.ª Maria la Nuova, fece apporre al sepolcro la nobilissima iscrizione che ancor vi si legge:

Odetto Fuxio Lautrecco
Consalv. Ferdin. Ludovici filius a Corduba
Magni Consalvi nepos,
Quum ejus ossa, quamvis hostis, in avito sacello,
Ut belli fortuna tulerat,
Sine honore jacere comperisset
Humanarum miseriarum memor
Gallo duci Hispanus Princeps posuit

E fu questa un’altra più assai nobile vittoria di casa Aguilar sull’oste Francese; ché il vincer sé stesso, l’obbliar le ingiurie, l’onorar la virtù del nemico son più chiaro e sincero argomento di laudi che il superarlo per la forza delle armi e dello ingegno.

Appena era Napoli quietata dalle conseguenze della francese invasione, che una nuova calamità di interna perturbazione venne a travagliarla, vò dire la sollevazione del popolo per respinger la pervicace improntitudine del viceré Toledo, il quale erasi messo sul duro per introdurre nel regno la Spagnuola Inquisizione. E giammai fu che un più unanime, risoluto e fermo volere collegasse i signori ed il popolo Napolitano a sottrarsi a quella peste esiziale, la quale sì gran parte del mondo in que’ tempi affliggeva. Ebbe un bel tempestare, e minacciar di bolle e monitori ed anatemi il sovrano Pontefice. Ebbe un bel destreggiarsi, ed infingersi con ipocrita duplicità il Toledo; ché il popolo né per minacce ristava, né dagli artifizi lasciava ingannarsi; i Spagnuoli invisi soldati mandava con la peggio rotti e sanguinosi, ed ai scaltri fautori mozzava il capo e bruciava le case. E ciò faceva senza esautorar Cesare e torgli obbedienza, e protestava anzi solennemente, niente altro bramare che l’ajuto del suo Principe contro quella incomportevole peste.

Fremeva l’iracondo Toledo, ma pur, forzato dalla prudenza, dava buone parole per tema di peggio. Gridava ben conoscendolo, il popolo che nelle sue parole sapeva non poter metter fede: e soffiavan nel fuoco i signori che il Toledo detestavano, e ben prevedevano, dover riuscire il Tribunal delle Inquisizioni un’arma micidiale nelle mani del loro nemico. Fu vana la interposizione dell’Arcivescovo; vana la pietosa opera dei pacifici mediatori. Né per altra via diessi fine al tumulto se non deputando in Norimberga all’Imperatore, Placido di Sangro, ed il principe di Salerno, che andarono a richiederlo di far rispettare i giurati privilegi de1 popolo Napolitano. Lo scopo si ottenne, ed allora e sempre; ché tutto fu possibile ai più cupidi, e tirannici sovrani di imporre al nostro popolo; tutto, meno l’aborrito Tribunale della Inquisizione. In questo almeno, ma solo in questo, ci mostrammo costantemente avversi e ripugnanti; sicché i Pontefici e i loro ministri se ne levaron con la peggio, e dovettero smetterne per sempre il pensiero.

Or mentre queste cose in Napoli accadevano, giunse in Andria la sicura notizia, volere il Duca Gonsalvo II. di Cordova vendere quel Ducato col Castello del Monte per prezzo di centomila ducati. Sia che di vivere in Ispagna meglio si piacesse che in Napoli; sia che del Toledo male ei soffrisse il durissimo governo, queste ed altre ragioni che il muovessero, triste e dolente sen venne il buon Salzedo a darne lo annunzio ai fedeli Andriani. Il quale annunzio, comeché a tutte le classi del popolo enormemente molesto, fu ciononpertanto di diversi divisamenti cagione, ed aprì le menti a consigli diversi. Assembraronsi i capi delle 26 famiglie di Prima Piazza nelle sale del Castello del Monte, e presa tra essi la parola Flavio Curtopasso ai circostanti compagni in tal modo prese a ragionare.

«Qualora le civili condizioni del nostro stato io mi reco innanzi al pensiero, dai più remoti tempi della Normanna dominazione, e fino ai giorni nostri, io ne son tratto col più sincero compiacimento del mio cuore a considerarlo, e proclamarlo il più avventurato che fosse mai nel nostro reame. Imperocché, sia ch’io guardi la protezion singolare di che gratificaronlo i fondatori della monarchia, sia che consideri la predilezione del magno Federico e della sua famiglia, sia che la principesca liberalità di Casa del Balzo rammenti, sia che la regal munificenza di Casa Aragona, e il paterno governo di Casa Aguilar io rimembri, furon sempre tali le prospere condizioni del popolo Andriano da disgradarne al confronto qualsiasi altro popolo il più avventurato per governative istituzioni, e per lealtà fenomenale di benefici governanti. La qual mia meraviglia e compiacenza non ha confini allorquando considero le miserevoli sorti dei popoli soggetti al feudale reggimento, pei quali non è gravezza di ignominioso servaggio, non enormezza d’intollerabili balzelli, non acerbità di arbitrario comando, che non sian condannati a subire e portare in pace. Né proteste e richiami al Sovrano, né doglianze e preghiere al signor loro avvenne mai che desser buon frutto ai tribolati martiri della baronale dominazione.
Or quale è mai per divenire la condizion nostra or che l’umanissimo nostro signor Gonsalvo II da Cordova intende far vendita delle baronali sue ragioni a prezzo di moneta? Chi sarà mai il suo successore? Certo non il più degno; ché il merito non diè mai peso nella bilancia dei comuni mercati, ma solo il più ricco, od il più ambizioso. E peggio se ad uom nuovo che a gentile stirpe siasi di recente ligato; ed ancor peggio se ad un signor d’oltre Pirene siam condannati dalla sorte ad obbedire. Verranno gli ingordi ragionieri, i superbi governatori, i tristi guastaldi del nuovo barone a porre le insaziabili mani nelle nostre sostanze, ad esercitar violenze e soprusi ad insidiar le nostre famiglie, e turbar la pace delle nostre case. Ed Andria non sarà più la Fedele Amica di Federico di Svevia, ma l’ignobile vassalla di un balordo o malvagio Signore di poco men che bassi natali. Contansi fra noi marchesi, baroni, e cavalieri; risalgono le famiglie nostre alla più remota antichità. Ci soggetteremo noi ad un nostro inferiore?
Ebbene, sol che a noi piaccia, o Signori, il mezzo non manca per sottrarci alla possibilità di tanta ignominia, né troppo arduo e malagevole si dimostra.
Oh che indugiamo a revindicarci in libertà, francandoci per sempre dalla ingratissima condizione di ignobile vassallaggio? Bastano a conseguir tanto bene sol centomila ducati, ed ogni nostra casa può senza scommodo sborsare soli quattromila quattrocento. E di questo lievissimo spendio non troverem noi amplo compensamento nelle pingui rendite dello stato? — Non ci parrà egli gran fatto il sostituir le nostre case insiem congiunte e federate a quella del Feudatario? Dividerem fra noi in civili uffizi, dividerem le cure del buon governo del popolo, né altrimenti diverrem benefici ai nostri concittadini di quel che sianlo i Veneti Patrizi.
Ben sapete, o Signori, quale odio irrefrenato, quale aspra guerra faccia il Toledo alle più nobili case dei signori Napolitani, che di pari avversione il rimertano. Il di Sangro, il Pignatelli, il Sanseverino corsero ad accusarlo allo imperatore ed altri disertaron la causa di costui, ed andaronsene presso Francesco di Francia suo nemico, sotto le bandiere dello Strozzi. Si scusa il Viceré del suo aspreggiare i signori, coll’amor ch’ei dice portare al popolo che dalle baronali angarie intende a proteggere. Or vi lascio pensare con quale piacere con quanta alacrità vorrà egli vedere o dare appoggio presso il re della nostra deliberazione. Questo so dirvi, che quando a sì convenevol proposito vogliate decidervi, diverrà la nostra patria lo specchio e il modello d’ogni altra città del nostro regno; né imitatori mancheranno che al nobile riscatto investiran volentieri le loro sostanze».

Benevoli orecchie trovaron le parole del Curtopasso; ché a tutti sembrava, siccome era veramente, un grandissimo vantaggio quel redimersi dalla feudale soggezione. Ciò non pertanto non senza grave preoccupazion di animo venne talun d’essi a considerare, dispari per opulenza esser le condizioni delle ventisei famiglie, e non di uguale generosità di natali, epperò non uguale avere a riuscire la parte che ciascun d’essi avrebbe conseguita nel governo del piccolo stato; dissentire dal proposito non esser convenevole; bene ordinarne e regolarne le condizioni esser consentaneo alla giustizia, richiesto dalla prudenza.

Vedesti allora un dividersi in crocchi, un aggirarsi e far capannelli per le ampie sale del Castello, un susurrare, un discutere, un ragionare; per lo quale infino alla tarda ora del giorno non erasi ancor venuto in concordia di pareri.

Sì, ma mentre queste pratiche avvenivano in Castromonte, ed erano già corsa la voce nella città, tumultuava il popolo nella piazza maggiore, e messosi sur una panca un bene accorto popolano in simil guisa con veementi parole alla moltitudine si volgeva.

«Dura per ogni verso è la sorte del popolo soggetto alle 1eggi, alla formazion delle quali non fu chiamato a concorrere o consentire, ed ai precetti delle quali è poi forzato ad obbedire. Pel suo proprio vantaggio le scrive il potente, e dallo eseguirle tiensi sempre prosciolto, sé estimando di assai più nobil natura di coloro ai quali le impose; leggi impone il principe a tutti i suoi sudditi; leggi prescrive il barone a tutti i suoi vassalli; sicché sudditi e vassalli siam sempre condannali a servire ed obbedire. Né ciò è il mal maggiore, ché nuove leggi, a lor matto senno, e per loro intemperante natura c’impongon coloro che dai feudatari son preposti al governo dello stato. — Servire è nella condizion nostra e servir sempre ed a tutti; comandare è nella condizion loro e comandar sempre e con arroganza.
Purtuttavolta, date giustizia e provvidenza al Monarca, date umanità e giustizia al Barone, e diverrà non più ignobile il servire, e lo obbedire alle loro leggi; perocché sarà ragionevole e benefico il comando, epperò utile, e ragionevole la obbedienza. — Ma allorquando la distanza dei luoghi, l’ampiezza dei mari, l’arduità dei monti tien lontano dai popoli il sovrano; sicché dalle baronali trasmodanze protegger questi non possa; e quando invece di un sol barone, molti ne prendano il potere, e gli succedono nella forza, quanto non diventa più dura e intollerabile la condizione dei popoli? — Non ad uno o a due signori allor dobbiam servire, ma a molti; non la cupidigia, e l’ambizione di un solo abbiamo a far paga ma quella di molti. — Ad essi tutti i vantaggi della civil comunanza; per essi la esenzione da ogni obbligo, da ogni peso, da ogni gravezza: a noi tutte le durezze del servire, e delle necessità del governo; ad essi tutte le più smodate libidini del comando. Le nostre fatiche saran causa d’incremento del loro censo, e daran loro mezzi novelli per opprimerci, e impoverirci. La nostra prole aumenterà il numero dci loro servi, aumenterà lor prole quello dei nostri padroni. — Or bene, amici, e fratelli miei, è questo e non altro il partito che or si sta discutendo nel Castello del Monte dai nobili Andriani di Prima Piazza. Essi intendono di comperare di lor proprio conto il ducato, sostituendosi al feudatario, ed acquistando però, ragioni sopra noi tutti, e su tutte le nostre cose.
Che ad un altro finora ignoto e forse tristo Signore, nazionale o forestiere ch’ei sia, sottraggasi Andria, sarebbe impossibile il non trovare utilissimo; ma pure ciò sarebbe men dannoso del soggiacere alle leggi ed ai capricci di molti Signori insiem collegati c congiunti; perocché avremmo gare, rivalità, contese ed ambizioni molte, con soprusi senza termini, turpitudine di scisma cittadino, e non cessante discordia di parti.
La oligarchia è tristo governo, poco men, forse del governo del despota; e peggio quando la oligarchia stia nelle mani dei doviziosi, ed abbia predominio sulla fortuna dei poveri. Il barone ha un nome di illustre genia a serbare incolume da macchie; ha uno scudo da serbar terso da colpe; ha opulenza che lo allontana dalla lordura del porre le mani nelle altrui sostanze. Non così di coloro che or si agitano e cospirano nel Castello del Monte: avvegnaché della moneta che investiranno nella compera dello stato, essi intendano di avere a trarre da noi frutto ubertoso, in immodica percezion di tributi, in nuove maniere di balzelli.
Ebbene, amici e fratelli miei, lasciam che compiasi il benefico riscatto, e revindichisi in indipendenza il Ducato; ma ciò facciasi a nome del popolo intero e non solamente dei signori. Diano essi per ora la moneta; ne pagherem noi annualmente il frutto ai prestatori. Sian qualunque le esorbitanti pretensioni di usura, questo ne avrem di sommo bene che cesseremo dal servire, ed avremo ristorata nella patria nostra la parificazione desiderevolissima dei diritti e degli obblighi di tutti i cittadini. Pochi anni sono trascorsi da che i Monopolitani ce ne han dato il nobile esempio, riscattandosi a prezzo di cinquantamila ducati dal turpe servaggio di un Pietro Faraone, che di suo conto avea comperato quello Stato, e l’Imperatore fece paghe le oneste brame di quel popolo generoso, consentendogli quel riscatto dal Faraone.
Ma vorranno essi i nostri Signori far lo acquisto nel nome della Università, pagando pel popolo? Certo so che nol vorranno; ma sta in noi il far che essi lo vogliano; e tale necessità è cotesta nella qual siamo costituiti che dallo adoperar la forza per determinar la volontà, non penso che avessimo, per tema di punizione o di biasimo, ad astenerci. Imperocché ella è quistione soltanto del nome del comperatore; ché del prezzo della vendita non si sconviene aversi a pagar di presente. Che tardiam dunque a risolverci? Che indugiamo a recarci al Castromonte per significare a quei signori il volere della città nostra?»

«La forza!» Venne quassù gridando un dabben frate, «oh che mai vi avvenne di proporre, messere! E sapete voi che niente c’è di men forte della forza che non abbia suo fondamento sul dritto? E qual dritto ha mai questo popolo a pretender che altri facciag1i prestanza del suo? …»

«Ve lo dirò io quale è cotesto dritto» replicava l’iracondo popolano.
Ma le sue parole eran rotte dai clamori e dalle grida del popolo, al quale non poteva non saper del duro quel dubitare e quel contrastar che facevasi alla onnipotenza dei suoi diritti. Sicché l’agitazione era grande; e i men giusti e ragionevoli partiti venivan sempre a galla di quel mar concitato delle popolari passioni. E dove sarebbero trascorsi quei furori degli esaltati animi preveder non si poteva, quando per buona ventura giunse in piazza un corriere procedente da Trani, il quale recava tali novelle, che poi dovevan porre, e posero termine alla contesa, la qual già minacciava di uscir dai termini delle semplici parole. Essersi determinato, narrava il messo, il conte di Ruvo Fabrizio Carafa a trattar col duca Gonsalvo della compera del ducato; ed esserne rimasto il prezzo nei ducati centomila pria richiesti. Umano e generoso essere il Conte; ed aver già dichiarato essere devenuto a quella compera per lo buon concetto in che teneva il popolo di Andria: stessero però di buon animo, né i trascorsi tempi rimpiangessero, ché in breve vedrebbero qual fosse e quanta la benignità dell’animo del novo signore.

Bene si può far ragione come quel fausto annunzio valesse a spegner l’incendio che le trasmodanti passioni avean deste negli animi degli Andriani; perocché ad essi era nota sia la nobiltà antichissima di Casa Carafa, che ebbe già famosi capitani, ed insigni porporati, e sia la mansueta indole, la modestia singolare, e la principesca liberalità del conte di Ruvo, che era per fermo uno dei principali baroni del Regno.

Laonde furon prestamente i signori ed il popolo in pieno accordo; né più pensarono se non ai modi migliori per far festosa accoglienza al nuovo feudatario. E poiché l’indomani ebber nuova che il contratto di vendita non sarebbesi forse compiuto per la mancanza di soli ducali quindicimila, che il conte avrebbe dovuto sborsare, convennero a parlamento in Seggio della Comune tanto i nobili dalle due Piazze, quanto gli Ecclesiastici, ed i capi del popolo, e messi insieme i ducati quindicimila, deputarono otto de’ principali cittadini presso il conte per recargli quella somma, in segno del piacere loro ad averlo a signore; e nel tempo medesimo per stipulare un solenne atto, pel quale fossero riconosciuti gli antichi privilegi della città. I quali deputati giunti in Napoli, ce significata la loro missione al Conte, ne fu questi tanto sinceramente commosso, che ripetette per prime voci, le parole di Federico «Andria fidelis» e soscrisse col pieno piacer suo a tutto le condizioni proposte dagli Andriani.

E per tal modo, dopo quattro secoli di svariate vicende e diversi mutamenti di dominazione, passò il Castello del Monte nella famiglia Carafa di Ruvo, la qual da quel tempo tolse nome da Andria.


[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 196-213]