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da "Il Capitolo Cattedrale di Andria ed i suoi tempi" - Vol. I
di Michele Agresti (1852-1916)
Capo VII
(anni 1357-1448)
Morto Bertrando del Balzo, a lui successe, nella Contea di Andria, il figlio Francesco I,
il quale assunse il titolo di Duca d’Andria, conferitogli dalla Regina Giovanna.
Francesco del Balzo ebbe da sua moglie [la Duchessa Margherita] due soli figli, Antonia e Giacomo.
Non trovandosi in buone condizioni di salute la Duchessa Margherita, recatasi a Napoli, ivi,
dopo breve soggiorno, vi lasciò la vita. Venne tumulata nella Chiesa di S. Chiara,
come persona appartenente a famiglia regale. Grave fu il dolore del Duca Francesco
per la morte di cosi buona compagna. Ma, trovandosi ancora in fresca età, pensò passare,
in seconde nozze, alla Contessa Donna Sveva Orsini, dalla quale ebbe due altri figli, Guglielmo e Bianchini
[1].
Nel 1362 Antonia, sua primogenita, andò sposa al Re Federico di Sicilia
[2].
In quel tempo avvenne la morte del Re Luigi, ed indi del fratello Filippo, principe di Taranto,
pur cognato del nostro Duca Francesco del Balzo, Non avendo Filippo avuto prole alcuna,
chiamava erede del Principato di Taranto suo nipote Giacomo del Balzo, figlio del nostro
Duca Francesco, e di Margherita, sorella di detto Filippo e del defunto Re Luigi
[3].
Divenuto il nostro Duca Francesco
Balio di suo figlio Giacomo, recossi a prendere possesso
di tutte le città del Principato, ereditato da Filippo suo cognato, per conto del figlio Giacomo.
Se non che un Conte di Casa Sanseverino contestò al nostro Duca la città di Matera.
Ma Francesco del Balzo, con formidabile armata, ne discacciò i Sanseverino da quella città,
prendendo egli il possesso.
Ricorsero i Sanseverino alla Regina Giovanna, già vedovata del Re Luigi, e questa,
o perché temeva dei potenti Conti Sanseverino, o perché aveva altre mire nella successione
a quel Principato, non essendo riuscita con le buone a distogliere il nostro Duca dall’occupare
la città di Matera, fece ricorso alle minacce, invitandolo più volte a comparire alla sua presenza.
Il Duca del Balzo, però, tenne duro; e gìammai volle comparire alla presenza della Regina Giovanna.
Né valse la cooperazione di Papa Gregorio XI a conciliare il nostro Duca con la Regina, sua parente.
Intanto, morta Elisabetta, nipote di Luigi, Re d’Ungheria, e seconda moglie di Filippo, questi,
venuto a morte il dì 23 novembre 1373, lasciava tutta la sua eredità alla Regina Giovanna.
Francesco del Balzo allora, non solamente venne fuori con la pretesa del Principato di Taranto,
ma col voler pure l’impero. Onde la Regina Giovanna lo processò quale ribelle, e lo fè discacciare di Puglia,
confiscando i suoi beni, privandolo della Duchea d’Andria e di ogni onore e titolo, che avea nel Regno
[4].
Il nostro Duca non si commosse punto alle minaccie della Regina Giovanna, sua cognata.
Laonde, recatosi a Roma dal Papa Gregorio XI (1370 - 1378), che era pur suo zio,
n’ebbe da costui ogni assicurazione ed appoggio
[5],
Indi, portatosi nei suoi feudi della Provenza, assoldò più di 13 mila militi, prendendo, a capo di questi,
la volta di Napoli. Dopo d’essersi impossessato di Capua, ad Aversa s’incontrò collo zio
Raimondo Del Balzo (Gran Camerario del Regno, persona assai devota alla Regina Giovanna),
il quale seppe persuadere e distogliere il nipote Francesco dall’ardita impresa
[6]
inducendolo a prender ricovero nella città di Teano. Intanto la Regina Giovanna, come seppe
dell’audacia del nostro Duca, fe’ porre assedio a Teano. Ma Francesco Del Balzo, avvisato in tempo,
prese la via di Avignone, per rifugiarsi presso il Papa, suo zio.
In questo frattempo la Regina Giovanna passò in terze nozze, sposa a Iacopo d’Aragona, del quale,
ben presto, restò vedovata. Volendo però far succedere nel Regno, alla sua morte, Carlo di Durazzo,
figlio di Luigi di Durazzo (fatto morire nel Castello dell’Ovo di Napoli), aveva pensato darlo per marito
a sua nipote Margherita. Ma, essendo poi passata la Regina Giovanna, in quarte nozze, al Conte di Brunswich,
invece di Carlo di Durazzo, chiamò suo erede e futuro successore nel Reame Luigi d’Angiò, fratello del Re Carlo di Francia.
Carlo di Durazzo, vedendo fallita la sua aspirazione al Regno, animato pure dal nostro Duca del Balzo,
(il quale voleva far vendetta della Regina Giovanna) e spinto, più di tutti, dal Papa Urbano VI
[7],
il quale trovavasi rifugiato ad Avignone, per la guerra, che gli moveva l’antipapa Clemente VII,
cui la Regina Giovanna prestava tutto il suo appoggio, con forte armata si presentò pretendente al Reame,
in opposizione a Luigi d’Angiò, dalla Regina Giovanna fatto futuro erede del Regno. Indi,
venuto in Napoli il valoroso Carlo III di Durazzo, fe’ imprigionare la Regina Giovanna e suo marito Ottone
di
Brunswick, mandando costui nel Castello di Altamura, e lei in quello di Muro, in Basilicata,
dove poi, a dì 22 Maggio del 1382, la fe’ strangolare, come ella aveva fatto strangolare
il suo primo marito Andrea d’Ungheria! …
Così si verifico, ancora una volta, che,
qui gladio ferit gladio perit! …
NOTE (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva)
[1]
Durso -
Storia d’Andria, pag. 93.
[2]
Il Durso dice d’aver riscontrato nell’Archivio ducale, che la Duchessa Antonia,
prima di partirsi da Andria, per andare a contrarre il suo matrimonio in Palermo col Re Federico,
avesse elargito ai poverelli della nostra città la somma di mille ducati (loc. cit. pag. 93).
[3]
Costanzo- Lib. VII; pag. 200. Il principato di Taranto, al dire del Costanzo, abbracciava mezzo regno.
[4]
Giannone, Lib. XXIII; pag. 242. Il Buccio, cronista contemporaneo, descrive, in barbari versi,
ed in più barbara lingua quell’avvenimento. Ecco quei versi:
« Perché el Duca volea el emperio e volea lo principatu
Madamma lo ebe subito per traditore appellatu
Perché Messer Filippo lo avea ad ella lassatu
E fattosela erede per testamento pubblicatu.
Allora lo desdigno subito fatto fone
Madamma lu processu subito comenzone
Contro el Duca d’Andria molto unbesta fone
Che per nulla citatione comparuta non fone
Fornito el processu la sententia data fone
Molto erebelmente Madamma la dunone
In corte del Papa. e de l’imperio ch’appellone
Non li fece nullo prode de illa deserto fone,
Sopra onne soa terra la granne osti ebbe voltata,
Sichè in poco tempo onne sua terra che si ebe levata
E titulo et onne onore che dalla casa li fo data. »
Buccio delle cose d’Aquila (Presso il Muratori).
[5]
Costanzo. L. VII; pag. 202.
[6]
Durso: loc. cit. pag. 94 – 95.
[7]
Succeduto a Gregorio XI.
*
* *
Intanto Carlo III di Durazzo erasi già messo nel possesso del Reame di Napoli, quando Luigi d’Angiò,
protetto dall’antipapa Clemente VII, alla morte della Regina Giovanna, venne a contendere
il regno a Carlo III di Durazzo, protetto dal Papa Urbano VI. (1378 - 1289).
Però, dopo varie scaramucce, riuscite tutte a danno di Luigi d’Angiò, questi, sopraffatto
dal dolore d’aver perduto l’ambito regno, ne ammalò, e cessò di vivere nei primi di Ottobre del 1384.
Morto Luigi d’Angiò, Carlo di Durazzo, dopo d’avervi lasciato forti presidii in Puglia,
dove alquante città s’erano date a Luigi d’Angiò, fece ritorno in Napoli
[8].
Venuto lo scettro nelle mani di Carlo III di Durazzo, il nostro Duca Francesco I Del Balzo
riacquistò i suoi domini, ed il figlio suo Giacomo, già in età maggiore, riebbe il Principato di Taranto.
In attestato di gratitudine, Re Carlo accordò a costui di poter impalmare sua cognata Agnese,
sorella maggiore di sua moglie la Regina Margherita, ambo nipoti della defunta Regina Giovanna.
Ma questo
imeneo ben presto fu tramutato in
talamo funerario per opera dei Sanseverino,
i quali fecero credere al Re Carlo di Durazzo, che Giacomo Del Balzo gli volesse contendere
il Regno, aspirando pure all’Impero di Costantinopoli, appoggiato dallo zio, Papa Urbano VI,
col quale Re Carlo era in grave discordia. A smentire tale insidiosa calunnia il Principe
Giacomo Del Balzo, unitamente a sua moglie Agnese, corre a Napoli; ma appena ivi giunto,
per ordine del Re, la moglie Agnese fu fatta imprigionare e condotta a Muro, nel medesimo castello,
dove era stata soffocata la Regina Giovanna. Nella disperazione di tanto dolore,
il povero Giacomo, su d’una nave Genovese, corre a Taranto
[9],
raccoglie quanti più militi poteva, ed arditamente affronta esercito di Re Carlo, sceso
ad occupare la fortezza di Taranto. Indi, riportato una prima vittoria, va assoldando
gente dappertutto, onde accorrere a liberare sua moglie Agnese. Ma, lungo la via,
ebbe la triste notizia della già avvenuta morte di Lei ! … A tale acerbo dolore,
il valorosissimo Principe Giacomo Del Balzo non ebbe forza di resistere; e, di lì
a pochi giorni, affranto dall’angoscia, seguì sua moglie nel sepolcro! …
[10]
A quella doppia sventura il buonissimo nostro Duca Francesco I Del Balzo, cristianamente
si rassegnò al volere di Dio; e, comprimendo il suo acerbo dolore, fe’ erigere nella Chiesa
di S. Cataldo (dal medesimo poco prima fatta edificare in Taranto) un superbo Mausoleo
dove fu tumulata la salma del suo valoroso sventurato figlio Giacomo, facendovi
scolpire la di costui immagine, (ornata dalle divise imperiali, cioè stola,
scettro ed altro) con la seguente Epigrafe:
« Hoc tuus Andriae Dux Franciscus Baucia Proles
Extruxit templum, Iacobi legit ossa Tarenti
Principis, huic mater Caroli de stirpe Secundi
Imperii titulis, et Bauci sanguine claro:
Hic Romaniae, et despotus Acajus, urbes
Subiecit Bello. An. Dom. 1383. »
Intanto la fortuna non arrise a Re Carlo di Durazzo! Morto il Re d’Ungheria, Carlo veniva chiamato
a cingere quella corona. Senonché, accolto con grandi feste dalla Corte, dopo pochi giorni,
per ordine della Regina Maria, da un sicario, veniva pria ferito, e poscia, avvelenatagli la piaga,
fu fatto morire tra spasimi atrocissimi! … Così Re Carlo di Durazzo pagò il fio d’aver fatto morire
due giovani sposi, che formavano la felicità e la gloria di Taranto, ed avrebbero forse formata
la felicità di tutto il Regno, e la gloria della nostra città, che gli avea dato i natali!
Morto Carlo III di Durazzo, a lui successe nel regno di Napoli il figlio Ladislao, in tenera età,
sotto la reggenza della madre Margherita. A Luigi I d’Angiò già era succeduto il figlio Luigi II,
il quale, profittando della morte del Re Carlo, tosto riprese le ostilità, iniziate dal suo genitore
contro i Di Durazzo, ed era riuscito ad impadronirsi quasi di tutto il Reame. Ma Ladislao Di Durazzo
unitosi al prode Capitano Alberico Da Barbiano, ricacciò dal reame l’Angioino Luigi II, il quale,
nel 1401, fe’ ritorno in Provenza, donde n’era venuto. Ladislao moriva in Napoli a dì 6 agosto 1414
senza prole, per cui successe, nella corona, la sorella Giovanna II, già vedova del Duca Guglielmo
d’Austria.
A 10 agosto 1415 la Regina Giovanna II sposava Giacomo Borbone, Conte della Marca,
Principe della real casa di Francia. Questo ottimo Principe, venuto in disgusto con la moglie,
la Regina Giovanna II, per la sua cattiva condotta, ed annoiato dalle lotte, che suscitavagli
il suo rivale Luigi II d’Angiò, pensò d’abbandonare il mondo, e, vestito l’abito del poverello
d’Assisi, si ritirò in un Convento di Francia, dove chiuse santamente i suoi giorni nell’anno del Signore 1438.
Così pure il nostro buon Duca Francesco I Del Balzo, affranto dal dolore d’aver perduto l’ottimo
e valoroso figlio Giacomo, ritiratosi in Andria, dedicò il resto di sua vita all’educazione ed all’affetto
dei due superstiti figli, Guglielmo e Bianchino, avuti dalla seconda moglie, la Principessa Orsini,
e tutto si dette nel promuovere opere di beneficenza a vantaggio della nostra città, ed anche del nostro Capitolo.
Nel 1387 fece venire in Andria gli Agostiniani calzati, dotandoli di tutto, ed assegnando loro il Convento,
sito accanto all’attuale Chiesa di S. Agostino, anticamente appartenuto ai Teutonici, come è detto innanzi
[11],
Nel 1398 fece pur venire in Andria i Padri Domenicani, sotto il titolo di S. Maria dell’Umiltà,
secondo risulta da una supplica, diretta a Papa Bonifacio IX (1389 - 1394)
dalla Duchessa sua moglie, D. Sveva Orsini
[12].
A sue spese fece costruire la Chiesa ed il Convento di S. Domenico, dotandolo di parecchi latifondi.
Venuto intanto alla luce Francesco II Del Balzo, sua madre Antonia scendeva nella tomba, ancor giovanissima.
Essa venne tumulata nella Chiesa di S. Maria Vetere, sulla porta di prospetto di chi entra in Chiesa dal Chiostro.
Su quella tomba leggesi la seguente epigrafe:
« Digna Polo Patria, mulieribus norma pudoris
De Brunforte jacet Antonia hic, Vigiliarum
Stirps Comitis, quondam quae tuis Dux Andriae sceptrum.»
NOTE
[8]
Muratori, Annali: ann. 1354.
[9]
Costanzo, Lib. VIII: pag. 223. Giannone, Lib: XXIV. pag. 263.
[10]
Il Durso (loc. cit.), dice che la Principessa Agnese fu tumulata nella chiesa di S. chiara in Napoli, a destra dell’altare maggiore.
[11]
Espulsi i PP. Agostiniani dell’ordine eremitico, quel Convento restò abbandonato. Ed oggi è adibito a caserma dei Carabinieri.
[12]
Cronaca Domenicana: Tom. II. pag. 371, riportata dal Durso nella storia d’Andria a pag. 97, in nota.
*
* *
Il secondo, figlio di Francesco I Del Balzo, per nome Bianchino, fu un pessimo arnese, uomo di mala vita,
tanto che il Padre lo diseredò. Non si conosce con precisione l’anno della morte di Francesco I Del Balzo,
ma probabilmente dovette essere il 1420, epoca in cui fece il suo testamento
in lecto jacentem, infirmum corpore, come rilevasi da quel testamento medesimo, in data 24 aprile 1420
[13].
In quel testamento il pio Duca Francesco I Del Balzo legava al Capitolo Cattedrale di Andria
oncie quaranta di oro con l’obbligo di celebrare trecento messe, pro una vice tantum,
in suffragio dell’anima sua; dippiù once dieci alla Cappella del Sacramento della Chiesa Cattedrale,
per trenta messe da celebrarsi per l’anima sua in detta Cappella, pro una vice tantum:
alla Cappella di S. Riccardo, sita nella medesima Chiesa Cattedrale, legava un
pallio di broccato d’oro riccio et seta cremosina, che dovea servire nelle festività del Santo.
Assegnava inoltre una somma al nostro Capitolo, per fare sei ferrajoli di panno veneziano nigro
più hello, che si trova a Baro, et che detti sei ferrajoli sieno dati ai sei diaconi
della Madre Chiesa, quali abbiano da pregare quando aggiunteranno alla messa per l’anima …
All’ospedale di S. Riccardo lasciava pure oncie dodici, per riparazioni allle fabbriche,
once dieci per materassi agl’infermi, oltre a sei some di lino per lenzuola:
A venti verginelle delle più bisognose della città, che andassero a marito, lasciava
once otto per ciascuna: Al Clero di Trimoggia (cioè al Capitolo Collegiale di S. Nicola) lasciava
once venti per 100 messe da celebrare per anima sua: Ai Cappellani Sacerdoti della Chiesa
di S. Maria della Nunziata extra moenia (cioè al Capitolo Collegiale dell’Annunziata) altre
once quindeci, per messe pure da celebrare. Ai Domenicani, agli Agostiniani once sei
per ciascuno dei due ordini: Al monistero di S. Maria Vetere altre once sei:
Alli frati di S. Francesco tumula (tomoli) quaranta di grano, venti di fave, otto di lemicoli,
et quattro botte di vino nero, et più il panno di tela d'oro velluto abbroccato:
Alla Chiesa di Porta Santa once otto per una messa cantata: All’ospedale della Misericordia
once venti: A S. Maria De Majoribus once quattro; oltre a varii legati di messe
al suo Confessore ed alla Chiesa di Nazaret in Barletta.
Di tutto il rimanente chiamava erede universale il figlio Guglielmo,
escludendo et eseredando il secondo genito,
Bianchino,
uomo di mala vita et pessima conversatione … che avea praticato con giocatori.; …
che aveva impedito ai Notai di accettare alcun testamento del Padre, e che,
nell’ultima infermità
aveva procurato con astuti tradimenti avvelenarne, e farne morire innanti,
che l’ora di Dio sia piaciuto. Per questo figlio Bianchino disponeva che gli si desse,
dalla sua eredità, solamente
un tari
[14]
al giorno, a solo titolo di
jure institutionis.
Da quel testamento si rileva di quanta bontà d’animo fosse stato il buon Duca Francesco I Del Balzo,
e quanta fede avesse avuto in Dio.
NOTE
[14]
Il
tari equivale a centesimi ottantacinque.
*
* *
In questo periodo di tempo (1357 - 1420) ben Otto Vescovi occuparono, successivamente, la sede Vescovile di Andria.
Essi sono, secondo l’Ughelli ed il Cappelletti,
Nicolaus, Fr. Benedictus De Nigropante,
Lucidus, Franciscus Sorrentinus, Fr. Melillus, Franciscus Be Nigris, Fra Andrea De Aura e Giovanni Dondei.
Del Vescovo
Nicoltaus non altra notizia abbiamo dall’Ughelli e dal Cappelletti, se non che fosse morto nel 1376
[15].
Ammesso, dunque, che il suo predecessore, Giovanni III, fosse morto nel 1375, secondo dice il Durso
[16],
questo Vescovo
Nicolaus dovette occupare la sede Vescovile appena per un anno.
Questo Vescovo
Nicolaus, al dire del medesimo Durso, fu Canonico Penitenziere della Cattedrale di Napoli,
creato Vescovo da Urbano V (1362 - 1370), senza però che il D’Urso ne precisasse l’anno,
che certamente deve essere posteriore al 1375, nel qual anno il medesimo Durso dice essere morto
il predecessore Vescovo Giovanni III. Ora questo è un manifesto errore, giacché Urbano V
fu Papa dal 1362 al 1370. Dunque, o non è vero che il Vescovo Giovanni fosse morto nel 1375,
od è falso che il Vescovo
Nicolaus fosse stato preconizzato da
Urbano V,
essendo Papa, nel 1376, Gregorio XI, e non Urbano V. …
Al Vescovo
Fr. Benedictus seguì
Lucidus, che, a dire del Cappelletti, è commemorato circa il 1381.
Il Durso dice che fu creato Vescovo da Papa Urbano VI (1378 - 1389) nel 1380. Nessuna altra notizia
si ha di questo Vescovo, al quale successe Mons.
Franciscus Sorrentinus, di cui, dice l’Ughelli,
si fa menzione,
in monumentis ejusdem Ecclesiae nell’anno 1385. Il Durso dice che questo Vescovo
Franciscus
fu Arcidiacono della Cattedrale di Sorrento, preconizzato nel 1385 da Papa Urbano VI.
[17]
Sotto il Vescovado di questo
Franciscus Sorrentinus, nel 1385, furono suscitate gravi discordie
fra il Capitolo della Cattedrale e la Collegiata di S. Nicola, la quale pretendeva d’aver diritti parrocchiali,
eguali a quelli della Cattedrale. Il Vescovo Mons. Francesco da Sorrento aveva negato
ai Niccolini il diritto d’avere, accanto alla lor Chiesa di S. Nicola, un proprio cimitero
ed il fonte battesimale, non che di poter accogliere chierici nella loro Chiesa;
impedendo pure ad essi libero esercizio di poter associare i cadaveri e di esercitare tutti gli altri
atti parrocchiali. I Niccolini si appellarono al Metropolitano contro tale decisione del Vescovo
Francesco;
ed il Metropolitano, ritenendo che la Collegiata di S. Nicola era passata in Andria con tutti
i diritti parrocchiali, ch’esercitava in Trimoggia, (sua prima residenza), annullò la decisione
del Vescovo Francesco, tanto più che, nel 1328, il Vescovo Domenico, di cui è parola innanzi,
aveva confermato quei diritti di parrocchialità alla detta Collegiata. Il Capitolo della Cattedrale,
però, fece ricorso alla S. Sede, contro la sentenza del Metropolitano; e la S. Sede diè ragione
al Capitolo Cattedrale, nella considerazione, che la Collegiata di S. Nicola era stata ammessa solamente,
quale coadiutrice della Cattedrale, nell’esercizio della cura delle anime, e che solamente
ad tempus furono a lei fatte alcune concessioni nel 1328, quando il numero delle anime era di
venticinque mila, e sempre, però, sotto la dipendenza della Cattedrale.
[18]
Cosi, pel momento, si attutirono quelle liti, riprese poi con maggior calore, come in seguito diremo.
Al Vescovo Franciscus Sorrentinus successe, nel 1390, un nostro concittadino,
Fr. Melillus Sabanicae de Andria, preconizzato da Papa Bonifacio IX (1389 - 1404).
Questo Vescovo Fr. Melillus al dire dell’Ughelli, fu dell’ordine Eremitano di S. Agostino.
Il Durso dice che questo Vescovo Fr. Melillo, ossia Emilio, era figlio
del Magnifico Giuseppe Sabalice di Andria, dottore in legge. Esso apparteneva ad una nobile famiglia
della nostra città, da lungo tempo estinta. Rimane solamente, al dire del medesimo Durso,
una memoria di questa famiglia, dove era sito il suo palazzo, che dette il nome alla piazza Melillo,
lungo la strada, detta Fravina. Nel nostro Duomo esiste un monumento, fatto erigere
da Monsignor Melillus a suo fratello Fr. Matteo, anche dell’istesso ordine
eremitano di S. Agostino. Detto Fr. Matteo, venuto in Andria, nel 1401, a rivedere la sua famiglia
ed il fratello Vescovo, vi lasciò la vita. Fu fatto tumulare da suo fratello Vescovo nella Chiesa Cattedrale,
e, propriamente, sul Presbiterio, in Cornu Epislolæ dell’altare Maggiore, ove,
sulla lapide sepolcrale, fu fatto scolpire l’immagine di Fra Matteo in abito monastico,
con incisa la seguente epigrafe, riportata dall’Ughelli:
HIC JACET
PAT, MATHE, FRAT, FRATRIS MILILLI
DE ANDRIA
ORDINIS S. AUGUSTINI
EPISCOPI EJUSDEM CIVITATIS
ORATE PRO EO
A. D. M
DCCCCI
[19]
Mons. Milillo morì a dì 25 Febbraio del 1418, dopo 28 anni di vescovado.
A Lui successe, a dì 12 Agosto di quel medesimo anno Mons.
Fr. Franciscus De Nigris,
francescano dell’ordine dei Minori, trasferito dalla sede Vescovile di Salpi da Papa Martino V
(1417 - 5431), con Bolla, data da Gebenne.
[20]
Al Vescovo
De Nigris successe
Fra Audrea De Aura, a dì 5 aprile 1427.
Egli appartenne all’ordine Domenicano.
[21]
Di questo Vescovo non fanno menzione né l’Ughelli e né il Durso. Non si conosce l’epoca di sua morte.
Al Vescovo
De Aura successe Mons.
Giovanni Dondei, monaco celestino,
preconizzato da Papa Eugenio I (1431 - 1447), a dì 14 Novembre 1435. Sotto il Vescovado
di Mons. Dondei avvenne l’Invenzione del Corpo di S. Riccardo, di cui or ora ne faremo
la narrazione. Questo Vescovo intervenne, nel 1439, al Concilio di Firenze, indetto
da Papa Eugenio IV. Di lui scrive l’Ughelli:
vir sane isto munere dignissimus.
[22].
Del nostro Capitolo non ci è riuscito incontrare altri nomi, in questo torno di tempo
(1357 : 1446), fuorché quelli dei Preti Giovanni, Angelo Leone,
e dell’Arciprete Guglielmo, dei quali parla il Duca del Balzo nella storia
dell’Invenzione del Corpo di S. Riccardo.
NOTE
[15]
Ughelli, loc. cit. Cappelletti, loc. cit.
[18]
Dall’archivio Capitolare: Libro delle cause 1763.
[19]
Nel rifare il pavimento del Presbiterio, questo monumento (non sappiamo con quanto buon sensol)
restò coperto dalle mattonelle! Non sarebbe il caso di rimetterlo in luce?
[20]
Ughelli: Ital. Sacr. Tom. VII.
[21]
Cappelletti: Chiese d’Italia.
*
* *
Per rapporto alle cose civili, con la rinunzia al mondo di Giacomo di Borbone,
il regno di Napoli restò nelle mani della Regina Giovanna II, la quale, a sua difesa,
chiamò ed adottò a suo erede Alfonso d’Aragona. Ma poi, non contenta di costui,
toltagli l’adozione, chiamò in suo aiuto Sforza degli Attendoli, il quale,
da Benevento accorso, sconfisse le milizie di Alfonso, mettendo in salvo la Regina Giovanna II
dalle insidie dell’Aragonese. Per consiglio del medesimo Sforza,
la Regina Giovanna adottò allora, in luogo di Alfonso d’Aragona, Luigi III d’Angiò.
[23].
Morto costui, per quanto avesse fatto Alfonso d’Aragona, onde ritornare nell’amicizia
e nell’adozione della Regina Giovanna II, a nulla riuscì, chiamando questa, invece, a suo erede Renato, Duca d’Angiò.
[24].
Molte città intanto si erano date ad Alfonso d’Aragona, fra le quali Andria,
governata allora dal Duca Francesco II Del Balzo, il quale erasi unito in matrimonio
a Saucia di Chiaromonte, figlia di Tristano e di Caterina Orsino Balzo, sorella
del Principe di Taranto, Gianantonio, il quale, unitamente a suo cognato,
il nostro Duca Francesco II Del Balzo, aveva sposato la causa di Alfonso d’Aragona,
associandovi Altamura, Minervino e Canosa di Puglia.
Nel febbraio del 1435 moriva in Napoli la Regina Giovanna II. Terribili furono allora
le lotte fra i due rivali, Renato d’Angiò ed Alfonso d’Aragona, alle quali presero parte
Iacopo Caldora, per gli Angioini, il Principe di Taranto Gianantonio Orsini ed il nostro Duca,
per gli Aragonesi. Nel 1436 il Caldora, dopo d’aver preso Lavello ed assediata Barletta,
venne in Andria, donde dovè presto scappar via, col sopraggiungere del potente Principe di Taranto
(venuto in aiuto di suo cognato il nostro Duca Francesco II del Balzo), e muovere invece
a tentar l’assedio di Venosa. Fallitagli però anche questa impresa,
si ridusse a Bari, addivenendo ad una tregua coi suoi avversi
[25].
Al Caldora si unì poscia, in favore degli Angioini, il Patriarca d’Alessandria, Giovanni Vitelleschi,
inviato dal Papa Eugenio IV (1431 - 1447), il quale pretendeva che il Regno di Napoli
si appartenesse alla S. Sede
[26].
Il Patriarca Giovanni Vitelleschi, dopo d’aver vinto il Principe di Taranto a Montefusco,
scese in Puglia e s’impossessò di Andria, Ruvo, Terlizzi, Bisceglie e poscia di Trani,
prendendo quartiere in Andria. Ma gli Andriesi, stanchi da tante lotte, ne più sopportando
l’ostaggio del Patriarca Alessandrino, fecero ricorso alle armi, e si replicò allora qui in Andria,
al dire del Costanzo,
il Vespro Siciliano
[27].
Terribile fu la lotta, nella quale più di trecento nostri concittadini vi lasciarono la vita.
Dei seguaci del Patriarca ne morirono oltre settecento fra undicimila combattenti
[28].
Questo Patriarca, nato più per la vita militare che per l’ecclesiastica, menò gran guasto
nei campi di Puglia, promettendo ai suoi soldati
cento giorni d’indulgenza per ogni albero
d’ulivo che recidessero! Se non che, ritornato in Andria il Principe di Taranto,
Gianantonio Orsini, il Patriarca, vistosi a mal partito, se la diede a gambe,
imbarcandosi a Bisceglie per Ancona
[29].
Per parecchi anni si protrasse la guerra fra Angioini ed Aragonesi. Ma, con la morte del Caldora,
avvenuta nel Novembre del 1439, e con l’intervento del Duca Visconti di Milano, Alfonso d’Aragona
rientrava vittorioso in Napoli, il 2 Giugno 1442.
Renato d’Angiò si ritirava allora in Francia, e con lui cadeva del tutto, e per sempre, la dominazione
degli Angioini e dei Di Durazzo, che, da Carlo I sino a Renato, aveva regnato per ben 168 anni.
Re Alfonso d’Aragona si fece ben amare dai suoi popoli, verso i quali fu largo di concessioni e di privilegi.
Andria ottenne pure molte e speciali concessioni dal Re Alfonso, come in seguito diremo.
NOTE
[23]
Vedi Muratori: Annali sotto anno 1423.
[24]
Muratori: Rer. Italic. Scriptor Tom. XXII, col. 228. Ludovico De Raimo: Istor. di Napoli.
[25]
Muratori: Annali
sub anno 1436. Summonte Tom. II, Lib. IV, Cap. IV, pag. 636.
[26]
Muratori: Annali d’Italia. ann. 1435.
[27]
Costanzo Lib. VII, pag. 403.
[28]
Durso loco citato, pag. 170. Ricavata tal notizia dall’Archivio Ducale.
[29]
Ettore Pignatelli, presso il Muratori coll: 1107. Summonte Tom. II, Libro IV, Capo IV, pag. 638.
*
* *
Ed ora, fermandoci agli avvenimenti della città e del nostro Capitolo, spenderemo una parola,
sul nostro Duca Francesco II del Balzo, il quale, per quanto lo abbiamo visto prode e valoroso
nelle lotte civili, sostenute in difesa del Re Alfonso d’Aragona, per altrettanto lo vedremo
pio e benefico a vantaggio della città e del nostro Capitolo.
Passato a miglior vita il Duca Guglielmo Del Balzo, Francesco II, suo figlio, tutte ne ricopiò
le virtù del padre e dell’avo suo, le quali si riflettevano poi nell’anima gentile della sua
impareggiabile sposa, la Duchessa Saucia, donna di eminentissima pietà cristiana,
dalla quale Francesco ebbe tre figli, Pirro, Engelberto e Caterina.
A Francesco II del Balzo devesi il ritrovamento del Corpo di S. Riccardo, dal prudente Sacrista
della Cattedrale celato, nella invasione degli Ungheri, come si ò innanzi narrato.
Era l’anno 1438 quando un nostro concittadino per nome Tasso
[30]
presentavasi al Duca, confidandogli di conoscere il luogo, dove era stato nascosto il Corpo di S. Riccardo,
a tempo della invasione unghera, per notizia avuta dal Duca Guglielmo
(padre di Francesco II del Balzo) e da Mons. Melillo, Vescovo e cittadino andriese,
i quali, per le circostanze dei tempi, allora poco propizii, non avevano creduto
opportuno dissotterrarlo. Il pio Duca Francesco, animato da vivo sentimento di devozione
verso il Glorioso Santo Protettore, dopo d’aver assunto ottime informazioni sulla condotta
di detto Tasso, ne informò il Vescovo, allora
Giovanni Dondeo, unitamente al quale,
si condusse nel Duomo, per fare le opportune ricerche, nel sito dal medesimo Tasso indicatogli.
A ridosso dell’altare maggiore, messo sul presbiterio, egli vi scoprì un altarino, al quale
si accedeva per tre scalini, avendo, nella base, un’apertura a guisa di sportello,
larga per quanto vi potesse penetrare con abilità una testa d’uomo. Dietro quello sportello
miravasi una pietra levigata, sulla quale era segnata una croce. Il meraviglioso poi era,
al dire dello stesso Duca, che, da quel sacro deposito, usciva un soave profumo,
che propagavasi per tutta la Chiesa. Eravi poi un altare, e, presso quell’altare,
l’effigie del Santo, di greca mano, quasi rosa dalla vetustà. Eranvi ancora molte altre pitture
di Pontefici e di Santi, e, presso la porta della stessa Chiesa
[31],
varie immagini di Ecclesiastici, ed altre cose, fra cui il titolo, che indicava il Vescovo del tempo,
ed altro. Eravi pure dipinto un vasello ed una iscrizione. Tutti questi amminicoli
furono dal Duca e dal Vescovo attentamente osservati, e si stabilì di fare ancora maggiori ricerche,
per poter riscontrare l’epoca, in cui fosse vissuto il Santo, rimandando ad altro tempo
lo scoprimento delle sante reliquie. Ma il Tasso non dava più pace al Duca, per indurlo
allo scoprimento delle ossa del Santo, tanto che, al dire del medesimo Duca,
gli era diventato nemico per la sua importunità.
Tassus est mihi versus in hostem,
hostem scribo oh suam importunitatem. Intanto, divulgatasi la voce nella città,
molti accorrevano ad osservare quel luogo scopertosi, tanto che i Preti della Cattedrale,
ad impedire quel concorso dei curiosi, adibirono quel luogo a sacrario. Fu allora
(al dire sempre dello storico Duca), che quel luogo fu meno frequentato,
e non più da esso emanava quel soave profumo, che prima si avvertiva.
Finalmente si venne nella determinazione d’ispezionare segretamente tutto quel recinto, nella speranza
sempre di rinvenire qualche antica scrittura, che attestasse l’epoca del Santo.
Era il dì 23 aprile 1438, quando il Duca Francesco del Balzo, unitamente al figlio Pirro,
al Vescovo Giovanni Dondei, al sacrista della Cattedrale ed al sullodato Tasso, recossi nel Duomo,
verso il mezzodì, essendo le porte di accesso chiuse, ed i cittadini intenti al desinare,
od ai loro negozii. Giunto al luogo indicato, il Duca ordinò al Tasso di estrarre, dal lato della base,
la grossa pietra, che la copriva; e, con sorpresa di tutti, venne in vista una piccola cassa,
avvolta in drappo rosso, circondata da un mucchio d’immondezze, alto circa un mezzo piede,
cagionato dalla lavanda degli arredi sacri, dai rottami di vasi, dalla cenere ed altro,
essendo stato adibito quel luogo a Sacrario! … Però, (al dire del medesimo Duca)
quella cassa e quel drappo ne uscirono incontaminati da quel putridume … Per ordine del Vescovo,
il sacrista, che nomavasi Giovanni, rimossa la lapide, che chiudeva il muro, estrasse quella cassa,
lunga un gomito, ed alta mezzo, e, scoperchiatola, si videro le ossa del Santo ed i suoi sandali,
ravvolti in un mantello di pelle nera; coi sandali vi erano pure il cuore ed il capo,
le di cui ossa lucevano di color rosso. Raccolta reverentemente ogni cosa in un drappo di seta,
quel santo deposito venne collocato sull’altare maggiore, dove, dal Sacrista D. Giovanni,
furono accese delle candele. Un soave odore si sprigionò allora da quelle ossa,
da profumarne tutta la Chiesa. Ecco le testuali parole dello storico Duca del Balzo:
Præsbytler iam candelam accendit, et subito tantus de corpore odor emanavit
quod nos adstantes insuper et totam Ecclesiam replevit.
Compresi dalla gioia e dallo stupore per tanto miracolo, i presenti si prostrarono al suolo,
ringraziando e benedicendo Iddio ed il Santo Protettore, quando uno strepito indescrivibile
si manifestava alle porte della Chiesa, con mi-nacce di abbatterle, se non fossero tosto aperte;
lignum super lignum non relinquetur. Il Vescovo ed il Duca fecero rispondere,
a mezzo del Sacrista, a quella turba di popolo fremente, di non potersi, per allora,
aprire le porte della Chiesa. Ma, vedendo che il tumulto cresceva, ed il popolo già cominciava
ad abbattere le porte, diedero ordine di aprirle, vedendo, nella voce del popolo,
la voce di Dio: non esse bonum Deo resistere. Aperte le porte, un’onda di popolo
corse a prostrarsi ai piedi di quell’altare, riducendo a pezzi quel mantello,
che covriva le ossa venerate del Santo, volendo ognuno portare seco un ricordo.
A dire dello Storico Duca, una gran siccità affliggeva, in quel tempo, la nostra città, ed,
in quel giorno della Invenzione del corpo di S. Riccardo, il tempo era serenissimo, quando,
nella medesima ora, in cui avveniva lo scoprimento di quelle ossa, il Cielo si copriva di nubi,
ed una pioggia abbondante veniva a scaricarsi sulla nostra città e sulle nostre campagne,
allietando ogni cittadino.
Dopo otto giorni da quello scoprimento, premessa una solenne processione per la città,
quelle sacre reliquie restarono esposte sull’altare maggiore, alla venerazione dei fedeli,
mentre il capo ed il cuore furono depositati nel vestibolo, il primo chiuso in una teca d’argento,
il secondo in un vaso di cristallo. Al dire dal medesimo pio Duca, quel Curare trasudava
un liquore, che spandeva un odore celeste!.
Ma la perfidia umana, in ogni tempo, suscita uomini, che non si commuovono neppur alla vista
dei portenti! … e gridano all’idolatria, alla superstizione, quando la lor mente piccina
non giunge a comprendere quanto sia mirabile Iddio nei Santi suoi! … ed,
avendo pur gli occhi aperti, non arrivano a veder la luce, in pieno rneriggio! …
Tal fu di alcuni nostri antenati, i quali, pur spettatori di quei prodigi, si rifiutavano
prestar culto al nostro Santo, che dicevano saper d’idolatria:
Aliqui perversi animo obloquuti sunt, quad malum videtur eis hunc Sanctum colere,
quia iam idolatria causabatur. Così scriveva il pio Duca del Balzo.
Laonde un Sacerdote della Cattedrale, per nome Angelo de Leone,
devotissimo del Santo, assai contristavasi di questa contrarietà,
e tutto s’adoperava a convincere i susurroni del loro errore.
Ma, a confondere quei novelli farisei, venne in aiuto la Provvidenza ed il medesimo Santo.
Avvenne che l’Arciprete di quel tempo, per nome
Guglielmo, avendo in custodia
l’archivio Capitolare, fra le tante scritture, rinvenne tre calendarii,
non consueto modo scripti, ma (secondo narra il Duca del Balzo), per ciascuna parte
del foglio, erano distanti otto o dieci lettere, in modo che, in questo vuoto,
potevasi scrivere il giorno della morte. Questi calendarii, al dire dello storico Duca,
erano stati scritti quando il Santo passò da questa vita:
et hi (calendarii)
inventi sunt scripti quando Sanctus ipse migravit a saeculo:
cioè colla data del 9 giugno, circostanza che, prima, ignoravasi … E questa,
dice il medesimo Duca, fu la causa, per cui non erasi rinvenuta la leggenda del Santo
(cioè perché non si conosceva il giorno, in cui veniva commemorato)
Est quippe nona dies Iunii (dies obitus), quod antea ignorabatur,
existimo causam fuisse quod legenda non erat inventa
[32].
Da quei calendarii si apprese pure, che il giorno della canonizzazione del santo
(che anticamente consisteva nella traslazione del corpo dal sepolcro all’altare)
coincideva col giorno della nuova Invenzione, cioè nel 23 di aprile,
ciò che il pio Duca attribuisce pure a miracolo del Santo:
Miraculum existimo, certum etiam quod eodem die novae inventionis Translatio
suae canonizationis erat.
In uno di quei calendarii si leggeva pure, che S. Riccardo aveva operato cento miracoli,
ancor vivente, e che il suo corpo conservavasi (prima del nascondimento) nella Confessione
della Chiesa Cattedrale. Questo calendario, scritto in caratteri longobardici,
segnava pure l’anno da che avvenne la traslazione, ossia canonizzazione del Santo,
scorgendosi solamente tre CCC, che indicavano ii numero degli anni trecento,
essendo rose dal tempo le lettere ed i numeri, che precedevano questa cifra.
Al dire del medesimo storico Duca, al posto di quelle lettere, rose dal tempo,
potevasi aggiungere solamente indicazione del nome del Santo. Il medesimo Duca
ci assicura pure che, dopo poco tempo, fu pure rinvenuto, nel vestibolo della Chiesa,
un foglio del Messale, nel quale si leggeva l’oratio, il secreta ed il postcomunio,
proprii del Santo: il resto poi dello scritto era consumato dalla vetustà del tempo:
Post paulum ævum iterum inventum est in vestibulo folium Missalis, oratio,
et secreta propria et postcomunio ipsius sancti legebatur. Residuum vero
scripturæ propter senium consumptum erat.
Tutte queste prove (a dir dello stesso Duca) neppur bastarono a convincere i susurroni,
i quali, perché non era stata, allora, rinvenuta la leggenda del Santo,
stimavano doversi smettere ogni culto e venerazione …
Ma il pio e zelante Sacerdote Angelo de Leone non si arresse, e supplicando
fervorosamente Iddio ed il Santo Protettore, perché nuove prove venissero ad attestare
la verità intorno al Santo, di cui si dubitava, con animo quasi profetico,
si portò nuovamente a far ricerca nella cassa, che conteneva le reliquie del Santo,
e, con sua grande sorpresa, riscontra la chierica, ossia il pellicranio del Santo,
chiusa in una carta, sulla quale era scritto, in caratteri longobardici:
haec est clerica Sancti Riccardi: Né ciò bastando, fatte ancora altre ricerche,
dopo qualche tempo, furono pure rinvenuti, nelle città circonvicine, alcuni antichi breviarii,
che riportavano la leggenda del Santo, segnato nel dì di sua festività (9 giugno),
leggenda, che molti vecchi Sacerdoti di Andria, al dire dello storico Duca, attestavano di averla letta.
Ma, nulla di tutto ciò giovava a convincere i detrattori. Onde il pio duca
Francesco II Del Balzo, raccolti tutti i documenti (cioè Calendarii, breviarii, messale ecc.)
inviò a Roma l’Arciprete di Ruvo, per esporre al Papa Eugenio IV la vertenza,
e per avere autorizzazione di potersi continuare il culto al Santo Protettore.
Il Papa, dopo d’aver tutto diligentemente esaminato, ordinò che si continuasse
il culto a S. Riccardo; e, ad aumentarne anzi la devozione dei fedeli,
concesse pure le indulgenze nel giorno della sua festività.
Il Cardinal Giovanni dei Conti di Tagliacozzo, Vescovo Prenestino (detto il Cardinal Tarantino,
perché era stato antecedentemente Arcivescovo di Taranto), fu incaricato dal Papa
di esaminare tutti i relativi documenti, presentatigli dal P. Pretrella, dei Minori Conventuali.
Ed il Cardinale, dopo diligente studio, riferì al Papa in favore del Santo. Anzi,
fu tale la convinzione, ch’ebbe il Cardinal Tarantino della verità della cosa, che,
nel rimettere poi al Duca la cedula, mandò dicendogli non esser necessario
domandare alla S. Sede ulteriore canonizzazione del Santo, essendo troppo esaurienti
le prove fornitegli; aggiungendo, che, se a lui avessero pur dimandato, se avesse
avuto luogo la cano-nizzazione di S. Cataldo, (già Arcivescovo di Taranto),
avrebbe risposto di non poterlo dimostrare; ma, ciò non pertanto, la nostra devozione
verso quel Santo sarebbe rimasta la stessa, senza dar retta ai mordaci che la impugnassero …
Quei documenti, però (a dire dello storico Duca) andarono smarriti,
o per negligenza del detto Frate Petrella, o per altra causa.
[33]
Perché poi non si perdesse la memoria di ogni cosa, il pio Duca Del Balzo dopo sette anni,
volle scrivere la
Storia della Invenzione del Corpo di S. Riccardo,
narrando quanto sin qui siamo andati dicendo, concludendo con queste testuali parole:
Unde volens ego Franciscus de Baucio, Dux Andriæ, de hoc verum testimonium perhibere,
hanc legendam propria manu, et proprio dictatu primo scripsi, anno Domini 1451
decimo quinto die mensis Septembris decimæ quintæ indictionis, ad laudem et honorem
Individuæ Trinitatis Patris et Filii et Spiritus Sancti.
Prima di scrivere la sua istoria, il pio Duca dichiara pure di scrivere tutto
ciò che egli stesso
ha costatato coi propri occhi e vagliato col suo intelletto,
senza farsi allucinare dall’ambizione di far mostra di lingua, ma facendosi guidare
solamente dal pensiero di
far risplendere la luce della verità intorno al nostro Santo.
Ecco le testuali sue parole:
Etsi tantæ hujus rei testimonium perhibendi
ignarus sum, quam ego ipse meis sensibus intellexi, qui omnibus adfui, recte tamen
hæc scientibus irreprehensibilis inveniri cupio. Ambitio in me nulla gestit,
nec eruditio disertæ linguæ me possidet; sed ad hæc articulos simul et calamum movi,
ut veritas super candelabrum locum obtineat, ut supra montes existat firmata.
[34]
E ciò valga, anche una volta, a ribadire quanto abbiamo scritto nel Cape II,
in contradizione dei Bollandisti, i quali, mentre asseriscono di avere alta stima
pel nostro storico Duca, dichiarandolo accuratissimo nella narrazione
dei fatti avvenuti in quella Invenzione, poi non vogliono credere a quanto
l’accuratissimo Duca, in quella medesima narrazione, va esponendo! …
*
* *
Dopo la
Invenzione del Corpo di S. Riccardo, Andria riacquistò la sua primitiva fede
e devozione verso il Santo, il quale non mancò di mostrare poi la sua protezione
per essa, operando innumerevoli e strepitosi prodigi.
[35]
A manifestare poi la sua deferenza verso il Capitolo della Cattedrale, il buon Duca,
per la fausta circostanza della Invenzione del Corpo di S. Riccardo,
istituì in Andria una Fiera (la quale aveva prin-cipio dal dì 23 al 30 aprile di ciascun anno),
concedendo a detto Capitolo il privilegio della così detta Bandiera,
il quale consisteva nel l’investire il Capitolo di tutti i diritti,
che il Duca e l’Università eser-citavano su tutta la città.
Per quegli otto giorni della Fiera il Capitolo aveva tutta la ordinaria giurisdizione
della città, sia
politica che
economica, sia in rapporto al
contenzioso che
al
lucrativo, formando esso tutti gli atti e processi nelle cause,
tanto civili, che criminali, senza eccezione alcuna di persone; restando sospese
tutte le altre cariche, ed Ufficii della città, godendo, esclusivamente,
il Capitolo di tutti i privilegi inerenti ai medesimi; ispezionando sui pesi e misure;
riscuotendo tutti gli emolumenti, tutte le derrate, gabelle, dazii e quanti balzelli,
od altro spettasse alla Corte Ducale ed alla Università. Per quegli otto giorni,
insomma, il governo della città era
esclusivamente nelle mani del Capitolo,
il quale, a tal effetto, eligeva dal sue gremio Cinque Canonici, i quali prendevano
il nome di
Giudici, e mastri della Fiera. A rappresentante nelle cause
civili e criminali, questi
mastri della Fiera sceglievano poi un
Dottore
laico, che prendeva il nome di
Assessore, al quale delegavasi la giurisdizione
nelle dette cause. Questi
mastri della Fiera facevano costruire un’apposita Tribuna
sul largo, detto
la Corte
[36],
dove si raccoglievano i cinque Giudici, che, a nome del Capitolo, esercitavano la giurisdizione
su tutta la città. I loro nomi venivano segnati su tante
bandiere, quante erano
le piazze della città. Ed è perciò che, ancor oggi, la festa del 23 Aprile,
vien chiamata
S. Riccardo della Bandiera.
A confermare tal privilegio della Fiera, il Duca Francesco II Del Balzo ottenne
pure dal Re Alfonso d’Aragona
un Diploma, dato da Capua a dì 6 maggio del 1438.
[37]
E lo stesso Duca rilasciava poi al Capitolo un suo documento, che qui pure, in nota, riproduciamo.
[38]
Quel privilegio fu pure confermato da Consalvo II Ferdinando di Corduba, divenuto possessore
del Feudo di Andria, con decreto del 25 Gennaio 1550, munito di regio assenso dal Vicerè di Napoli,
D. Pietro di Toledo, sotto l’impero di Carlo V. con real placito del 20 Mario 1550.
[39]
Di tal privilegio il Capitolo ha goduto pacificamente sino al 1779, nel qual anno la Università,
d’intesa col Duca Riccardo Carafa, produsse una istanza al supremo Tribunale della Regia Camera
di Santa Chiara in Napoli, per l’abolizione di quel privilegio, quattro volte secolare,
asserendo esser quello un abuso nocivo alla città, e contrario alle leggi della polizia del Regno! …
Il Capitolo si difese virilmente dagli attacchi dell’Università e del Duca;
ed il Tribunale Provinciale, cui fu rimessa la vertenza, fe’ ragione al Capitolo,
ordinando al Governatore della città la solita osservanza di quel diritto della Fiera e relativi privilegi.
Il Governatore, però, amico del Duca Carafa e della Università, non si diè pensiero
di far eseguire quella sentenza del Tribunale Provinciale. Il Capitolo fece allora
reclamo al detto Tribunale, e questi diede incarico al suo Mastrodatti,
il Signor Domenico Fabricatore, di recarsi espressamente in Andria, ad accogliere
le deposizioni di ogni ceto di persone, circa il vantato dritto del Capitolo,
contrastato dalla Università e dal Duca, per ragioni di ordine pubblico. Quelle deposizioni
riuscirono favorevoli al Capitolo, tanto che il Tribunale Provinciale diè piena facoltà
al medesimo di esercitare la solita giurisdizione nel foro nundinale,
senza punto preoccnparsi delle coutrarietà della Università e del Duca.
Gli Ufficiali della Università, non potendo far altro dispetto al Capitolo, per la vittoria
da questo riportata, niegarono la consegna dei Pesi e Misure, dall’Università autenticati,
onde sopraintendere ai venditori negli otto giorni della fiera. Fatto nuovo ricorso
all’Udienza del Tribunale, questa ordinò la consegna immediata dei pesi e misure,
dando anche altri opportuni provvedimenti. Con tutto ciò l’Università non si arrese;
e nuovamente si appellò alla Presidenza della Regia Commissione in Napoli, la quale ordinò
ad ambo le parti di produrre le ragioni in propria difesa.
La causa durò ben cinque anni, spendendo il Capitolo oltre a sei mila ducati! …
In quel frattempo si agitavano pure altre cause a Roma ed a Napoli contro le due Collegiate,
le Comunità Religiose e le Confraternite laicali (circa i diritti di Parrocchialità),
per cui il povero Capitolo, esausto di forze e di quattrini, rinunziò alla causa contro
l’Università, pel diritto della Fiera. E la Università allora spogliò il Capitolo
di quel privilegio, quattro volte secolare.
[40]
Di tal privilegio esistevano nel nostro archivio quattro Pergamene, una del Re Alfonso d’Aragona,
l’altra del Duca Francesco II Del Balzo, la terza del Gran Capitano Consalvo Fernandez di Cordova,
la quarta di D. Pietro da Toledo. Queste pergamene andarono tutte distrutte nell’incendio,
dato dai francesi alla nostra Sacrestia ed al nostro Archivio nel 1799. Fortunatamente
di quei quattro documenti si trovano copie autentiche, estratte per le cause sostenute
contro la Università, come è detto innanzi.
[41]
Un altro diploma di Re Alfonso d’Aragona andò pure distrutto dai francesi, nell’incendio
dato anche all’Archivio municipale. Questo Diploma, in data 6 Agosto 1439 esentava la nostra città
da ogni gabella, dogana, balzelli, ecc., per la fedeltà addimostrata ad Alfonso d’Aragona.
Di questi privilegi faremo menzione nel Capo seguente.
NOTE
[30]
Fu quel medesimo Tasso, che donò i suoi beni alla costruzione della Chiesa e del Convento di
S. Maria Vetere.
[31]
Da non confondere la Chiesa, quale attualmente si vede.
[32]
Richiamiamo qui l’attenzione del lettore, tenendo presente quello che abbiamo detto
innanzi riguardo alla critica dei Bollandisti, circa
la invenzione della legenda.
[33]
Dovettero forse restare presso il detto Cardinal Tarantino a Roma.
[34]
L’autografo di questa Istoria (in lingua latina) conservasi in Roma, nella Biblioteca Vallicelliana.
L’Ughelli n’estrasse copia, pubblicandola nella sua
Italia Sacra:
Volume VII, pag. 927 e seguenti.
[35]
Devonsi al pio Duca Francesco II Del Balzo quei
bassorilievi (rappresentanti i prodigi
operati dal Santo, ancor vivente), fatti scolpire lungo i due ititercollunii,
che circondano l’altare maggiore della Cappella di S. Riccardo.
[36]
Questa tribuna avea ingresso dalla Camera, dove oggi ha stanza la Congregazione del SS.mo,
avendo allora l’uscita sulla piazza della Corte. Accanto a quella tribuna eravi la lapide,
che ricordava quel privilegio e lo stemma del Duca Del Balzo. Quella lapide fu distrutta
quando l’Università abolì tale privilegio; si vede però tuttora il solo stemma.
[37]
Ecco il
Diploma: Alfonsus Dei Gratia Rex Aragonum, Siciliæ citra, et ultra Farum etc.
Universis et singulis præsens privilegium inspecturis pro parte magnifici,
et spectabilis Viri Franscisci De Baucio, Ducis Andriæ et Montis Caveosi Comitis, Consiliarii,
et Fidelis nostri plurimum sincere dilecti, porrecta culmini nostro petitio, quæ continebat,
quod propter reverentiam Beati Richardi, cujus corpus in majori Ecclesia Civitatis suæ Andriæ
extit adinventum … cuperent nundinas octo tantum diebus in anno in perpetuum …
consideratione reducentes Fidei inconcussæ constantiam, et sincere Fidelitatis fervorem
quibus ipse magnificus Dux, et Universitas, et homines sopradicti erga nostram Majestatem
in prædictis fluctuosis temporibus. Gratiose concedimus, quod in ipsa Civitate Andriæ
octo diebus anni cujuslibet possint et libere valeant habere Nundinas, et mercatum francum …
Datum Capuæ die sexta mensis Maji primæ Indictionis, sub anno Millesimo quadrigentesimo trigesimo octavo.
[38]
Ecco quel documento: Franciscus De Baucio, Dux Andriæ, Comesque Vigiliarum, ac Dominus Bantii etc …
Recolimus temporibus præteritis concessisse Capitulo et Clericis Majoris Ecclesiæ Civitatis
nostræ Andriæ Forum, seu Nundinas octo dierum, in Festo Inventionis Beatissimi corporis S. Richardi,
de mense Aprilis, duraturas in ipsa Civitate per octo dies, et quoniam nullam habeant scripturam,
nobis supplicaverunt, ut ad futuram memoriam aliqnam concessionem interponeremus. Nos etc …
Datum in Civitate nostra Andriæ vigesimo septimo mensis Martii, tertiæ Indictionis,
Millesimo quadringentesimo quadragesimo. Franciscus De Baucio.
[39]
Dall’Archivio capitolare. Vedi il
libro dei privilegi N. 6. La copia del diploma
di D. Pietro da Toledo fu estratta nel 1743 (vedi libro dei privilegi a pag. 19- 21).
La copia del diploma del Duca Del Balzo fu estratta a 29 Giugno 1743, ed un’altra
a 21 aprile 1779. La copia del diploma di Consalvo Ferdinando di Cordova leggesi
a pag: 16 - 18 del medesimo libro.
[40]
Dall’Archivio Capitolare - Libro delle cause.
[41]
Archivio capitolare: vedi
libro dei privilegi.
[tratto da “Il
Capitolo Cattedrale di Andria e i suoi tempi” di M. Agresti, tipi
Rosignoli, Andria, 1912, Vol.I, Cap. VII, pagg.137-157]