di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)
Per oltre un secolo da che il Castello del Monte passò nel dominio di casa Carafa fu sempre tenuto in gran pregio, e fu prediletta dimora di gran parte dei signori di quella casa. La collina e l’augusta magione che stavale a corona serviva ogni anno agli estivi alloggi dei Duchi d’Andria, che molto di quel luogo d’aere salubre si piacquero, e che però andaron sempre adornandolo di ricca suppellettile, e di pregevoli lavori di arte.
E quando lo stolido parteggiar dei baroni del regno per futili gare di men che nobili ambizioni, (servi com’essi erano di un re lontano, e di un superbo viceré) generava discordie e contese, dando luogo a vendette e soprusi; e quando la rinnegata pazienza del popolo, mal sofferente lo iniquo aumento de’ vicereali balzelli, tutta pose a soqquadro la città capitale, e le provincie del regno, a Castromonte si rifuggirono e dimorarono con le loro famiglie i pacifici signori di Andria. E nel beato silenzio di quell’aereo soggiorno, dominarono le tempeste che ai loro piedi infuriavano, e compiansero la dura sorte dell’uomo condannato ad agitarsi ed agitare perennemente in cerca di un bene, che altrove non può rinvenirsi se non nella temperanza delle passioni del proprio animo.
Fra que’ nobili signori che albergarono in Castromonte taluno ci fu che di sua potenza abusando, il non dovuto richiedendo, ed all’onore altrui facendo ingiuria, non poté conquistarsi l’amore dei suoi vassalli; e funne anzi mal visto ed abborrito; e le maledizioni degli oppressi elevaronsi dalla sottoposta città a quella sublime magione allora esecrata qual nido di avvoltoi, covo di volpi, caverne da banditi. Ma pur molti baroni ci furono che umanamente comportandosi co’ loro soggetti, nelle necessità sovvenendoli, nelle calamità confortandoli, al ben fare indirizzandoli, fecero opera perché i voti, e le benedizioni degli Andriani giungessero colassù; e quel castello fu allor salutato quale arca di salute, qual tavola di naufragio, qual dimora di benefici geni.
Tra le notturne tenebre discesero talvolta gli audaci armigeri, i perfidi ministri delle baronali cupidigie, della vendetta baronale a turbar la pace delle famiglie che dispiacquero, ovver troppo piacquero al niqnitoso signore di Castromonte, e questo ebbe allor carceri, custodi, carnefici, e risuonò di pianto, di gemiti, di imprecazioni.
Ma tempi pur furono, e non pochi, che dalla diurna luce eran guidati i fedeli vassalli al Castello a richiedere non’ mai ricusar i soccorsi, a porger sempre esaudite preghiere; e quel luogo fu allor giocondato dalle laudi e dalle parole d’amore, che al cuor del signore congiungeva i cuori de’ suoi grati vassalli.
Nel 1656 fu Napoli (di fresco uscita dalla rivoluzione che tolse nome dal Masaniello) desolata dalla pestilenza, recata nel regno dalle truppe Spagnuole reduci dalla Sardegna. Petecchie e brutte lividure a guisa di pesche d’uom vergheggiato assalivan di repente per effetto del contagio gli inconscii napoletani, che presi da capogiro e delirio, fra poche ore vi perdevan la vita. E furon tante e si spesse e numerose le morti che si giunse a noverarne fin diecimila al giorno; tante che mancaron le braccia dei sotterratori; tante che mancaron le fosse pe’ cadaveri: una calamità, un flagello, una rovina che di simile non c’era memoria nella storia del regno.
Di Napoli fra non molto avventossi il contagio nel contado, e corse poscia nelle provincie, e quella di Bari funne più aspramente contaminata.
Per sei interi mesi fu Andria flagellata da quel terribile malore, e la sua popolazione che nel luglio del 1656 giungeva a ventiduemila abitanti, erasi ridotta, al finir di quell’anno, a soli ottomila. A mezzo agosto gli ospedali eran pieni, non più atti ad albergare gli infetti, tanto strabocchevolmente erane cresciuto il numero! Morivano alla rinfusa sulle porte delle case, su per le scale, per le vie. Nessuno la peste risparmiava; medici, sacerdoti, servienti, tutti perivano. — Di becchini più non se no trovava, morti i più, gli altri fuggiti. Cominciavano i cadaveri, dalle non più capevoli fosse rigettati, ad imputridire là dove erano caduti. Le confessioni ad alta voce si facevano; il Sacramento si portava senza pompa; sulla punta di una canna il viatico si amministrava; un fetore insopportabile usciva dalle case, a cagion dei cadaveri non levati, e putrefatti. Un silenzio tremendo, mancata la forza del dolersi, e del chiedere non più sperabile soccorso, dominava nella città desolata.
Eppure egregi provvedimenti erano stati presi dal magistrato municipale; segregazione dei sani dai contaminati, formazione di due lazzaretti; dischiusione delle fosse del grano per uso di sepoltura, largizione di generoso stipendio ai medici ed agli assistenti. Umani oltre di ogni dire si mostrarono e soccorrevoli si porsero agli infermi i buoni sacerdoti della cattedrale, e di essi morirono non meno di quarantasette. Umanissimo, e non senza amaro rimpianto per anni molti rammemorato, fu l’ottimo vescovo Ascanio Cassiano; il quale sempre in giro per le case degli infermi con ogni maniera di soccorsi, e col conforto di evangeliche parole, arrecava a que’ travagliati vesti, medele, consolazioni di celesti speranze.
Or bene, a trarsi incolume da quel terribile flagello, fuggendo il contagio, che nessuna classe risparmiava nella travagliata città, tutta la famiglia ducale, con molti amici, e col suo servidorame erasi ritirata in Castello del Monte; rimanendo in Andria due uffiziali a dispensare ai bisognosi vitto, vesti, e medele. E sia che in quella salubre regione perdesse sua efficacia la contaminazione dell’aere, sia che la preservazione dal contatto esentasse dal male, nessuno degli ospiti del Castello fu visitato dal tremendo malore. La soavità delle marine brezze, la fragranza delle montane piante, la pace, e la floridità della salute, se non valevano a far lieti i contristati animi degli ospiti di Castromonte, valsero a farli incolumi dal comun fato dei loro concittadini. D’una tranquilla isola da burrascoso mar circondata aveva apparenza il Castello, al quale giungevano appena i funesti rintocchi delle campane di Andria, e i globi del fumo delle incendiate masserizie degli appestati.
Né alla incolumità degli abitatori del Castello sapevan voler male gli Andriani, tanti erano i benefizî, che dai ragionieri della ducal casa venivan loro largiti; e troppo ben conoscendo, che se non era della impotenza degli argomenti di salute, da Andria non si sarebber mai allontanati i loro signori.
Cessò alla fine al cessar dell’anno quella desolante calamità; ché la malignità dell’aere fu vinta dalle piogge, e dai venti ibernali, e alle consuete opere della vita ritornarono i superstiti; ritornò da Castromonte la famiglia ducale a portar soccorsi e conforti agli orfani, ed alle vedove dei trapassati.
[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 213-218]