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Il Castello del Monte
in Terra di Bari
Studi e pensieri
di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)
XVII.
Tumulti per lo Trono baronale
Allo entrar dell’anno 1690 il Cassinese Pietro del Vecchio Veneziano era nominato vescovo di Andria,
e subito venivasene al governo della sua diocesi. Dove giunto indi a poco, fu suo primo pensiero di scendere in Duomo,
a prender possessione dell’episcopal suo seggio, ed inaugurar con affettuose parole il suo chiesastico primato nel Clero.
Ma messo appena il piede in chiesa, vennegli veduto il trono ducale, che al destro lato dell’altar maggiore sublime elevavasi
di contro al suo. E comunque con grande sforzo ei comprimesse nell’animo la interna passione,
pur tanto non potette celarne che tutti non si accorgessero d’essere egli indignato di quello argomento di feudal dominazione,
che irriverente attentavasi di venire a fronte della chiesastica autorità. E fu peggio indi a poco, quando disceso in Duomo
il duca con tutta sua corte, i suoi ministri, i suoi familiari, i suoi pagi, andossene con gran sussieguo
a prender posto sul suo trono, senza curarsi, o meglio senza pur accorgersi del malanimo che quel suo grandeggiar baronale
induceva nel cuore del permaloso e iracondo veneziano. Il quale di pensiero in pensier valicando per trovar modo opportuno
a far cessare quello scandalo, e tra sé argomentando dovergli essere agevole il persuadere il duca a desistere da quella,
a suo senno, condannevole, e condannata pretensione, si recò in mente il proposito di andarsene l’indomani a fargli visita,
e con blande e cortesi parole indurlo a far togliere dal Duomo l’abborrito trono.
Laonde, scambiate con lui, al cessar delle sacre funzioni, alquante parole di forzata degnazione, fece intendergli
che si sarebber fra breve riveduti, e da lui tolse commiato, andandosene allo Episcopio.
Dimorava in quel tempo il duca Fabrizio nel Castello del Monte in compagnia di molti insigni ospiti del suo parentado,
giunti testé da Napoli a fargli visita; e in quella sera, poco dopo il suo ritorno dalla chiesa, eragli pervenuto un corriere,
apportandogli la fausta nuova, essere stato assunto al supremo seggio ponteficale il suo zio cardinal Carafa Pignatelli,
prendendo nome di Innocenzo XII. E bene può argomentarsi qual gioja ne provasse l’ambizioso signore di Andria,
il qual vedeva crescerne il lustro di sua casa; e quali feste di genial convito, e splendide luminarie vi fosser quella sera al Castromonte.
Delle quali feste e della lor cansa ignaro, partivasi l’indomani da Andria ed al Castello del Monte avviavasi il vescovo Del Vecchio,
con lunga cavalcata di canonici e con codazzo di preti minori. Dove giunto, e venuto in presenza del duca,
fu da costui onorato di splendida accoglienza in ogni modo migliore che portassero i tempi, e il consentisse la sua indomabile alterigia.
Tolto indi argomento dalle cortesi profferte di servigi, e dalle protestazioni di ossequio del duca,
tenne esser quello il tempo opportuno per disvelargli il suo intendimento, ed in tal modo a lui andò favellando.
«Non senza gran pena del mio cuore vid’io, entrando ieri in Duomo, esser Vossignoria Illustrissima al tutto ignara delle gravi discussioni,
e delle severe prescrizioni della Sacra Congregazione dei Riti intorno ai baronali troni, e alle signorili distinzioni,
che per antica barbara costumanza si trovino ancora nelle Chiese cristiane. Credo pertanto mio debito, molto egregio mio signor duca,
di tenerlene ragione, perché Ella faccia discomparire al più presto dal nostro Duomo
quell’incomportevole argomento di non pio animo, e di baronale alterigia nella Chiesa di Gesù Cristo.
La legge del Redentore, Ella ben lo conosce, non ammette distinzione, e scisma non tollera tra’ suoi fedeli,
che tutti uguali proclama nella comunanza delle preci, del perdono, della grazia; né consente le miserabili ambizioni,
e le tapine gare per lo primato, che s’ingenerano nella debilità di molti, nell’arroganza di pochi, nella stoltizia o nella incuria di tutti.
Purtuttavolta, se le avite domestiche glorie, se i prestati servigi alla patria comune, se i grandi uffizi
rimuneratori del merito consentono nella società civile personali e familiari privilegi, onorevoli distinzioni di preminenze,
od altri modi di esteriore supremazia, vanno essi comportati, e non mancano assai delle volte di buoni effetti nel mondo.
Ma essi debbon tacere, e disparire nella casa del Signore, nella quale tutti debbono umiliarsi e prostrarsi nella polvere
innanzi i rappresentanti del Vicario di Cristo, partecipi della sua autorità, organi della vera legge, indici della buona strada,
supremi moderatori delle coscienze dei popoli. Furon coteste, molto illustro signor Duca, le buone,
le sante ragioni che indussero negli anni scorsi la Sacra Congregazione dei Riti a proscrivere del tutto dai tempi del Signore
i baronali troni, e le altre distinzioni di ceto, e di dignità profana. E Vossignoria che ha l’alto onore
di avere un suo zio nel Sacro Collegio dei Cardinali, non vorrà per fermo recare onta alla troppo nota pietà del suo casato,
ricusando obbedienza alle chiesastiche prescrizioni, pervicacemente durando nell’antica condannata usanza di sedere in trono nella Chiesa di Dio.
Egli è per tal fine ch’io qui venni animato dal santo zelo della dignità clericale, a farla avvertita dello errore,
nel quale involontariamente perdura, recandomi agevolmente nell’animo la speranza ch’Ella
vorrà disporre lo atterramento di quel suo trono nel Duomo di Andria.»
Alle quali parole poco circospette, e mal considerate del Veneziano, rispondeva l’iracondo Duca.
«I precetti della Santa Congregazione dei Riti, dei quali Vossignoria Reverendissima ha la degnazione di favellarmi, incontrano,
come ogni altro precetto che provenga dalla chiesastica autorità, grave e insuperabile ostacolo nella autorità del Principe
che tien governo del nostro Stato; il qual Principe tollerar non deve, e non vuole che altri si mescoli
nella cura di reggere a suo senno ed arbitrio le civili condizioni dei suoi popoli. E quando ei ciò volesse tollerare,
e portarselo in pace, certo nol soffrirebbero i suoi baroni che conquistarono da secoli il diritto ormai indubitabile
di godere dei privilegi delle loro Case. Fiami quindi concesso il declinar la giurisdizione che V. S. R. vorrebbe impormi,
e ch’io non mi sento nel debito e molto meno nella volontà di riconoscere. Né me ne impone l’autorità del Sacro Collegio,
del quale ebbe l’onore di far parte l’augusto mio congiunto che già fu Arcivescovo di Napoli;
avvegnacché io sia certo che non men tenero della mia sia quella orrevole corporazione della sua principesca prerogativa.
In quanto poi alle buone c sante ragioni, che mossero, siccome V. S. R. il diceva, la Sacra Congregazione a prescrivere
l’atterramento dei baronali troni, a me sembra (Iddio mel perdoni, e sia con buona licenza di quell’angusto Consesso)
che niente siaci in quella mal condannata usanza di avverso ai precetti del Vangelo di Cristo;
imperocché questi comandava ai suoi discepoli di dare al principe quel che al principe si appartiene,
serbando a Dio quel a Dio si deve; e ben di cotesto vorrà V. S. R. farmi concessione,
essere il barone sul suo trono il rappresentante della regale autorità del suo principe.
Né che veruna cosa siaci di immorale nei nostri troni io vò che mi si obbietti, stanteché quell’argomento,
come Ella dice, di mondana grandezza, la quale pur curva il capo, e piega il ginocchio innanzi la maestà del comune Dio,
eloquentemente dimostri la eguaglianza di tutte le civili condizioni nel fervor delle preci, nelle speranze del perdono, nella comunanza delle grazie celesti.
Singolare poi e per ogni verso arrischiato è quel deprimere ed abbassar che pretendesi la principesca dignità innanzi alla chiesastica. —
Oh chi mai fece grande il clericato, e chi mai di onori e di ricchezze fecelo illustre, se non la immodica,
la inconsulta larghezza dei principi? — Chi elevò que’ vostri troni Episcopali; chi li coperse di oro e di gemme,
chi edificò le vostre Chiese, chi adornò le vostre case, e chi stipendiò, facendovene splendida corte di obbedienti ministri,
quel sì grosso clero minore? Certo men che la pietà e lo zelo dei popoli la intemperante generosità dei principi. —
Eppure sol che le piaccia, molto reverendo Signore, di volger lo sguardo alle sale di questo Castello,
e rammentare chi siane stato il costruttore, le verrà innanzi l’augusta figura del magno Federico, travagliato,
bersagliato e condotto anzi tempo al suo fine dalla ingiusta ingrata e pervicace ira di quei Romani Pontefici,
i quali tanto, anzi tutto dovevano della lor temporale dominazione alle larghezze degli Imperatori, che si dissero, e mai non furon Romani.
Ed oh la bella comparsa che farebbe Ella, Monsignor Reverendissimo, con le improvvide sue ammonizioni
se in queste sale si trovasse a fronte di Federico, e del suo fedel Segretario Pietro delle Vigne?
E che fa Ella mai, Messer lo Vescovo, a rammentar di Evangelici precetti? Chi furono i primi pastori del gregge di Cristo,
se non umili pescatori di Galilea, ai quali dette egli per primo precetto la umiltà e la pazienza? —
Ora il sublime dorato Trono Episcopale, e tutte le prosternazioni ed abbjezioni che compionsi ai suoi piedi;
l’atterrarsi del popolo, lo elevarsi del Vescovo; il primeggiar pomposo di questo, e l’umile strisciargli innanzi
che fa il Clero minore le pajon cose che ben rispondano, Reverendissimo Signore, al precetto evangelico? —
Eh via, che v’ha mala grazia a biasimar negli altri il fallo di che si è guasti e corrotti!
Di questo può Ella esser ben certa che né per preci e consigli, né per minacce od altri argomenti più gravi avverrà mai
ch’io m’induca al compimento di tale atto, che sarebbe onta alla mia casa ducale, spregio solenne dei Baroni del Regno,
ingiuria al Sovrano da noi rappresentato. Sicché lo insistere in ciò trarrebbe a scapito lo episcopato,
genererebbe scandalo nel popolo; e farebbe non grato ma certo illustre il trionfo del laicato sulle non mai sazie pretensioni del Clero.»
«E tra queste mura, e tra le memorie che Ella evocava» venne su gridando il Vescovo «trova Ella Messer lo Duca,
buone ragioni a metter fede nell’ambìto trionfo dell’ambizione baronale? Il maggiore, il più possente,
il più costante nemico della Ponteficale autorità, Federico di Svevia, costruttor di questo Castello,
non fu egli raggiunto nel suo sciagurato ed empio cammino, colpito non fu ed annientato più che dai fulmini del Vaticano,
dalla voce e dal soffio del Romano Pontefice? E pensa Ella che vorrà Roma esitare a punire della sua empietà un barone di Casa Carafa?»
«Ma Roma» esclamò allora, interrompendolo, pien di rabbiosa gioja il Duca, «Roma è a quest’ora conquista di Casa Carafa;
ché quel mio Zio Cardinale, V. S. R. non ne ebbe ancor la nuova, quel mio zio siede ora sul maggior trono del mondo,
epperò le lascio pensare come vorran sapergli inconsulte le minacce che Ella or fa a persona di sua Casa».
Ristette a quell’annunzio l’iracondo Veneziano, e balenogli per ultimo nella mente il pensiero,
che avrebbe forse voluto il nuovo Pontefice comporre quella sconcia contesa, facendo intendere ragione al suo pervicace nipote.
Ma fu quello un lampo; ché, vedendo composto a sogghigno di scherno il volto del suo avversario
«Roma» gli disse «Roma, Messer lo Duca, non appartiene a veruna Casa al mondo; ella è Casa, ella è conquista di Cristo;
ed a punire il maltalento e la empietà dei suoi sudditi, ha potenza che basti il solo Vescovo di Andria. —
Andiamo, andiam fuori di questa Casa» disse poi rivolgendosi ai suoi seguaci «il ministro di Dio vi fu oltraggiato;
ella è casa di perdizione. Tal sia del colpevole, che deplorerà fra breve la cecità della superba sua mente, la empietà del suo tumido capo».
Ed andò via dal Castello.
L’indomani il buon popolo di Andria sapeva della notturna partenza del suo vescovo; sentiva le chiese fulminate di interdetto,
e vedeva per le piazze, e sulle porte del Duomo affissi i cedoloni dell’episcopale anatema.
E poiché dal dolore al furore facilmente trascendono le popolari passioni, corsero nel vescovado i caporioni del popolo,
e fattovi in pezzi il ducal trono, questi recarono in piazza, e vi appiccarono il fuoco.
Ma venne l’arcivescovo di Trani a sedar quel tumulto scandaloso, e tolse lo interdetto, scrivendone subito al Pontefice.
Il quale ammonito severamente il nipote ad esser più riverente alla chiesa ed ai suoi ministri,
tramutò in altra sede il borioso vescovo veneziano, ed un altro ne mandò ad Andria, che con grande onoranza
fu accolto dal popolo, ed in gran pregio fu tenuto dal duca, e da tutta la sua famiglia.
[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 218-228]