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da "Il Capitolo Cattedrale di Andria ed i suoi tempi" - Vol. I
di Michele Agresti (1852-1916)
Capo V
(anni 1194-1268)
Caduta la dominazione normanna, a questa successe la Sveva.
Nel 1194 da Arrigo, o, secondo altri, Enrico, a dì 26 dicembre, nacque a Iesi, nelle Marche, Federico II
[1].
Suo padre Arrigo moriva in Messina, a dì 29 settembre 1197, lasciando il piccolo Federico
sotto il baliato di Marqualdo, Grande Siniscalco del Regno, Duca di Ravenna e Marchese di Ancona.
La madre di Federico, Costanza, venendo a morte nell’anno seguente, pensò affilare il suo figlioletto
al baliato del Papa, allora Innocenzo III, onde premunirlo dalle insidie e dalla malvagità di coloro,
che minavano alla rovina del Regno. Di qui nuove discordie, che vennero ad angustiare il Reame.
Marqualdo, non tenendo conto dei diritti di Costanza (ultima erede di Re Ruggiero), nella successione del Reame,
di cui Arrigo, per ragioni della moglie Costanza, ne avea assunto il Dominio, messosi a capo di un formidabile esercito,
irrompe nel Reame; assale il Contado di Molise, S. Germano ed altre terre della Badia di Monte Cassino,
donde, però, ne fu vigorosamente respinto. Ma, fatti proseliti in Puglia, ed unitosi ai Saraceni, dimoranti
ancora in Sicilia, con l’aiuto anche di un tal Diepoldo ed altri Alemanni, portò l’assedio a Palermo.
Il Papa Innocenzo III, forte del suo diritto, e di quello del suo pupillo Federico,
non riuscendo con le buone a dissuadere il Marqualdo dalla insensata pretesa, ricorse anche egli alle armi,
affidandone la direzione ad un suo cugino, il maresciallo Iacopo, uomo di gran mente e valore.
Venuto questi a battaglia col Marqualdo, nella pianura fra Palermo e Monreale, pose in rotta l’esercito nemico,
ed inflisse tale una sconfitta al suo avversario, che, per parecchio, non si seppe di lui più notizia,
costretto a celarsi, per l’obbrobrio, ed a piangere, a casa sua, l’umiliazione subita. …
In premio di tale vittoria, il Maresciallo Iacopo ottenne dal suo cugino, Papa Innocenzo III
(dietro il consenso dei reggenti il regno a nome del piccolo Federico), la Contea di Andria
[2].
Questo avvenimento ci dà anche una prova, per dimostrare come Andria, a quei tempi (1.200),
avea tale rinomanza, da meritare che il Pontefice, in premio di quella grande vittoria,
la donasse al Maresciallo Iacopo, che già era Giustiziere di Puglia e di Terra di Lavoro.
E ciò vale a dimostrare, anche una volta, che Andria non poteva esser stata fondata dai Normanni,
giacché non è presumibile, che, in così breve spazio di tempo (dal 1063 al 1200) poteva esser divenuta
una città di tale importanza, da meritare d’esser data, in premio, a così glorioso personaggio! …
Questo avvenimento ci dà pure argomento a dimostrare, che la sede Vescovile non fu istituita,
come dicono i Bollandisti, dopo il milleducento; come pure ci dà argomento a dimostrare,
che il nostro Capitolo, in quel tempo, avea grande influenza, da meritare la considerazione
di Papa Innocenzo III, il quale, come diremo in seguito, mandava sua lettera al Clero,
al Vescovo ed al popolo di Andria, perché si tenessero fedeli al suo cugino Iacopo,
ed obbedissero al suo legato.
NOTE (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva)
[1]
Riccardo da S. Germano:
Chronicon - Muratori Annali d’Italia. Tom. XXXI sotto l’anno 1194.
[2]
Gesta Innocenti III: Cap. 31-32. Feder. Hurter,
Storia d’Innocenzo III. Tom. I. L. IV,. Muratori,
Rer. Ital. Scriptor. Tom. In.
*
* *
Intanto il Maresciallo Iacopo, ottenuta la
Contea di Andria, si vide nuovamente molestato da Marqualdo,
il quale, tolto il pretesto, che il Conte Gualtieri di Brenna (per aver sposato Albina,
figlia maggiore del defunto Re Tancredi) era venuto nel Reame a vendicare i diritti di sua moglie
sul Principato di Taranto e sulla contea di Lecce (diritti pur riconosciuti da Papa Innocenzo III),
si unì a Gualtieri della Pagliara, (Vescovo di Troia ed Arcivescovo di Palermo, non che Gran Cancelliere
del Regno), per muover guerra al Conte Gualtieri di Brenna ed al Pontefice Innocenzo III,
cui questo Conte Gualtieri erasi unito. Ma il Conte Gualtieri, con un pugno di militi, e tutti valorosi,
nel 1201, venuto alle mani col numeroso esercito nemico, pose in rotta, sotto Capua, Marqualdo
ed il suo alleato Diepoldo; e, nell’anno consecutivo, fornito di maggiori forze dall’Abate Roffredo
di Montecassino e dal Conte Celano, occupò Brindisi, Otranto ed altri luoghi della Contea
di Lecce e del principato di Taranto, cui unironsi molte altre città di Puglia
[3].
Andria dovette certamente accettare ben volentieri il dominio del Conte Gualtieri, e del Pontefice
suo alleato, trovandosi allora sotto la Contea di Iacopo, cugino del Papa.
Intanto Marqualdo e gli Alemanni, capitanati da Diepoldo, non che l’Arcivescovo Gualtieri della Pagliara,
rafforzatisi, nell’Ottobre dell’anno seguente 1202, nuovamente minacciarono il Conte Gualtieri di Brenna,
il quale trovavasi in Barletta col Legato Pontificio, il Cardinal Di Porto. Fu allora, che Papa Innocenzo III
scrisse la lettera, di cui è fatto parola innanzi, al Vescovo, Clero e popolo di Andria, perchè si tenessero
fedeli al suo cugino Iacopo, ed al suo legato Pontificio, il Cardinal Vescovo Di Porto
[4].
I Barlettani, benchè il giorno precedente alla pugna avessero giurato fedeltà al legato Pontificio
ed al Conte Gualtieri, poi, vedendo la esiguità delle forze di costoro, temendo per la loro città,
appena questi erano usciti in campo per la pugna, codardamente chiusero loro dietro le porte,
perchè più non rientrassero nella città! … Ma, per quanto di ciò ne fosse scorato il legato Pontificio,
uomo assai timido, per altrettanto ne prese maggior coraggio il valoroso Conte Gualtieri di Brenna,
il quale, chiesta al Cardinal legato I' assoluzione, con la remissione dei suoi peccati, invocando
ad alta voce il nome di Dio e l’aiuto di S. Pietro, coraggiosamente si spinse nella pugna,
mettendo in fuga i suoi avversari, dei quali molti caddero prigionieri, non pochi uccisi,
ed una gran parte affogata nelle paludi e negli stagni vicini
[5].
Al dire degli
scrittori contemporanei, molti attestavano di aver veduto, in quella mischia,
una croce di oro fulgentissimo, che miracolosamente precedeva il Conte Gualtieri:
Videbant enim plerique crucem auream splendidissimam ante Comitem miraculose deferri
[6].
Non sappiamo se Andria si fosse mantenuta, in questo frattempo, fedele al suo Conte Jacopo e, per conseguenza, al Conte Gualtieri.
Il Durso, nella storia d’Andria, ci assicura di sì, asserendo che
si mantenne questa città sotto
tal governo (del Conte Gualtieri e di Iacopo),
che può dirsi Papale, sino al 1221
[7].
Noi, però, opiniamo diversamente; e la nostra opinione vien confortata dall’autorità del Muratori,
il quale attinse le sue notizie dalle
gesta di Innocenzo III, riportate nella collezione
delle vite dei Romani Pontefici, dove si narra, che Diepoldo, ad onta che fosse stata fiaccata
la baldanza degli Alemanni, per quella sconfitta, e che Marqualdo fosse morto,
e che l’arcivescovo Gualtieri della Pagliara si fosse riconcigliato col Papa, purtuttavia
ebbe l’audacia di tornare a turbare la Puglia, facendo proseliti in suo favore; e che, perciò,
Innocenzo III avesse inviato in aiuto del Conte Gualtieri, il Maresciallo Iacobo,
affidando ad entrambi il governo della Puglia e della Campania, a condizione, però,
che il conte Gualtieri avesse aiutato il cugino Jacopo
a ricuperare la Contea di Andria,
comprendendo in essa Montepeloso, che pur faceva parte di essa, e coll’aggiungervi la
Rocca di Barletta
[8].
Dunque Andria non si mantenne fedele al suo Conte lacopo e, per conseguenza, al Conte Gualtieri.
E di fatti, al dire anche del Capecelatro, nell’anno 1204, Iacopo impadronissi
anche di Minervino e,
domata Andria,
riacquistò la sua contea
[9].
NOTE
[3]
Gesta Innocenti III: N.30. - Hurter, Tom. I. L. V, pag. 446.
[4]
Il Durso, nella sua storia d’Andria, dice, che questa lettera trovavasi registrata nel Catalogo
di questo Archivio Capitolare, e segnata anche al volume 2. dell’Epistolario d’Innocenzo III.
A causa dell’incendio, subito dal nostro Archivio nel 1799, quella lettera, forse, andò distrutta
come tanti altri preziosi documenti. Però trovasi segnata nell’Epistolario d’Innocenzo III.
[5]
Hurter,
Storia d’Innocenzo III, Tom. I, lib. VI. pag. 491-
Chron Fossae Novae …
Vitae Pontif. Roman:
Cartinalis de Aragona et alior: in Muratori:
Rer. Italic, Tom, III Par, I, pag. 498.
[7]
Durso,
Storia d’Andria, pag. 62.
[8]
Muratori,
Rer. Ital. Script. Tom. III; part. I, Cap. 37 pag. 493; riportato dalle
vitae Pont Rom.
Gesta Innocentii III.
[9]
Capecelatro -
Storia di Napoli, L. V.
*
* *
Intanto, morto il Conte Gualtieri, e, sedate le discordie, suscitate da Diepoldo e da altri fedifraghi,
i quali avevano chiamato in loro soccorso l’Imperatore Ottone IV d’Alemagna, per togliere il regno
al giovane Federico II Barbarossa, questo, protetto da Papa Innocenzo III, cinse la corona imperiale
d’Alemagna (tolta, per opera del medesimo Papa, ad Ottone IV), e quella del Reame di Sicilia.
Ottenuta Federico II Barbarossa la corona imperiale d’Alemagna e quella reale di Sicilia, poco dopo moriva
Papa Innocenzo III, cui successe, nel 1216, Onorio III.
In quel tempo aveva luogo la Sesta Crociata, per liberare il Gran Sepolcro di Cristo e la Terra Santa
dai seguaci di Maometto. Papa Onorio III, tutto intento ad esortare i Principi Cristiani a quel grande conquisto,
credette aver trovato, nell’Imperatore Federico, il più valido rivendicatore di quei santi luoghi.
Ma s’ingannò. Intanto, a meglio invogliare il giovine Imperatore in quella Santa impresa, Papa Onorio
pensò di fargli contrarre nuovo matrimonio (essendo già morta a Federico la prima moglie Costanza d’Aragona)
con Iolanda (figlia di Giovanni di Brena, Re di Gerusalemme), la quale portava, in dote, il diritto
sul Reame di Gerusalemme, che aveva per retaggio della madre Maria di Monferrato, diritto,
però, che doveva riscattare dalle mani di Re Saladino
[10].
Contratto il matrimonio, più volte Federico aveva giurato al Papa di recarsi in Terra Santa; ma, ora con un pretesto,
ed ora con un altro, non mantenne mai il suo giuramento, tenendo sempre a bada il Papa, col mantenere un grosso esercito,
pronto a partire per Terra Santa, quando la salute glielo avesse consentito ! …
Ma Onorio, annoiato di questa condotta di Federico, finalmente s’indusse a minacciargli la scomunica,
se fino al 1227 non si fosse deciso recarsi in Palestina, a compiere la giurata promessa. Federico,
nell’agosto di quell’anno, realmente, in compagnia di sua moglie Iolanda, si recò a Brindisi,
dove eransi riuniti tutti i Crociati, in numero di quarantadue mila, per far vela nella Siria, nel dì sacro a Maria Assunta in Cielo
[11].
Sopraggiunta però una forte moria nell’esercito, Federico si finse ancor lui colpito da quel morbo,
e tosto fece ritorno a Brindisi con i suoi armigeri.
NOTE
[10]
Questo matrimonio fu celebrato nell’anno 1225; e, da quell’epoca, cominciò ad unirsi
ai Monarchi delle due Sicilie il titolo onorifico di
Re di Gerusalemme.
[11]
Riccardo da S. Germano:
Chronicon: pag. 216.
*
* *
Papa Gregorio IX, succeduto ad Onorio III, in quel medesimo anno 1227, riputando esser nata quella sospensione
da segreti accordi col Sultano d’Egitto, a dì 26 settembre, da Anagni, gl’inflisse solenne scomunica,
rinnovandola il 19 novembre di quel medesimo anno, dandone avviso, con lettere pontificie,
a tutta la cristianità. Scosso Federico da quella scomunica, e, più che la scomunica, dal timore di vedersi
mancare l’obbedienza dei suoi vassalli, promise al Papa di adempiere la promessa nell’anno seguente.
Difatti, per la Pasqua di quell’anno (1228), convocò in Barletta i Grandi ufficiali dello Stato, molti Prelati
e Baroni del Regno; ma, passando per Andria, nel recarsi a Barletta, Iolanda, sua moglie, dette alla luce un figlio,
che chiamò Corrado, lasciandovi sventuratamente la vita, dopo dieci giorni da quel parto. La sua salma
fu tumulata nella nostra Cattedrale, e propriamente nella
Cripta, della quale, innanzi, è fatta parola
[12].
Intanto, ad onta della sventura patita [per la morte di Iolanda], Federico non mancò recarsi all’indetto
parlamento in Barletta, dove fu deciso di recarsi in Terra Santa. E Federico, ben volentieri, s’indusse
a quel viaggio; però, non per fare gl’interessi del Papa e della cristianità, ma per fare
i suoi interessi,
avendo avuto notizia dalla Siria della morte del Sultano di Damasco, in guerra, allora, con quello d’Egitto.
Difatti, con 20 galee, fece vela da Otranto per Terra Santa. Ma Papa Gregorio, avuto contezza dello scopo
di quella gita, fecegli conoscere di non recarsi in Terra Santa, se prima non avesse chiesto ed ottenuto
l’assoluzione dalle censure, nelle quali era incorso, e se non avesse tenuto il giuramento, di recarsi,
con numeroso e ben agguerrito esercito, a liberare dalle mani dei Maomettani quei luoghi santi
[13].
Ma Federico, non dando retta al Papa, si recò nel Peloponeso, ove cercò accordarsi con alcuni nobili Cipriotti,
per muovere guerra a Filippo, Signore di Barutti e Balio del Reame di Cipro, spettante ai minorenni Arrigo e Bagliano
[14].
Indi, recatosi in Terra Santa, dopo una sanguinosa guerra coi Musulmani, Federico si accordò col Sultano,
stabilendo una tregua di dieci anni, con la quale veniva stabilito, di cedersi a Federico gran parte del regno
di Gerusalemme, concedendo egli, però, la liberazione dei prigionieri e la conservazione delle Moschee,
non che la custodia del S. Sepolcro di Cristo ai Musulmani.
Stabilita tale convenzione, il dì 18 Marzo di quell’anno 1229, Federico recavasi al Tempio di Gerusalemme,
per esser incoronato Imperatore. Se non che, con sua grande sorpresa, trovò quel Tempio interdetto,
per ordine del Papa, e tutti gli ecclesiastici assenti, per non assistere a quella sacrilega incoronazione.
Ma Federico, audace qual era, con le proprie mani, pose sul suo capo la corona imperiale
[15].
NOTE
[12]
Item:
Chronicon: sotto l’anno MCCXXVIII. Muratori: ann. 1228. È opinione di alcuni scrittori che Corrado
fosse nato nel Castello del Monte, ed ivi fosse morta pure sua madre Iolanda, tumulata
nella Cattedrale di Andria, (Matteo Camera - Gregorovius, Castel del Monte, pag. 310).
[13]
Corio;
Storia di Milano.
[14]
Capecelatro:
Storia di Napoli, Lib. II: pag. 109 (riportato dal Corio nella
Storia di Milano, e dal Bossio nella storia dei Cavalieri di Redi).
[15]
Riccardo da S. Germano,
Chronicon.
*
* *
Tornato in Italia, trovò il Reame in rivolta, per la guerra atroce, onde si dilaniavano
Guelfi e Ghibellini,
questi sostenendo le parti dell’Imperatore, guidati da Rainaldo, Duca di Spoleto (lasciato qual suo Balio
e Vicario da Federico, nella partenza in oriente), quelli sostenendo le parti del Papa, guidati da Giovanni di Brenna,
suocero dell’Imperatore Federico ed alleato del Papa
[16].
Onde, appena giunto in Italia, Federico dovè prendere le armi, per muovere contro il suocero, Giovanni di Brenna,
il quale, unitamente ai due Cardinali Legati, con le milizie Pontificie, avea stretto d’assedio Cajazzo
[17].
Mentre, però, moveva Federico in Terra di Lavoro, contro il suocero ed i due Cardinali Legati, nell’Agosto del 1230,
per opera di buoni consiglieri, e specialmente di Ermanno Saltza, Gran Maestro dei Cavalieri Teutonici
[18].
cui Federico dovè l’aver avuto in moglie la defunta Iolanda, si riuscì a farlo riconciliare col Papa,
nella città di S. Germano. Onde quella concordia fu detta:
pace di S. Germano.
Nella universale ribellione delle città di Puglia, Andria sola aprì le porte della città a Federico, inviando
cinque nobili giovani andriesi ad incontrarlo, recitando al suo indirizzo i seguenti esametri:
«Rex felix, Federice, veni, dux noster amatus»,
«Est tuus adventus nobis super omnia gratus»,
«Obses quinque tene, nostri signamine amoris»;
«Esse tecum volumus omnibus diebus et horis».
L’imperatore, poeta, a sdebitarsi di questo attestato di fedeltà e di amore, dopo d’aver concesso molti privilegi
alla nostra città, volle regalarla dei seguenti tre versi esametri, che furon poi scolpiti su d’una lapide,
il primo dei quali, a perpetuarne la memoria, fu fatto incidere su una delle porte della città,
quella, cioè, detta di S. Andrea: Ecco i versi:
«Andria fidelis nostris affixa medullis,
«Absit, quod Federicus sit tui muneris iners;
«Andria vale felix, omnisque gravaminis expers».
Andria, più d’ogni città di Puglia, fu amata da Federico, e ne riportò da lui grandi vantaggi, essendo stata esonerata
da ogni peso fiscale, dai dazii, e da qualsiasi imposizione, come viene indicato dal terzo esametro :
omnisque gravaminis expers. Perciò Andria si mantenne sempre fedele alla casa Sveva ed al partito Ghibellino.
E Federico amò talmente Andria, che, nella comune ribellione delle altre città, l’additava come esemplare di fedeltà.
Difatti, quando cinse d’assedio Benevento, a lui ribellatasi, dopo averla soggiogata, ne faceva a quella città amaro rimprovero,
innalzando un inno alla nostra città, e confermando ad essa i concessi privilegi.
«Andria tua soror (a Benevento) multo te prudentius egit;
«Ad nos quae venit, cum nobis poemate legit.
«Propterea incolumis permansit, inultaque nobis,
«Quod tibi numquam erit in multis implicita globis».
Tornato intanto Federico in Italia, passa il resto di sua vita fra le contese con i Pontefici Romani
e con le altre città della media ed alta Italia, che gli si ribellarono contro, per sostenere le parti del Papa;
Più volte fu scomunicato da Papa Gregorio IX, da Celestino IV e da Innocenzo IV.
Federico morì improvvisamente a dì 13 dicembre del 1250, nel castello di Ferentino, presso Lucera.
Alcuni storici hanno scritto, che fosse stato soffocato dal figlio suo
bastardo Manfredi;
altri lo negano, attribuendo tale calunnia ai Guelfi
[19].
Se prima di morire fossesi conciliato col Papa, ed assolto dalle censure, non è ben conosciuto.
Molti scrittori affermano che fosse morto con sentimenti anticristiani. Il famoso giureconsulto Andrea d’Isernia,
scrive che, per le sue pessime qualità morali e per la guerra fatta a Dio ed alla Religione,
Federico requiescit in pice e non in pace! …
Egli fu di pessimi costumi! La sua corte era un Harem; eunuchi regii e nostrali custodivano sua moglie;
teneva concubine e mamelucchi; menava vita da vero epicureo.
Però a lui devesi se nel Regno delle due Sicilie, già ben ordinato dai Normanni, avesse avuto consistenza lo Stato,
nel senso come oggi l’intendiamo, impedendo che si fossero formati dei grandi Comuni,
come quelli che si erano levati a Repubblica in Lombardia. Federico II fe’ pure risorgere la letteratura italiana;
mise in fiore la poesia e la filosofia; fondò la Università di Napoli, sollevò la scuola medica di Salerno;
istituì un’accademia poetica a Palermo, dove egli stesso ed i suoi figli, Enzo e Manfredi, prendevan parte.
Conosceva molte lingue, quali la latina, il francese, il greco, il tedesco, il saracino ed il nostro volgare.
Scrisse, oltre alle tante poesie latine, anche qualche poesia Italiana. A Federico II son dovuti il ponte Volturno,
le torri di Montecassino, i colli di Gaeta, di Capua, di Sant’Erasmo, la città Monteleone ed altri forti e villaggi.
Di là dal Faro restaurò Antea, Eraclia; fondò i forti di Lilibeo, di Nicosia, di Girgenti.
NOTE
[16]
I
Guelfi, seguaci del Papa, portavano, come loro distintivo, le due simboliche chiavi sulla spalla;
i
Ghibellini, seguaci dell’Imperatore, portavano il distintivo della Croce.
[17]
Collenuccio:
Storia del Regno di Napoli: Lib. IV; pag. 52.
[18]
Cavalieri Teutonici erano quei nobili signori, che prestavano la loro opera a vantaggio dei pellegrini,
che recavansi in
Terra Santa, dove erasi fondato l’ordine
Teutonico, costituito da frati e preti
tedeschi,
stabilitisi in Gerusalemme, alla custodia del S. Sepolcro di Cristo. Quest’ordine
Teutonico
fu approvato da Papa Celestino III, con Bolla del 22 febbraio 2191. Prima però dell’ordine
Teutonico,
furono istituiti in Gerusalemme gli ordini militari dei
Fratelli ospitalieri di S. Giovanni,
e dei
Templari, che servivano di scorta e di ospizio ai pellegrini, che recavansi in Terra Santa.
Secondo narra Guglielmo di Tiro (Willelm Tyrensis,
Histor: Lib: XVIII, 935, apud Borgas)
alcuni mercatanti Amalfitani avendo ottenuto il permesso dal Califfo d’Egitto, che dominava allora
in Palestina, edificarono nel 1048, in Gerusalemme, un ospizio pei pellegrini, con un Monistero,
che poi fu detto di
S. Maria della Latina, quando passò ai Benedettini (ed un Benedettino,
Fr: Gherardo, fu poi il fondatore dell’ordine degli
Ospidalieri di S. Giovanni).
Sul cadere del XI secolo poi, dopo la conquista di Gerusalemme, Goffredo di Buglione dette
il primo ordinamento militare a quest’ordine degli
Ospidalieri. L’ordine dei
Templari
prese il nome dalla prima casa fondata presso il Tempio di Gerusalemme. Esso fu istituito nel 1119,
e riconosciuto da Papa Onorio II nel Concilio di Troyes nel 1128 (
Labbe: Concil. Tom. XII, pag. 1374).
In queste case degli
Ospidalieri e dei
Templari i combattenti in Palestina erano forniti di armi,
di vettovaglie e di ogni altro soccorso dai Fratelli professi, destinati a raccogliere le largizioni
dei ricchi e le oblazioni dei poveri (Paolant - Paoli:
origine dell’ordine Gerosolitano
Cap. VI. pag, 9 e 13: Cap. X, pag. 9, Cap. XIV, Cap. XVIII, 33). Molte case filiane di questi ordini
furono poscia istituite lungo il littorale, e, specialmente nella Puglia, dove molti pellegrini
convenivano per dirigersi in Terra Santa.
Anche Andria ebbe queste case degli
Ospidalieri e dei
Templari, i quali, al dire dello storico Durso
(
Storia d’Andria, pag. 70)
nelle discordie tra Federico e la S. Sede si erano portati
in Gerusalemme per ordine del loro Gran Maestro.
L’ordine dei
Templari fu distrutto da Papa Clemente X nel 1312.
Ai
Templari successero, in Andria, i
teutonici, occupando il convento lasciato dai
templari.
Al dire del medesimo Durso, i
Teutonici in Andria ebbero a loro protettore S. Leonardo, cui intitolarono
un altare ed una campana nella loro Chiesa. Il territorio, messo alle falde del Castello del Monte,
denominato S. Leonardo, secondo il medesimo Durso, si apparteneva a questi
Teutonici, ora proprietà
del Principe d’Angri, di Casa Doria. Detto convento era sito accanto alla Chiesa di S. Agostino,
occupata nel 1387 dagli Agostiniani calzati. La esistenza dei
Teutonici in Andria è documentata da una lapide,
rinvenuta in una delle cisterne di quel convento, che porta incisi questi versi:
«Belligerus ordo Deo haec construxit templa sacrata:
«Inque aegris curam struxit et ille Domum,
«His deinde pulsis, pietas suprema Dinastae
«Fratribus Eremi haec ipsa colenda dedit,
«Ut fidei nitor, et sanctae observantia legis
«Acresceret, ac staret Principis altus amor.
Un altro convento dei
Teutonici esisteva presso la città di Terlizzi, dove oggi si venera la
Madonna di Sovereto.
L’ordine
Teutonico ottenne in Puglia molti beni, per concessione di Papa Onorio III,
e dell’Imperatore Federico II di Svevia. Le varie case e
Commende di quest’ordine dipendevano
da un
Vice Maestro, che era pure
grande Percettore dei redditi (Giuseppe Del Giudice,
Codic. di diplomazia del regno di Carlo I e II d’Angiò. Vol. II, pag. 96, in nota -
Bartol. Capasso,
Hist. diplom. Regni Sicil.). Col cessare delle Crociate e dei pellegrinaggi in
terra Santa,
si vennero man mano spegnendo gli ospizii ed ospedali dei
PP. Premonstratensi dl S. Samuele,
di S. Eligio, di S. Basilio ed altri (
Reg. Aug., 1313 A. fol. 114). Sopravvissero gli ordini dei
Pellegrini
e dei
Cavalieri di S. Lazzaro Gerosolimitano, fondato nella prima metà del secolo XIII.
[19]
Ved. Ricc. Malaspini,
Istor. Fiorentin. Cap. 143.
*
* *
Che Federico II avesse avuto poi gran predilezione per Andria, ce lo dimostrano
le sue opere, quivi compiute. Il famoso Castello del Monte
[20],
una volta antica rocca, adibita dai Gentili a monumento sepolcrale, e poscia dai Greci, dai Saraceni,
dai Longobardi e dai Normanni ridotta a fortezza, fu, da Federico, tramutata in una munificentissima Reggia,
che forma ancora l’ammirazione del mondo intero, e dove Egli faceva sua principal residenza.
CASTEL DEL MONTE
In questo Castello Federico II trovava il suo ristoro nelle penose lotte politiche,
dilettandosi nel comporre versi, e nella cacciagione del falcone. Qui, in Andria, nel 1249,
solennizó il matrimonio d’una sua figlia bastarda con Tommaso d’Aquino, Conte della Cerra
(Capecelatro, Storia di Napoli, Parte II, pag. 300).
In Andria lasciava il deposito delle due Imperatrici mogli, Iolanda (morta in Andria nel 1228),
ed Isabella (morta in Foggia nel 1241, e fatta trasportare in Andria), dando loro onorata sepoltura
nella nostra Chiesa Cattedrale e, propriamente, nel soccorpo di detta Chiesa, dove trovasi l’antica Cripta,
di cui abbiamo fatto innanzi parola.
In quel sacro luogo furono costruite due munificentissimi Mausolei, l’uno accanto all’altro,
rimasti sino al 1904, negletti, per colpevole ignavia dei nostri predecessori, che avean tramutata quella Cripta
in Ossario, lasciando perire quei preziosi monumenti d’arte fra le macerie ed ossa umane! …
Al dire del Durso, a Federico II devesi pure la istituzione in Andria dei due Conventi francescani,
quello cioè dei Minori osservanti, nella Chiesa detta di
S. Maria Vetere, e l’altro dei Conventuali,
nella Chiesa di S. Francesco. Avendo, difatti, Federico conosciuto personalmente il Grande Frate d’Assisi,
e sperimentata in Bari la sua grande santità, specialmente per la castità e povertà eroica,
ne permise la sua istituzione in Andria
[21].
Che, veramente, sotto il dominio del Barbarossa fosse stato iniziato il Convento di S. Francesco in Andria,
si rileva da una lapide, messa su d’una porta di quel Monastero, dove leggesi questo inciso:
Hoc opus factum est in anno Domini 1230. A Federico II Barbarossa devesi pure la fondazione in Andria del Monastero
di S. Agostino, dove istituì uno degli ordini militari religiosi (
i Templari), dotandolo di alcuni beni
[22].
Sotto il governo di Federico II, i frati, difatti, ebbero grande importanza nel medio evo, adoperandosi essi,
coll’umiltà, coll’austerità d’una vita penitente, a mettere pace fra tante riotte.
E fu in quel tempo che fiorirono S. Francesco d’Assisi, S. Domenico Gusman, S. Antonio di Padova, ed altri santi religiosi.
Che, se Federico II tanto osteggiò e resistette ai Papi, fu poi uno dei più accaniti persecutori degli eretici, che allora infestavano l’Italia.
Alla sua incoronazione in Roma, Federico li fulminò di pene temporali. A Padova promulgò pure quattro editti contro gli eretici,
ordinando, che
i nemici della fede fossero passati a fil di spada. Ivi tolse in protezione gl’inquisitori
[23],
ed ordinò che i Vescovi dessero alle fiamme, o, se meglio loro sembrasse,
strappino ad essi (agli eretici)
la lingua.
Nelle costituzioni del regno di Sicilia pose leggi severissime contro i Patarini
[24],
deputando il Vescovo di Reggio e Riccardo di Principato, suo maresciallo, di mandare a morte quanti eretici cogliessero,
e impedendo che i Patarini si propagassero nell’Italia meridionale.
NOTE
[20]
Questo impareggiabile Castello poggia su d’uno dei più alti monti delle
Murge,
qual superbo gigante fra le verdeggianti sterminate pianure di Puglia, facendosi ammirare sin dalle sponde
del mare Adriatico. Il
Gregorovius, con frase poetica, lo chiamò «Corona delle Puglie».
Questo Castello ha forma ottagonale, ogni angolo del quale vien serrato da una rotonda torre mozza,
formata da sei angoli ciascuna. Queste torri son costruite di pietre quadrate, avendo ciascuna torre
la larghezza di oltre dodici palmi. In ciascuna di queste torri si scorgono varie balestriere,
simmetricamente disposte, che servivano per difesa e per dar luce alle scale ed ai camerini.
La porta principale del Castello, ad arco acuto, guarda l’oriente, ed è costruita in marmo,
sorretta da due bellissimi Leoni, stemma di Casa Sveva, ed ornata di colonne di marmo rosso,
che sostengono il magnifico cornicione a forma di piramide. Un vasto cortile, anche ottagonale,
si presenta all’ingresso di quel Castello, dando accesso ad otto grandiose stanze, a pian terreno,
avendo ciascuna quattro grandi colonne di marmo ai suoi lati, sormontate da artistici capitelli,
d’ordine corintio, che fan capo anche a quattro archi maestosi, che sostengono le volte.
Otto grandiosi finestroni, quattro sporgenti sul cortile interno e quattro all’esterno del Castello,
danno abbondante luce a quelle otto grandiose sale, dalle quali si accede a sei altri salotti,
sormontati da artistiche cupolette.
Il piano superiore poi, a cui si accede per due snelle e commode scale a chiocciola, chiuse fra due torri,
egualmente munite di
balestriere, è formato pure di otto stanze, eguali a quelle del piano inferiore,
avendo, invece, ogni stanza dodeci colonne di marmo bianco, poggianti ogni tre di esse su d’un medesimo piede,
e sormontate da un medesimo capitello, cui fan capo gli archi, che sostengono le volte.
Ciascuna di queste stanze ha due simmetriche porte, per le quali si passa alle stanze adiacenti
ed a sei altri camerini ben decorati. Delle otto stanze di questo piano superiore,
quattro hanno le finestre sporgenti sul cortile, e quattro all’esterno del castello,
site fra una torre e l’altra; quelle però, che guardano l’oriente ed il settentrione
sono più grandi di quelle che guardano il ponente e mezzogiorno. Sulla terrazza di detto Castello,
alla quale si accede per quattro scale a chiocciola, messa ciascuna in quattro (delle otto torri che I‘adornano)
si ammirano quattro cisterne pensili, mentre le altre quattro torri servivano per ricetto ai falconieri
ed agli armigeri, avendo quattro sottostanti ricovi per i falconi. Le finestre, le porte,
le pareti interne delle stanze, a quei tempi, eran tutte rivestite di finissimo marmo, ora scomparso
per opera di vandali mariuoli! … Le linee architettoniche poi son tutte di una purezza e semplicità
veramente classica, da potersi paragonare alle costruzioni dell’epoca del Rinascimento.
Non si conosce l’architetto di questo prezioso monumento d’arte. Al dire dell’erudito Giuseppe Del Giudice,
questo Castello par che fosse stato costruito nel 1240, e forse su disegno dello stesso Imperatore Federico
(Giuseppe Del giudice:
La famiglia di Re Manfredi). Il
Gregorovius dice che,
se l’autore di quel Castello fosse conosciuto, avrebbe avuta, per questa sola opera, il dritto alla immortalità
(
Nelle Puglie: Castello del Monte). Il Settembrini (
Storia della letteratura italiana: V. I)
dice essere il Castello del Monte opera di stupenda architettura, di cui
non si trova il simile in tutta Europa in quel secolo decimoterzo e nel seguente.
In quel Castello, dove il lusso Orientale, il sorriso dell’arte, e della natura, tanti soavi affetti avean suscitati,
finì la vita
Pier delle Vigne, il fido consigliere di Federico II, quando, avendo cercato d’avvelenare
il suo amico Re, fu da questi fatto abbacinare e chiudere in una prigione, dove si tolse la vita,
dando di capo in una colonna di pietra della prigione! …
Questo Castello fu poscia, da Carlo d’Angiò, adibito a rocca ben munita, nella quale furono rinchiusi prigionieri
gl’innocenti figlioletti di Manfredi, Enrico, Federico ed Enzo, quando il loro genitore perdè la vita a Benevento
(Capecelatro:
Storia del regno di Napoli: Lib: VII). Il medesimo Re Carlo d’Angiò poscia aggregò
il Castello del Monte con la città di Andria alla signoria dell’
Onore di Monte S. Angelo, che,
col Principato di Salerno, fu concesso al suo primogenito Carlo
(Forges Davanzati: nel diploma dell’11 giugno 1271 in Reg. 1271 A. fol: 232; pag. XXXVIII).
Questo medesimo Castello poscia passò ai Duchi di Andria, i Del Balzo, e finalmente alla famiglia Carafa.
Negli ultimi sconvolgimenti politici del 1859 quel
mondiale monumento fu ridotto a vile obituro di pecore,
che pascolavano sui monti delle Murge, ed a spelonca di ladroni, dove i banditi politici prendevano loro rifugio. …
Ora, per opera del Municipio di Andria, e col concorso del Governo, quel Castello fu in qualche modo riparato,
ed è mantenuto sotto custodia. Però nulla vi esiste dei preziosi marmi che l’adornavano, dei porfidi, degli arazzi,
e di tutti quei tesori, che il gusto orientale del Barbarossa aveva ivi raccolti. …
Colonne smussate, vasche spezzate, scalini infranti dimostrano al visitatore il vandalismo e le ruberie,
da cui fu invaso quel famoso Castello! … Le finestre, le grondaje, ingombre di vilucchi ad altre erbacce;
i cornicioni screpolati, le sale, un dì rabescate di arazzi e messe in regio addobbo, ora nude,
e tappezzate di ragnateli, sotto le cui volte si annida l’upupa ed il pipistrello! …
Onde, nel visitare quel Castello il famoso poeta Regaldi, improvvisò la seguente ottava:
Fra le macerie dell’antico fasto
lo venni in loco d’ogni luce muto,
E chiesi al cener ch’era ivi rimasto
Per quale man fosse il Castel venuto,
La bocca sollevò dal fiero pasto
Degli anni il tempo, e scosse il crin canuto,
Poi disse: Formò il castel gagliardo
Colla magica verga il fier Bailardo.
[21]
Durso,
Storia d’Andria, pag. 72-73.
[22]
Da una memoria dell’avv, Tommaso M. De Liso, del 10 Marzo 1792, in difesa del Monastero di S. Agostino
(Archivio Capitolare -
Libro delle cause ecc.). Questo Monastero, abolito l’ordine
teutonico
(succeduto ai
Templari), andò devoluto agli antichi dinasti di Andria, che lo cedettero
poscia agli Agostiniani, restando, però, sotto la immediata protezione dei Dinasti e del Sovrani del Regno,
che ne esercitavano il
giuspatronato. E perciò che su quel fabricato si vedono gli stemmi degli
Svevi,
degli
Angioini, degli
Aragonesi e dei
dinasti di Andria (i Del Balzo ed i Carafa).
[23]
Troppo si è parlato, e sempre si parla e sparla della Santa Inquisizione da chi non conosce la storia vera di tale istituzione.
La Chiesa, madre amorosa, che
non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva, non mancò mai,
lungo il corso dei secoli, di richiamare alla vera credenza gli erasiarchi, i quali si facevano pur predicatori
d’una stretta morale, e per conquistare proseliti, ostentavano maggiore austerità, semplicità evangelica,
e grande carità nel soccorrere e nell’istruire! … Nuove disposizioni essa ordinò per mettere in guardia
i fedeli dall’eresia, ed istruirli nella vera conoscenza dei domini. Fra l’altro Innocenzo III, nel concilio Lateranense,
ordinò che ogni Chiesa avesse il suo teologo, per spianare al Clero ed al popolo i dogmi ed i precetti:
nuove devozioni s’introdussero; gli ordini monastici e gli ecclesiastici furono sottomessi a più rigorosa disciplina.
Ma gli eretici, non solamente raddoppiavano le loro armi, per combattere la fede, ma si rendevano autori di ogni delitto,
minacciando le basi della società medesima. La Chiesa, sgomenta, chiamò allora in aiuto il braccio secolare,
istituendo una corte marziale, un giudizio statario. E sembrandole la eresia giustiziabile, come gli altri delitti,
agli orrori della impostura furono contrapposti gli orrori del rogo. E fu allora che i Sovrani, seguaci veri della Croce,
pubblicarono leggi contro gli eretici, i quali venivano con diversa misura puniti; di rado colla morte,
perché vi ed opponevano i Pontefici ed i Vescovi. Il giudizio poi si costituiva di tre parti, cioè
della cognizione del delitto, della verificazione e della sentenza. Alla Chiesa serbavasi
la sola cognizione del delitto, come quella solamente competente a decidere in materia di fede;
la verificazione e la sentenza spettavano al magistrato secolare. Così andarono le cose sino al declinare
dell’impero romano, quando l’imperatore era capo dello Stato non men che della Religione, non conoscendosi
quella distinzione di
temporale e spirituale, che oggi si vuoi fare!. Quando poi nacquero le contese
fra il principato e la tiara, gli eretici ringalluzzivano; e fu allora che Vescovi e Sovrani vi posero
riparo con maggiori rigori, ed istituirono appositi tribunali, affidati a Francescani e Domenicani,
che tanta prova avean dato di loro purità di costumi, di mansuetudine e di cristiana carità.
Questi tribunali furono detti della
S. Inquisizione, e gl’inquisitori si appoggiavano, non a decreti di Papi, ma di Sovrani.
Così Enrico VI, fin dal 1196 ordinava che i beni dei
Patarini passassero al Fisco,
e fossero puniti severamente colpendo anche chi si opponesse al loro arresto; Ottone IV da Ferrara nel 1210
metteva al bando dell’impero
Gazari e
Patarini, condannandoli anche alla morte;
Federico II fu pure anche uno dei più accaniti persecutori degli eretici, come abbiamo sopra detto.
Anche nei tempi posteriori fu il braccio secolare, che condannava a morte gli eretici, mentre la Chiesa
usava altre armi, conte quelle di dichiararli
infami, di non ascoltarli in giudizio, di non poter testare,
né ereditare; di non poter esercitare la professione di notai ed avvocati ecc....
Che se qualche volta I Pontefici emanavano decreti di sangue, ciò fecero come Sovrani, eguali agli altri Re. …
[24]
I
Patarini (dal verbo
pati) erano persone che affettavano penitenza ma che, in sostanza,
seguivano l’eresia dei Manichei, egualmente ai
Catarini (dal greco
Caturi che significa
puri),
che dicevansi puritani, dalla pretesa
purità dei costumi! … Tanto i
Patarini, quanto i
Catarini,
nel secolo XI, si distinguevano in
nuovi e vecchi. I
vecchi, erano quelli venuti
in Italia dalla Dalmazia, dalla Croazia, dalla Bulgaria, i
nuovi capitarono, circa il 1176, dalla Francia,
e sotto la protezione di Raimondo, conte di Tolosa, ed erano fioriti in Alby, nell’alta Linguadoca,
perciò detti
Albigesi. Furon detti anche
Valdesi da Pietro
Waldo, che prese
a vulgarizzare il Vangelo ed interpretarlo a suo modo, criticando la Chiesa Romana, ridendosi delle scommuniche;
della canonizazione dei Santi (non ammettono altri santi che gli Apostoli), dei miracoli, delle feste,
della invocazione dei Santi, essendo
Cristo l’unico mediatore fra Dio e gli uomini; non ammettendo
altra immagine che quella del Crocefisso, ma su
Croce mozza in forma di T all’antica.
I
Valdesi pretendono d’esser più cristiani dei
Patarini e
Catarini, non ammettendo la dualità
dei principii dei
Manichei opponendosi ai
dualisti, che ripudiano
la Trinità e I’incarnazione.
I
Valdesi presero poi vani nomi e varie credenze dai loro capi e da tanti altri accidenti,
per cui si suddivisero in una infininità di sette, ciascuna con le proprie credenze.
Sarebbe qui un fuori posto volerle tutte enumerare e parlare di tutte le loro eresie, dirette ad abbattere
il domma e ad impugnare ogni autorità del Papa, dei Vescovi, ridendosi dei riti della Chiesa, dei canoni,
delle Decretali, escludendo ogni dominio temporale degli ecclesiastici ecc. ecc.
Come si vede, le moderne teorie dei
Socialisti, dei
Comunisti, ed anche dei
Modernisti
altre non sono che la riproduzione delle teorie dei
Patarini e
Catari del secolo XIII ! …
*
* *
Figli di Federico II di Svevia furono Arrigo, Enzo (o Enzio), Corrado e Manfredi. Arrigo era già premorto
al Padre nel Febbraio del 1242. Ancor vivente Federico, Arrigo erasi ribellato al Padre, attentando
alla corona d’Alemagna, e macchinando una lega coi sediziosi Comuni di Lombardia. Di che crucciato Federico,
toltagli la corona dei Romani, lo rilegò in Puglia, nella rocca, detta di S. Felice, e poscia in Martorano
di Calabria, dove, secondo Riccardo di S. Germano, morì di morte naturale; secondo Giovanni Boccaccio,
per suicidio.
Enzo o Enzio era stato dal padre investito del Regno di Sardegna, in onta al Papa, che vantava
sue ragioni su quell’isola; per cui fu scomunicato. Venuto a battaglia in Romagna, fu poscia sconfitto e fatto prigioniero dai Bolognesi.
La successione, quindi, del Regno di Sicilia e di Puglia venne nelle mani di Corrado, quarto di tal nome. Ma,
trovandosi questi in Alemania, Manfredi, benchè figlio bastardo di Federico, ne assunse il governo del Reame.
Andria, che tanto era stata fedele a Federico II, sostenendo pure la parte
ghibellina (in opposizione ai
Guelfi
ed, in conseguenza, al Papa) fu altrettanto ostile a Corrado IV, ed a Manfredi, dichiarandosi fedele al Papa
(allora Innocenzo IV), il quale, ritenendo a se il Reame (colla morte di Federico II devoluto alla S. Sede),
aveva minacciato l’anatema a quanti seguissero la Casa Sveva. Quindi Andria insorse contro Manfredi,
il quale, adirato, corse sulla città, con formidabile esercito, a soggiogarla
[25].
Atterriti gli Andriesi, alla nuova di quell’inaspettato arrivo di militi, capitanati dal medesimo Manfredi,
abbandonarono la città, e si rifuggiarono nelle campagne e nei paesi vicini. Ma Manfredi, memore della fedeltà
degli Andriesi verso suo padre Federico, gl’invitò ad entrare in città, promettendo loro perdono
del fallo commesso, accontentandosi solamente d’imporre alla città una multa
[26].
Intanto Re Corrado, suo fratello, che trovavasi in Germania, disputandosi il trono imperiale con Guglielmo,
altro principe tedesco, avendo saputo della ribellione in Puglia, con numeroso esercito d’Alemanni, a dì 26 agosto 1252,
su navi Veneziane, scese nel Reame; ed unitosi a Manfredi, mosse contro la Campania;
di lì contro Napoli, che mantenevasi fedele al Papa
[27].
Soggiogata Napoli, dopo 10 mesi di dura resistenza, i due Svevi scesero in Puglia, fermandosi a Barletta,
dove tutte le città della Provincia (non esclusa Andria) dovettero mandare i loro rappresentanti
a far loro omaggio di sudditanza.
Nell’anno seguente (1253), però, colpito da violento malore, Re Corrado, a dì 21 maggio, lasciava la vita
(nell’età di 26 anni appena) presso Lavello, dove erasi recato, per indire un generale parlamento, lasciando
suo erede il figlio Corradino, che trovavasi in Germania, affidato al Baliato del Marchese Bertoldo di
Hobenburg,
affine di Casa Hohenstaufen
[28].
Ma Bertoldo, non sentendosi capace di sostenere le ragioni di Corradino,
né volendo contradire alle ingiunzioni del Pontefice, il quale erasi unito ai Magnati di quel tempo,
pensò riporre il Baliato nelle mani di Manfredi, Zio di Corradino. Manfredi, però, vedendo di non poter resistere
alla forza morale e materiale del Papa, il quale s’era alleato a tutti i Magnati del Regno,
pensò riconciliarsi con Lui, facendo atto di omaggio e di obbedienza. Papa Innocenzo IV benignamente lo accolse e,
con Bolla del 27 Settembre 1254, assegnava a Manfredi il Principato di Taranto (feudo della S. Sede),
le Contee di Gravina, di Tricarico e quella d’
Andria.
Nell’anno seguente (1255) a Papa Innocenzo IV successe nel Pontificato Alessandro IV. Manfredi, profittando di tal evento,
tornò agli assalti, rifiutando omaggio al nuovo Pontefice, il quale spedì il Marchese Bertoldo di
Hohenburg,
perché s’impadronisse di tutte le città della Puglia. Dopo essersi Bertoldo impadronito di tutte le città del Barese,
venne in Andria, dove trovò energica resistenza da parte dei Tedeschi, capitanati virilmente dallo stesso Manfredi;
per cui Bertoldo, col suo esercito, dove retrocedere
[29].
Ma, finalmente, ad evitare maggior spargimento di sangue, per la intromissione di buoni consiglieri, fu concordato,
che il Reame restasse alla Casa Sveva, ad eccezione di Terra di Lavoro, riservata al Papa. Dietro tale accordo,
il Papa ritirò le sue milizie da Napoli e Terra di Bari, dove Manfredi ebbe liete accoglienze;
e, man mano, anche Brindisi, Oria ed Otranto alzarono la bandiera Sveva.
Manfredi era ben amato dai suoi vassalli, per le qualità intellettuali e cavalleresche; ed era tanto l’entusiasmo
per lui che, quando da Barletta si recò a designare la strada e le mura della nuova Siponto (che da Manfredi
prese poi il nome di Manfredonia), più di settecento persone andavangli incontro con le palme in mano,
cantando il Benedictus qui venit in nomine Domini! …
[30].
In questo frattempo Manfredi, per l’avvenuta morte di sua moglie Beatrice di Savoia, era andato in seconde nozze
ad Elena Comneno, figlia del Principe Michele, Re di Epiro, di Etolia e di Tessaglia. Gli adepti di Manfredi,
a rafforzare maggiormente l’autorità di costui, sparsero la nuova della morte di Corradino, che trovavasi in Germania,
inducendo Manfredi a prendere la corona del Reame, ciò che realmente fece nel dì 11 Agosto 1258.
Saputo ciò Corradino, invia suoi ambasciatori allo zio Manfredi, perché deponesse la corona e punisse gli autori
della mendace notizia di sua morte. Manfredi mandò rispondendo al nipote Corradino, che egli aveva riconquistato
il Regno, già perduto per Corradino, con la forza delle proprie armi e del suo valore, e che non avrebbe ceduto
il regno prima di sua morte, accommiatando gentilmente quegli ambasciatori, e ricolmandoli di doni per loro e per Corradino
[31].
Intanto, morto Papa Alessandro IV (25 maggio 1261), a questi successe, nell’Agosto del medesimo anno, Urbano IV,
il quale, di nazione francese, volendosi liberare dalle vessazioni della Casa Sveva, offrì il Reame a Carlo di Provenza.
Manfredi andò su tutte le furie, ed il Papa, vedendo l’ostinatezza di lui, con Bolla
del 3 Marzo 1264, indisse una Crociata contro Manfredi
[32],
la quale non ebbe poi più luogo per la morte di detto Papa
[33],
avvenuta a dì 2 ottobre del medesimo anno 1264. Però, venuto a succedergli Clemente IV (2 maggio 1265),
francese ancor Lui, e Provenzale, questi continuò l’opera del suo predecessore, nel promuover la Crociata contro Manfredi,
affidandone il Regno a Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX, detto
il Santo.
Carlo fu incoronato Re in Roma dal medesimo Pontefice, il dì 6 Febbraio del 1266, giurando fedeltà alla S. Sede, ed obbligandosi,
per sé e per i suoi successori, a non unire la corona di Sicilia con quella di Germania, o di altra regione d’Italia
[34].
Appena assunta la corona reale Carlo d’Angiò, a dì 26 Febbraio di quel medesimo anno, venne a battaglia con Manfredi
presso Benevento. Per la defezione di molti Baroni, le schiere tedesche e dei Ghibellini di Toscana e di Lombardia,
guidate da Manfredi, furono sconfitte dai Francesi, lasciandovi la vita, in quella mischia, lo stesso Manfredi,
dopo disperata battaglia
[35].
Così spegnevasi il valoroso Manfredi, che, al dire dell’Alighieri Biondo era e bello e di gentile aspetto
(Purgatorio Canto III). Egli fu poeta, come il padre, e cultore passionato delle belle arti.
Per l’animo suo generoso, per le sue fattezze, per la gentilezza dei costumi,
Manfredi lasciò buon nome di sé, specialmente in Puglia.
NOTE
[25]
II Durso attribuisce questa defezione di Andria alla Casa Sveva, dal fatto che Manfredi,
per le ingenti spese della guerra, avesse tolto alla nostra città il privileggio di esenzione
da ogni contributo, da cui I’avea esonerato il padre Federico (
Storia d’Andria, pag 74).
A noi sembra questa una pura asserzione, non confortata da altra pruova, che dalla
solita tradizione,
su cui fa troppo assegnamento il Durso. Invece quella defezione degli Andriesi deve attribuirsi
al timore di non incorrere nella scomunica, minacciata da Papa Innocenzo IV a quanti seguivano la Casa Sveva.
[26]
Nicolai De Iamsilla:
Croni : Napoletani, Tom. Il.
[27]
Matteo Spinelli:
Diurnali - Summonte: Vol. Il. Lib. II pag. 108.
[28]
Matteo Spinelli: loc. cit. – Capecelatro, op. cit., Summonte op. cit.
[29]
Iamsilla: loc. cit. pag. 190.
[30]
Matteo Spinelli:
Diurnali.
[31]
Idem - ibidem- Angelo di Costanzo:
Istor. del Regno: Lib. I. - Muratori:
Amali sotto l’anno 1258.
[32]
Questa Bolla è riportata da Mortene e Durand:
Novus thesaurus anecdotorum: Vol. II, Urbani IV. Epist: IX e XLII a pagina 21 - 23, 70 - 72.
[33]
Spinelli:
Diurnali - Annotamenti di Minieri-Riccio, pag. 81 -86.
[34]
Dalla Bolla Pontificia del 2 Novembre 1265, pubblicata da Lunig.
Cod. Ital. Diplom. Tom. II. pag. 946.
[35]
Sabae Malaspinae:
Rer. Sicul. Histor. Lib. III. Cap. X.
*
* *
Scomparso dalla scena del mondo Re Manfredi, scosso ancora il giogo della feudalità, che, qual massa di ferro,
premeva sulla povera Italia, tutto faceva sperare che la pace, alfine, avesse, preso stanza in questo
incantevole suolo italiano, tanto agognato dai dominanti stranieri; in questo suolo baciato dal mare,
allietato dal sorriso del cielo, che innamorava i freddi abitatori del Settentrione! …
Spezzata la spada dei Barbarossa, le repubbliche Italiane rinacquero a novella vita, forti della loro autonomia.
Ma il serpe della discordia covava in seno alla bella Italia, da molti signorotti tribolata, e dalle civili discordie sconvolta.
Le contese fra cittadini e cittadini, fra comuni e comuni, erano sempre più inacerbite dalla divisione
dei Guelfi e Ghibellini.
Alla lotta delle armi subentrò poi quella delle penne, che fu anche più feroce, i Ghibellini a propugnar
Cesare (ossia la potestà laica) i Guelfi a propugnar Pietro, (ossia la potestà ecclesiastica).
Ciò che fece scrivere al sommo Poeta quella immortale terzina:
Ed ora in te (Italia) non stanno senza guerra
Li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
Di quei che un muro ed una fossa serra
[36].
Il nostro Reame intanto, con la morte di Manfredi, era passato nelle mani degli Angioini.
Due anni dopo, cioè nel 1268, Corradino, con dieci mila tedeschi, scese in Italia, per riconquistare
il Regno dalle mani di Carlo d’Angiò. Molte città, fra le quali prima Lucera, indi Potenza, Venosa,
Matera e quasi tutta la terra d’Otranto, si unirono a lui; poscia Canosa, Minervino, Lavello, Corato,
Ruvo ed altre città, ribellandosi a Carlo, seguirono pure la sveva bandiera di Corradino
[37].
Bari, Barletta, Trani, Molfetta, Troja, Gravina, Melfi, Montepeloso e Bitonto furono per l’Angioino Carlo
[38].
Andria parteggiò per Corradino, ribellandosi a Re Carlo, nel mese di giugno di quell’anno 1268;
ma poscia, pentita di quella insurrezione, attribuita a un tale Baffillo Caracciolo, nell’agosto seguente,
tornò a Carlo spontaneamente, per opera del Giustiziere Francesco di Loffredo, che, con cento cavalli
e 500 balestrieri, trovavasi a Castel del Monte, in difesa di Carlo d’Angiò
[39].
Intanto Corradino, a dì 24 agosto di quel medesimo anno 1268, venuto a battaglia con l’esercito di Re Carlo d’Angiò,
fu sconfitto, presso Tagliacozzo, e, dopo pochi dì, catturato in Astura col cugino d’Austria
e il Conte Gherardo da Piso, a dì 26 ottobre di quel medesimo anno, fu decapitato a Napoli, sulla piazza del mercato.
Con la morte di Corradino, ultimo rampollo della stirpe imperiale di Svevia,
ebbe fine la dominazione Sveva in Italia, cui successe l’Angioina.
Quanto ai figli di Manfredi, Costanza era andata moglie a Pietro d’Aragona, ma gli altri quattro figli
(Beatrice, Enrico, Federico ed Enzo) erano nelle mani di Carlo d’Angiò, i tre maschietti,
secondo il Capecelatro, erano prigionieri nel nostro Castello del Monte
[40],
la figlia Beatrice nel Castello dell’
Uovo di Napoli, dove visse ben diciotto anni, liberata poi
da Ruggiero di Loria, dopo la disfatta degli Angioini, a dì 5 giugno 1284, e consegnata
a sua sorella la Regina Costanza, moglie di Re Pietro d’Aragona
[41].
I poveri tre figli maschi, dopo 32 anni di prigionia nel Castello del Monte, furono da Carlo II,
sulla fine del 1299, fatti tradurre prigionieri al Castello dell’Uovo in Napoli
[42],
dove, dopo pochi mesi, moriva Enzo, mentre a Federico riusciva di evadere, lasciando la vita in Egitto.
Dopo 52 anni di prigionia, finalmente cessava pur di vivere, nel Castello dell’Uovo,
il primogenito Errico, mettendo così termine alla discendenza Sveva.
NOTE
[37]
Giuseppe Del Giudice:
Codice Diplomatico, Vol. II. pag. 175-178, in nota.
[38]
Capecelatro,
Storia del Regno di Napoli: Lib. VIII.
[39]
Matteo Spinelli,
Diurnali.
[40]
Capecelatro, loc. cit. Lib. VII.
[41]
Di Costanzo,
Storia del Regno di Napoli, Lib. III.
[42]
Sicula, Reper: pei Reg. Ang. Reg. 1299 - 1300 D. 13 Indig.
*
* *
Ed ora, ritornando sui nostri passi, per quel che riguarda la nostra storia, durante la dominazione
dei figli di Federico II, poche notizie abbiam potuto riscontrare, causa forse il fatale incendio,
dato al nostro Archivio nel 1799 !. Stando però a quel che ne racconta lo storico Durso, par che Manfredi
avesse poi ridonato alla nostra città il privilegio, già concesso da suo padre Federico, di non pagare,
cioè, contribuzione alcuna; di che gli Andriesi par che ne fossero ben lieti, e che avessero preso ad amare Manfredi,
il quale, quando dimorava in Puglia, soleva far sua residenza al Castello del Monte, e spesso soleva visitare la nostra città
[43].
Il medesimo storico Durso dice che, sotto il Baliato di Manfredi, fu introdotta in Andria la Communità
delle monache
Chiariste, il di cui Convento si estendeva dalla via di S. Chiara, sin dietro all’attuale Ospedale civile,
che formava anche parte del Convento, il quale par che fosse stato costruito nel 1237,
come rilevasi da una lapide, rintracciata nei restauri posteriormente ivi operati.
Questo monistero, al dire del medesimo Durso, fu abbandonato nel 1528 per la terribile peste,
che distrusse gran parte dei cittadini Andriesi; ed il rione più colpito fu appunto tutto il recinto di detto Convento,
e delle adiacenti strade, dove sole due donne, una vecchia Chiarista ed una decrepita contadina ne andarono immuni
[44].
In quel medesimo torno di tempo par che fosse stato fondato in Andria anche il Monistero delle Monache
Basiliane,
che poi dette luogo alle monache
Benedettine, sotto il titolo di S. Tommaso Apostolo. Ciò rilevasi da un documento,
esistente nell’Archivio Capitolare della Basilica di S. Giovanni Laterano in Roma, che ha per titolo:
Liber visitationis factae a D. Joanne Baptista Corrado ab illustrissimo Capitulo Lateranense deputato
[45].
Da questo documento risulta, che il Capitolo Lateranense conservava un antico diritto sul Monastero
delle monache
Basiliane, diritto che poi passò al nostro Capitolo della Cattedrale, quando quel Monastero,
con l’annessa Chiesa, e con le relative rendite, passò a detto Capitolo, con Bolla di Paulo II, del 1466.
L’epoca precisa della fondazione di tal monistero non è affatto conosciuta; ma, da notizie posteriori,
che riguardano quel Monistero, già passato alle Benedettine di S. Tommaso Apostolo, si può arguire,
presso a poco, l’epoca di sua fondazione. Difatti, da un pubblico istrumento del Notar Enrico Grimaldi,
del 9 marzo 1345, si rileva la donazione, fatta da Bertrando Del Balzo, di una casa, a favore del Monastero
delle dette Benedettine. Dunque, nel 1345, quel Monistero era già nelle mani delle Benedettine.
È da supporre, dunque, che, almeno, qualche secolo prima lo avessero costruito ed abitato le monache Basiliane.
Ma abbiamo anche prove, per dire che quel Convento già esisteva anche prima del milleducento.
Difatti, nell’elenco dei Censi di Cencio Camerario, figura, sin dal 1191, il censo, che pagavasi
dal detto Monistero alla Chiesa Lateranese sul suolo, dove era stato costruito quel Monastero,
il quale, in tutto, dipendeva dal Capitolo Lateranese di Roma.
Dismesso poi il Monastero, il nostro Capitolo domandò, ed ottenne da Papa Paulo II (1464 - 1471)
l’annessione di quel Monastero e Chiesa, con le relative rendite, alla Chiesa Cattedrale di Andria,
con l’obbligo, però, di chiedere, ogni 15 anni la rinnovazione di tale unione, e pagare alla Chiesa di S. Giovanni Laterano
in Roma un annuo censo di mezza libra di
zafferano, in ricognizione dell’antico dritto di proprietà,
che aveva la Chiesa di S. Giovanni su quel suolo
[46],
obbligo, che il Capitolo Cattedrale ha mantenuto fedelmente per molti anni, come riscontrasi
in alcuni vecchi libri di procura, che conservansi nel nostro archivio. Però, nel 1672,
il Capitolo Lateranense commutò quel censo in dodici
Giulii (moneta Romana), da pagarsi annualmente
nella vigilia di S. Giovanni Battista; ingiungendo anche l’obbligo al nostro Capitolo di apporre
sulla porta della Chiesa di S. Maria delle Grazie (dove era l’antico Monastero delle Basiliane)
lo stemma di quella Basilica Lateranense, consistente di un Triregno e le
Somme Chiavi,
stemma che già, sin dal 1564, era stato apposto sulla facciata di detta Chiesa.
Però, essendo stato rifatto il prospetto di quella Chiesa, lo stemma fu sito nell’interno della Chiesa,
dove attualmente si vede, a destra di chi entra, con le seguenti parole:
Sacrosanctae Lateranensis Ecclesiae.
Circa l’obbligo della rinnovazione quindicennale dell’unione di quel Monistero e della relativa rendita
al nostro Capitolo, non che del pagamento annuale dei dodici
Giulii, troviamo, che l’ultimo istrumento fu fatto a dì 4 marzo 1693
[47].
Da quest’epoca in poi non si trova fatta più menzione alcuna, nei libri capitolari, nè della rinnovazione,
nè del pagamento dei 12
Giulii. Ed, oggi, molti capitolari, forse, neppur sanno di tal obbligo,
che il nostro Capitolo aveva verso il Capitolo Lateranense di Roma.
Sotto il dominio di Corrado di Svevia, figlio di Federico, fu dato pure principio alla costruzione dell’antica Chiesa
di
Porta Santa, terminata poi sotto il dominio di Manfredi, come si rilevava dalle lapidi esistenti
in detta Chiesa, le quali oggi più non appariscono, perché occupate dalle spalle dell’altare maggiore,
fatto costruire, in seguito, dalla Confraternita del Gesù, che ha sede in quella Chiesa
[48].
Ciò vien assicurato ancora dalle due teste di pietra, che si scorgono scolpite sui
brachettoni
della porta maggiore, che mette in detta Chiesa, rappresentanti l’effigie di Corrado e di Manfredi
di Svevia. Lo stile, però, di quella primitiva Chiesa è tutto normanno, il che fa supporre,
che fosse stata iniziata a tempo dei Normanni, e poscia completata a tempo della dominazione Sveva.
NOTE
[45]
Questo libro conservavisi nell’Archivio di S. Giov. Laterano, e la sopradetta relazione è segnata
al foglio 81 di detto libro, il quale comincia:
Andrien in Apulia: Ecclesia Sancti Thomae
extra et prope muros Civitatis Andrien, ubi antiquitus erat Monasterium Monialium Sancti Basilii,
et postremo Sancii Benedicti etc … .
[46]
Tutto ciò rilevasi dal documento innanzi citato, conservato nell’archivio di S. Giovanni in Laterano,
in cui leggonsi ancora queste parole:
Ad supplicationem Capituli Episcopalis (Andriae)
fuit unita Ecclesia ipsa cum redditibus Canonicis et Capitato Ecclesiae Andrien per Papam Paulum II:
Anno Domini MCCCCLXVI prout apparet per Bullam expeditam tempore praefati Pontificis,
sub annua praestatione mediae librae Croci; prout Canonici Andrien pluribus vicibus solverunt etc … .
Il Durso dice che, nel nostro Archivio Capitolare conservavasi il Decreto in pergamena,
emesso dal Vescovo di Bitonto, qual delegato apostolico; autenticato pure dal Notar Antonio Maccabeo di Andria,
in data 7 Novembre 1567, sottoscritto anche dal Duca d’Andria Francesco Del Balzo,
dal Figlio Eugelberto Vittorio, e dal Conte Alberico Barbiano; come pure esisteva nella Curia Vescovile
un istrumento per Giov. Battista Petusi, Protonotario Apostolico, del 4 Marzo 1576,
nel quale riportavasi un decreto del Vescovo Luca Flisco, con cui dichiarava che le rendite
della Chiesa di S. Maria delle Grazie, appartenute al Monastero delle Benedettine di S. Tommaso Apostolo,
e poi passate alla Chiesa Cattedrale di Andria, andavano devolute alla
massa comune
del Capitolo Cattedrale, essendosene fatto incorporazione fin dal 1466.
A noi non è riuscito riscontrare l’uno e l’altro istrumento, di cui parla iI Durso nella sua storia.
[47]
Archivio capitolare.
[48]
Veramente è a deplorare la scomparsa di quelle lapidi, che potevano esser site in altro luogo, anzicchè celarle dietro quell’altare! …
*
* *
A canto a questa Chiesa esistevano due antichi ospedali, detti l’uno di
S. Riccardo, e l’altro
della misericordia,
che servivano per l’alloggio dei pellegrini infermi, che transitavano per la Via Appia.
Nella costruzione di detta Chiesa di
Porta Santa
[49],
l’Ospedale di S. Riccardo ne restò fortemente lesionato, tanto da non poter essere più adibito a ricovero
dei pellegrini infermi. Fu allora che un pio e dovizioso cittadino Andriese, per nome Iacopo Cammarota,
ricostruì un nuovo ospedale, intitolato pure a S. Riccardo, nei pressi della Chiesa Cattedrale,
e propriamente, dove oggi trovasi il Monistero delle Benedettine, cedendo il Cammarota, a tale scopo,
il proprio palazzo. Ciò si rileva da un pubblico istrumento per Notar Arrigo Zaccaro, in data del 1267,
trovato nella scheda del Notar Gianalfonso Gurgo.
Animati dell’esempio del Cammatota, altri quattro pietosi cittadini Andriesi, appartenenti alle quattro famiglie patrizie
di Andria,
Quarti, Marulli, Fanelli - Madia e Superbo, con proprio denaro,
fondarono altri due ospedali, quello
della Trinità, e quello
di S. Bartolomeo,
[messi il primo accanto al nuovo ospedale di S. Riccardo, il secondo accanto alla Chiesa, ancora esistente,
di S. Bartolomeo, e, propriamente, dove oggi si vede il palazzo dei Signori Iannuzzi],
per sopperire alla miseria di tanti cittadini poverelli, contando allora Andria più di ventimila abitanti
[50].
Fu redatto allora un pubblico istrumento, nel 1268, per Notar Taddeo Ciriece, dal quale risulta,
che detti fondatori, nel cedere quei due ospedali all’Università di Andria, si riservavano il diritto,
per se e per i rispettivi eredi, di nominare gli amministratori di quegli Ospedali.
Intanto l’Ospedale della Misericordia restò come asilo ai pellegrini infermi, mentre che
i tre nuovi ospedali, quello della Trinità, di S. Riccardo e di S. Bartolomeo,
furono adibiti a ricovero dei poverelli della città.
Nella Chiesa di Porta Santa l’Università di Andria,
ab antiquo esercitava un
giuspatronato laicale
su due Cappelle, ivi esistenti, sotto il titolo di S. Pietro e di S. Riccardo.
In detta Chiesa esisteva anche una Congregazione, eretta sotto il titolo di
S. Maria della Nunziata,
composta di nobili cittadini Andriesi, i quali, in tutte le festività dell’anno, invitavano
i Preti della Cattedrale a funzionare. Verso il 1265 nacquero alcune divergenze fra quei Confratelli
ed i Preti della Cattedrale, per cui questi si rifiutarono dal prestare il loro intervento
nelle sacre funzioni, che si facevano in quella Chiesa, le quali continuarono a farsi sotto la direzione
di un padre spirituale, nominato da detta Congregazione. Ma i Cattedralisti reclamarono
il loro diritto su quella Chiesa, ed il Vescovo di allora, Mons. Matteo II, fece ragione ai Preti
della Cattedrale, interdicendo ai Confratelli le sacre funzioni in quella Chiesa, ed ordinando,
nel contempo, che, dei due altari, [quello di S. Pietro e l’altro di S. Riccardo, eretti nella Chiesa
di Porta Santa], se ne fosse formato uno solo, e sotto altro titolo, mentre che il culto
a S. Pietro ed a S. Riccardo si fosse mantenuto nella Chiesa Cattedrale
[51].
Dopo tali vescovili disposizioni, i Confratelli, indispettiti, man mano abbandonarono
la Chiesa di Porta Santa, restando la Congregazione, ivi eretta, dismessa fino al 1516
[52].
Nulla di più rimarchevole troviamo, in questo torno di tempo, per quel che riguarda il nostro Capitolo e la nostra città.
*
* *
E con ciò chiudiamo il secolo XIII, durante il quale, il nostro idioma, cullato nella corte degli Svevi
dal canto di Federico e di Manfredi, a poco a poco cominciò a diffondersi nella Penisola,
trovando fedele eco fra gli Aulici poeti di Sicilia, mentre l’Alighieri, qual astro fulgidissimo,
mandava sprazzi di luce dalle sponde dell’Arno, in Toscana, sul declinare del terzo decimo secolo.
Malaspini e Dino Compagni cominciarono a scrivere di storia in lingua italiana; e,
prima ancora di questi, come ne attesta il Mutatori
[53],
fu un nostro comprovinciale,
Matteo Spinelli di Giovinazzo (in Provincia di Bari), il quale, per primo,
cominciò a tentare la prosa in lingua
volgare, mentre che, prima di lui, tutto scrivevasi in lingua latina.
La nostra Puglia parlava allora un misto di greco - latino - italiano, che formava un dialetto,
nel volgare eloquio chiamato dall’Alighieri laida loquela.
In lingua illustre, antica e cortigiana.
Con la caduta della dominazione Sveva, chiudiamo questo Capo, e preghiamo il lettore a non volerci tacciare
d’indiscrezione, se, nel trattare la storia del nostro Capitolo, abbiam fatto troppo uso
delle digressioni. Del resto, se la digressione è un difetto, al dire di un dotto scrittore,
le digressioni molte volte formano la parte più bella d’ogni libro.
NOTE
[49]
Il Durso dice, che il nome di
Porta Santa ebbe origine dalla
popolare tradizione,
che di lì fecero l’ingresso in Andria i due Santi Pietro e Riccardo, venendo per la via Appia!.
[51]
Questo trasloco del culto a S. Pietro ed a S. Riccardo nella Chiesa Cattedrale fu forse l’occasione,
o meglio il pretesto per far reclamare all’Università di Andria il giuspatronato
sulla Cappella di S. Riccardo, e nella nomina del Priore, come a suo tempo dimostreremo.
[53]
Praefat: in
Ephi: Matheo Spinelli.
[tratto da “Il
Capitolo Cattedrale di Andria e i suoi tempi” di M. Agresti, tipi
Rosignoli, Andria, 1912, Vol.I, cap.V, pagg.101-122]