di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)
Le storie del regno e le cronache locali non hanno memorie del Castello del Monte dal 1698 per oltre un secolo; sicché il suo antico stato col presente volendo porre in riscontro non so persuadermi come mai abbia potuto quell’edifizio trascorrere a tanta rovina. Ma poi guardando alle tristizie dei tempi, alla incuria degli uomini, ed all’opera distruggitrice degli anni, non una, ma molte ragioni di decadimento mi vengono innanzi.
Di grandi e cospicui uffizi furono rivestiti in corte dei viceré molti signori di casa Carafa, e taluni d’essi pur ci furono, che in Roma, in Madrid, nelle Fiandre, e in Lombardia fecer non brieve dimora. Dal che provenne un lungo abbandono di Andria, e di Castromonte, e fu intrommessa la usanza dello estivo soggiorno, che qui facean que’ baroni. Né quando ai piè di questa collina ebbe luogo la famosa battaglia di Bitonto che diè il regno all’Infante Don Carlo, io trovo abitato questo Castello, né alcuna menzione se ne ha nelle cronache degli anni che seguirono quella allor fausta, e poscia sempre funesta, restaurazione del dominio Spagnuolo in queste regioni. Senonché agevolmente mi lascio andare alla considerazione che pe’ quarantadue anni del governo del Pisano Tanucci, il quale a fiaccar la trasmodante potenza baronale, ingrata ai popoli, minacciosa al principe, tetragona ad ogni ordine civile chiamò in corte i baroni, lunga assenza dovetter fare da Andria que’ di casa Carafa, e dovette però continuar lo abbandono del Castromonte.
E fin da quei tempi, e prima che oltre Alpe ne sorgesse il pensiero, appalesavasi all’alla intelligenza del Tanucci la necessità del percuotere di scure la mala pianta della ragione feudale, surrogandole la benefica coltura della civile eguaglianza; la qual doveva dare indi a poco sì grato frutto di sapienti riforme.
Previdero per sagace istinto i signori dove sarebbero per riuscire que’ nuovi provvedimenti governativi del Toscano moderatore del reame, ma né ebber mente capace, né tempo opportuno, né bastevole forza a cansarne i colpi e prevenirne gli effetti. Correvan quei tempi felici ai sudditi ed al re; le oppressioni vicereali dimenticate, le baronali alleggerite: certa la pace; avventurosa di molta prole la reggia; il vivere abbondante: le opinioni dei reggitori, e del popolo concordi. Piccolo numero di sapienti amanti di patria e di novità era unito al governo: perocché le riforme di Carlo giovavano alle libertà universali, ed il passaggio della monarchia da feudale ad assoluta credevasi ed era età necessaria della vita della nazione.
Lo studio perciò de’ re, l’interesse dei popoli, le speranze dei novatori miravano e correvano al punto istesso. Solamente il clero e i baroni avevano scopo diverso; ma quello mordeva segretamente il freno aspettando opportunità di spezzarlo, questi per turpe ignavia, e vôta superbia si rallegravan dei titoli che largamente il re dispensava, ed intanto impoverivano per ismodato lusso cortigianesco, e scapitavano in potenza lontani dai loro vassalli, non più circondati dai loro armigeri, privi dell’autorità che il viver feudale avea pria ad essi conferita.
E per tal modo casa Carafa, come tante altre del regno, fu tratta a perdita non lieve sì di potenza, e sì di ricchezze. La qual decadenza ognor crescente mutò l’animo dei signori di quella casa e da affettuosi e sinceri amici ch’essi eran dapprima del borbonico principato, divenner poscia avversarî e nemici; quando per le fatali nozze del giovane Ferdinando con l’austriaca arciduchessa M.ª Carolina fu il nostro regno addotto alle più tristi e rovinose condizioni che fosser mai. Né fu allor sola la nobiltà a rimpiangere i passati tempi, e maledire i presenti, ma fu tutto intero il regno, che a mal governo soggetto, ed aperta la mente al nuovo spettacolo della rivoluzion francese, andavasene ogni giorno tentando di cangiar forma di viver politico, meglio che mutar signoria e cangiar dominazione.
E tra’ più cupidi di novità, tra’ più corrivi a cangiar gli ordini governativi borbonici, fu Ettore Carafa conte di Ruvo. Il quale dalla nobile stirpe dei duchi d’Andria primo nato, ed erede della casa, libero per natura, chiuso l’anno 1796 nelle prigioni di S. Elmo, fuggi in Francia, con l’uffìziale che lo custodiva, e poscia ritornò in patria con l’esercito di Championnet, dedito alle armi, ed alle imprese più audaci, spregiator dei pericoli, e di ogni cosa, uomini, numi, vizi, virtù, che fosse intoppo ai suoi disegni, strumento potentissimo di rivoluzione. E quando le mutate sorti della guerra, per breve tempo allo esulante monarca favorevoli, sollevarono le Calabrie e le Puglie contro la recente occupazione francese; vedi quel furibondo e temerario duca di Andria Ettore Carafa, dissimile dal Trojano Ettore difensor di sua patria, accorrere coi repubblicani Napoletani, e coi Francesi del Broussier a punire il maltalento dei suoi Andriani, che avean levate nuovamente le bandiere borboniche contro la forestiera dominazione.
Bovino, Troja, Lucera son domale. Foggia è sottomessa. Barletta, Canosa, Manfredonia son mantenute in fede; Sansevero è ancor nuotante nel sangue ed arsa dalle fiamme; Cerignola accoglie le repubblicane squadre … oh quale orribile tempesta si va appressando alle ribelli mura di Andria. Dove giunti i Francesi, e cinta la città di stretto assedio, trovarono tale ostinata e pervicace resistenza che per fermo far non potevano pensiero di rinvenirvi. Ristorate le vecchie muraglie, allargati i fossi, sbarrate le porte, muniti i bastioni, i cittadini armati; i preti confortatori alla difesa, le donne impavide e incitatrici, schernitori e beffardi i fanciulli. Davvero quel piccolo paese fu allor sublime di eroismo guerriero, e di virtù cittadina; e se una miglior causa avesse presa a favorire, se una men sozza bandiera avesse rizzata all’aria, chi può dire quel che avrebbe prodotto di imprevisti casi quello splendido esempio di furor popolare?
Or la notte che precedette lo assalto dei Francesi, il duca Carafa fu, per segreto messo, invitato a conferenza nel Castello del Monte da taluni dei principali cittadini di Andria, tra’ quali era il suo fedel ragioniere Carlantonio D’Urso. E costoro allorché viderlo giungere nella corte gli furono intorno pregandolo e scongiurandolo ad allontanar dalla patria comune quel flagello di guerra che egli vi aveva condotto. Rammentasse, dicevangli, lo affetto grandissimo, di che per otto secoli avean sempre i signori di Andria gratificata la fedele loro città — pensasse al vitupero che segue il delitto di chi facciasi duce dei nemici della sua patria — questa non avere ormai altra speranza di salute che in lui — essere ciononpertanto risoluta di resistere alla ingiusta aggressione fino agli estremi — e fin dove fosse per trascorrere il furor dei soldati, e la disperazione del popolo non potersi prevedere — un brieve indugio dimandasse al general Broussier, ed essi si confìdavano di far che la terra si rendesse a patti. — I sepolcri dei suoi antenati, le memori lapidi dei benefizi di Casa Carafa, il fonte battesimale nel quale fu egli bambino rigenerato in Cristo, la Cappella nella quale accompagnava la sua virtuosa genitrice nei di festivi … tutto fra le Andriane mura insorgere e fremere contro il suo malvagio proposito. — E se pe’ patiti danni avesse bramosia di esercitare sua vendetta, strada quella non essere per giungere fino all’oppressore … Oh quali calde e fervorose parole furono allor dette, quante preci, e quante lagrime furono sparse! Invano — Risuonaron di gemiti, di pianti, di imprecazioni, di minacce le sale dell’antico Castello; ma le parole di que’ pietosi cittadini non trovaron la via del cuore di quel forsennato giovane, e parvero anzi che ne avesser fatto più saldo e tenace il pensiero, più audace l’animo, più temerario il volere.
L’indomani a mezzo il dì, volgendo decisamente a male lo assalto dei Francesi alle mura della ben munita città, cadutine più che seicento sotto i colpi degli assediati, si vide l’indemoniato duca di Andria farsi innanzi con una lunga scala, e questa alla muraglia appoggiando, salir per primo, ed entrar solo dentro la città, ed aprirne le porte ai Francesi, i quali, accorrendo furibondi alla vendetta, uccisero, saccheggiarono, bruciarono, e tali atti commisero di feroce violenza che ancor ne dura nei vecchi superstiti, e nella nuova generazione la rimembranza, e la tradizion lagrimevole. Ed ohimè qual triste spettacolo di sé avrebbe dato in quel giorno la subbissata Andria a coloro che l’avesser guardata dal Castello del Monte!
Lapidi affisse nell'ingresso del Municipio di Andria, a ricordo dell'avvenimento.
Da quel funesto giorno manca qualunque memoria del Castello. Il quale fu assai delle volte sicuro asilo ai banditi durante il decennio della occupazion Francese — fu non infido ricovero a taluni profughi cittadini perseguitati pe’ fatti del 1820; rimase indi sola rovina dello espropriato patrimonio della ducal Casa di Andria, quando i suoi creditori accorsero a demolire il già crollante edifizio della baronal potenza di quella casa doviziosa. E quando io vi andai nel 1845 a visitarlo, lo trovai abitato da un povero mugnajo, che uscito di fresco dal bagno di Nisida per uxoricidio causato da cuor vilipeso, viveva colassù con la seconda moglie, separato dal mondo, in quella a lui grata solitudine, inconscio dei clamorosi fatti avvenuti in quelle sale. Ed ora durante la notte è albergo di pecore, e di majali; a meriggiana accorron le vacche e i buoi e mettonsi all’ombra di quelle altissime mura, e allo spuntar del giorno le randage rondini, e i stridenti falconetti van roteando intorno alle sommità delle torri, entro le quali han fatto covo i gufi, e i barbagianni.
Ma mio Dio che sperpero di colonnette, e di lastroni di marmo, di massi di lavorato travertino, e di eleganti fregi di porfido e di granito si è fatto, e va facendosi ogni giorno per la più piccola costruzione che abbia luogo in Andria, e in Corato! Pochi altri anni passeranno, e la rovina sarà completa; ma non varran secoli, io penso, a far discomparir la memoria dell’antico Castello di Federico di Svevia.
[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 228-235]