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Acquaforte di Castel del Monte del 1860 circa

Il Castello del Monte
in Terra di Bari

Studi e pensieri

di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)


XIX.
Uno sguardo da Castel del Monte

Ma pria di lasciare il Castello del Monte, pria di abbandonare cotesta inesauribile sorgente di storiche rimembranze, siami concesso di rivolgergli un ultimo sguardo di amore, per lo piacer grande che sempre mi ha dato tutte le volte ch’io mi recai ad interrogarne le nobili rovine.

La sublimità del luogo, l’ampiezza dell’infinito orizzonte, la serenità e la purezza dell’aere, i pittoreschi paesi che qui su vengonmi innanzi, elevan dalla terra il mio animo, accendono la mia fantasia, e dan forza mirabile di retrospezione alla mia mente.

Vedo dapprima passar per lo mare che m’è sotto lo sguardo, le profughe navi del trojano Antenore, il qual vassene nel fondo dell’Adria a dar sede ai primi abitatori di Venezia; quando non è ancor giunto sul Tevere il girovagante Enea progenitor della gente Latina. E per fermo il nuovo mondo, il mondo delle storiche tradizioni, succeduto a quello della vetusta teogonia, più antiche origini non vanta della distruzion di Troja, delle asiatiche colonie che si diffusero lungo le coste dell’Adriatico e del Tirreno, e delle colonie Elleniche, che andarono a popolar le coste dell’Asia minore.

Il tortuoso correr dell’Aufido, le torri di Canosa ed il nome della scomparsa Canne mi riempion la mente di splendide larve, e gloriose fantasime guerriere; e vedo P. Emilio, prodigo di sua grande anima, che ricusa salvarsi per non rimanere accusatore del collega inconsultamente audace; e guardo Annibale rimpiangente i suoi soldati travolti nei gorghi dell’Aufido. Eppure in quella fatale sconfitta che a tanta periclitanza addusse la potenza Romana, ingeneravasi tanta pervicacia di generosa resistenza, che preparò la battaglia di Zama, la distruzion di Cartagine, il primato di Roma, e a Roma le conquiste dell’Orbe.

E Canosa, e Ruvo, e Bari mi lasciano ancor vedere i frammenti della lunga via che tolse nome da Appio, e che giunta a Brindisi, apriva alle romane galere la strada delle conquiste dell’Asia. Per questa strada vedo passare i Romani eserciti che seguiron Mummio alla soggezion della Grecia, che accompagnarono Scipione contro Antioco, Silla contro Mitridate, Cesare contro Pompeo; ed al finir di questa strada, in Brindisi furon segnate le tremende liste di proscrizione che distrussero la Repubblica, spegnendo i più generosi e nobili cittadini, che la volevano incolume e salva.

Il Romano Impero non ha memorie in questa regione, tranne quella della vedova di Germanico, che disbarca in Brindisi stringendo fra le braccia l’urna delle ceneri dell’estinto marito, e questa strada percorre, per andare a presentare al Senato le ultime preci della vittima del malvagio Pisone.

Memorie ha ben qui lo Impero Bizantino che v’ebbe dominazione, e resse queste provincie per governo di catapani; mescolando corruzion greca a latina corruzione, e preparando i trionfi dei barbari.

Vani, astuti, sottili folleggiammo coi Greci di domma, e di etica. — La dignità civile, più che la nazionale autonomia scomparve per lungo correr di anni, e la vana tutela delle persone e degli averi in mezzo a tanta perversità di casi, ed a sì ingorda avidità di barbari dominatori, tempo e spazio non dava a migliorare i costumi, ad erudir le menti, ad onestare e ingentilir gli animi del popolo.

Un’ora men triste surse verso il finir dell’undecimo secolo. Infatti rivolgo ad ostro lo sguardo, ed ecco venirmi innanzi a’ piè del Vulture, la stupenda federazione dei principi Normanni: tra i quali si leva la gigantesca figura di Roberto Guiscardo, che combatte i Greci, i Latini, i Tedeschi, i Saraceni, e muta le condizioni, non che delle Puglie, delle Calabrie e delle Sicilie aprendo il campo alla Normanna dominazione. Fede di religione, lealtà di animo, generosità di cuore, nobile aspirazione a conquiste di ordini civili, sentimento di giustizia con severità di costumi ci recarono i Normanni: i quali fondarono, costituirono, e roborarono quella morale autonomia, che per correr di secoli, e per mutar di dinastie non venne mai meno.

Andria, Barletta, Trani, Corato, e, più che ogni altro luogo ed ogni altro nome, questo Castello del Monte eloquentemente della Sveva dinastia mi ragiona. E da questo Castello, siccome finora il venni narrando, agevolmente non si rammenta della caduta della casa di Svevia, e del sorger di quella di Angioja, dei fasti e delle calamità di questa, e del succedergli di quella d’Aragona. Tripudî di stemperata gioja, affanno e pianto di inesauribil dolore; pace e guerre, vittorie e sconfitte, virtù e vizi, senno e follie, miseria ed opulenza, tutto in questa regione si succede ed alterna; né la umana razza per esperienza insavisce, né le umane passioni per delusione quietano. Francesi, Tedeschi, Spagnuoli si contrastano il dominio di queste terre non per benefizio di civiltà ai popoli, ma per brutale violenza; che denominaron gloria quando fu coronata da fausto successo, e chiamarono fazion da banditi quando succumbette innanzi a forza e violenza maggiore.

Ma oh a quale splendida evocazione di stupende memorie apre il varco della mente questa bella conca marina che m’è dinnanzi. Tralascio quelle delle Romane flotte conquistatrici dello Illirio, dello Epiro, della Pannonia; tralascio le vittorie navali, e la distruzion dei pirati, opera del magno Pompeo; tralascio l’antico mondo, e vengo al nuovo.

Vedo i stupendi trionfi dei Veneti, e le sterminate loro conquiste in Oriente; e vedo le Genovesi flotte che qui vengono a giornata con la regina dell’Adria. Per questo mare passaron le navi dei Crociati cariche delle papali benedizioni, e delle ambiziose speranze dci principi dell’Occidente; e per questo mare ritornarono i profughi soldati della Croce venuti a mala pruova coi seguaci dell’Islam. Vedo indi a poco il figliuolo del Veneto doge Tiepolo sospeso alle forche del Tranese porto, e vedo il vessillo di San Marco sventolar sulle mura di sette città da Trani a Monopoli, date in pegno ai mercatanti di quella possente Repubblica. Per questo mare trascorsero i Veneti Dogi all’assedio di Costantinopoli, alla guerra di Candia, alle conquiste dell’Arcipelago, e per questo mare puranche veleggiaron le fatali antenne che andarono alla sanguinosa battaglia di Lepanto. Ogni porto, ogni Capo, ogni cala di questo torbido mar d’Andria ha le sue reminiscenze, i suoi fasti, le sue glorie; e le tempeste, e le calme delle sue onde fan fede e danno sembianza della instabilità delle sorti dei popoli che vissero, fiorirono, e decaddero lunghesso le sue coste.

Ritorno col pensiero ai piedi del monte, e men vo vagando per la verde pianura che fino al mar si protende, e nuove e portentose visioni vengonmi innanzi. L’antica fede, le antiche condizioni della vita civile dei popoli, l’antico culto delle umane intelligenze, ecco vengono scrollati dalle fondamenta per virtù della novella luce della Ragione rigeneratrice della umana famiglia; che, apportata nell’ultimo occidente, diffonde intorno i suoi benefici raggi, sollevando a novella vita di libertà e di indipendenza gli uomini oppressi dalla barbarie della forza travolta in dritto, delle usurpazioni sanzionate dai pregiudizii, dall’arbitrio passato in condizion di legge suprema. Ma pure a quella sì splendida e benefica luce convien sostenere l’acre conflitto delle tenebre della ignoranza, della tenacità pervicace dei despoti d’ogni maniera, che a spegnere quel novo splendore, ostile al loro interesse, ogni sforzo adoprano.

Né fu se non dopo mezzo un secolo, che libera da’ suoi despoti, e, per impensato benefizio della Provvidenza, congiunta alle sparse membra della gran patria Italiana, poté Napoli godere dello appagamento de’ voti del suo popolo.

Ed era propriamente debito della variabile Fortuna che queste nobili rovine del Castello del Monte, pria di scomparire dalla faccia della terra, esultassero alla vista del compimento del sublime concetto dello Italiano Pier delle Vigne; e quasi uom direbbe, non essere esse finora durate in vita, pugnando per sei secoli audacemente col tempo, se non per mirare cotesto avventurato connubio de’ popoli Italiani.

Ma dove dove mi trasporta questo spettacolo di quanto può di più bello la natura, e di più terribile l’uomo! Oh gli è tempo ormai, che io imponga termine al corso dell’agitata fantasia, e delle storiche rimembranze.

E tu, Castel del Monte, opera d’un de’ maggiori ardimenti del XII Secolo, addio. Se la mia parola è riuscita a ridestar la meraviglia delle tue stupende grandezze, e la pietà delle tue monumentali rovine, io benedirò la mia fatica, e sentirò non averla durata invano.

Avellino, 7 del mattino del 3 dicembre 1861.


[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 235-242]