Contenuto
da "Il Capitolo Cattedrale di Andria ed i suoi tempi" - Vol. I
di Michele Agresti (1852-1916)
Capo VIII
(anni 1446-1482)
Molti altri previlegi ottennero il Capitolo e la città di Andria sotto il beneaugurato
governo di Re Alfonso d’Aragona e del pio Duca Francesco II del Balzo.
Giusta le leggi ecclesiastiche di quel tempo, i fedeli erano tenuti a pagare annualmente
le decime al Clero. L’Università, per molti anni, aveva trascurato questo suo obbligo;
ma, indotta dal pio Duca Francesco II, a dì 6 settembre del 1453, fu redatto
un pubblico istrumento, in virtù del quale, tanto il Duca, quanto l’Università si obbligavano,
non solamente di pagare annualmente le dovute
decime, ma, a riparazione
del mancato obbligo, per lo passato, si obbligavano anche di cedere, per l’avvenire,
a vantaggio del Capitolo Cattedrale, la terza parte di tutte le
gabelle e dazii,
che si percepivano dalla Università e dal Duca su tutti i generi commestibili
(come olio, vino, grano, carne, ecc.) che consumavansi nella città.
Questo atto pubblico fu rogato dal Notar
Fontus Vitus de Primicerio, alla presensa del Vescovo,
in allora Mons. Antonello, del Capitolo, del Duca Francesco II del Balzo e dei rappresentanti
l’Università di Andria, nobile
Tonto Vulpone, Nicola Paulo Mele, Bartolomeo de Leopardis,
Madino Giov, Longo, Vittorio Simone, Renzo Debuonpossessore.
Detta donazione, consecrata in publico istrumento, fu ratificata da Papa Nicola V,
con lettera apostolica, datata da Roma
anno incarnactionis Domini Millesimo quadrigentesimo
quinquagesimo tertio (1453), pridie novas octobris, Pontificatus nostri (Nicolai V) anni VII
[1].
Per la esecuzione di quella disposizione pontificia fu delegato, qual Commissario Apostolico,
il vescovo di Ruvo, in allora Mons. Pietro Pervense, il quale, radunati nel palazzo ducale
tutti i Preti della Cattedrale, con a capo il Vescovo
Antonello, gli amministratori
anzidetti dell’Università ed il Duca Francesco II del Balso, diè lettura di quella lettera
apostolicae, che ratizzava la donazione, fatta a favore del Capitolo. Dopo di che fu redatto
un altro istrumento pubblico, che assicurava l’avvenuta esecuzione, data a quella lettera apostolica.
Ci piace riportare qui il brano seguente di quel rogito, per dimostrare da quanta viva fede
erano animati i nostri buoni antenati, che allora reggevano la cosa pubblica,
e quali sentimenti di vera pietà cristiana nutriva il pio Duca Francesco II Balzo: …
« … Dicti vero Laici, videlicet Ill.mus Dux et Rectores dictae Civitatis, considerantes eorum animas
magno affici periculo, et aedificari ad gehennam ignis, dictas decimas non solvere et datia a clericis percipere,
voluerunt et eorum spontanea voluntate in recompensatione supradictorum datiorum perpetuo dare promiserunt tertiam partem Iummellae
[2]
cum proventibus omnibus et poenis percipiendis ex dicta Iummellae gabella dicto Episcopo,
Capitulo et Clero, necnon et eorum successoribus, itaque quolibet anno, quo dicta Gabella Iummellae venditur,
intervenire debeat unus nomine et pro parte dicti Domini Episcopi, Capituli et Cleri, qui recipiat obligationem
dictae tertiae partis dictae Gabellae Iummellae in casu, quo dicto GabeIla non vendatur,
habeat tertiam partem victualium intrantium in dicta Gabella» …
Tale donazione, ratificata da Papa Nicola V. fu poscia munita di Regio assenso dal Re Alfonso d’Aragona, con decreto del settembre 1454
[3]
Di tutta questa
Giummella, che, in ogni anno, si corrispondeva dai cittadini andriesi,
[dal raccolto del grano, orzo e fave], due terzi s’introitavano dalla Università,
e l’altro terzo dal Procuratore
protempore del Capitolo della Cattedrale, il quale, da questo terzo,
una terza parte consegnava al Vescovo e l’altre due terze parti si distribuivano fra tutto il Clero della città,
a titolo di
decima Parrocchiale.
Nel 1606 l’Universita sospese quell’obbligo; ma, avendo il Capitolo fatto ricorso alla S. Sede,
questa comminò le censure canoniche, obbligando l’Università a soddisfare l’assunto obbligo; per cui nuove liti
furono suscitate fra il Capitolo e l’Università, come a suo tempo diremo. Tale obbligo, però, durò sino, al 1763,
nel qual anno la Regia Camera della Summaria dispose, che la Gabella della
Giommella dovesse andare tutta a beneficio della Università
[4].
E cosi il Capitolo fu spogliato di quel privilegio, concesso in perpetuo dal pio Duca del Balzo, e dagli amministratori di quel tempo.
E, non solamente il Capitolo godeva il diritto di esazione su tutte le gabelle, ma godeva pure del diritto
di
esenzione dal pagamento d’ogni gabella. A darne pruova, riportiamo qui un attestato dell’Esattore comunale,
il Sig. Francesco Santoro, rilasciato a dì 22 Ottobre 1763, (quando fu discussa la causa presso la R. Camera
della Summaria in Napoli): «Faccio fede ed attesto con giuramento
quatenus ecc., Io sottoscritto Francesco Santoro,
Regio Agrimensore di questa città di Andria, qualmente, coll’occasione che io in moltissimi anni, come nel corrente,
ho esatto, come esigo la colletta del vino mosto e la
giommella del grano, orzo e fave seminate e raccolte,
a questa magnifica Università di Andria dovuta, so benissimo, che il Rev.mo Capitolo della Cattedrale,
ed unica Parrocchial Chiesa di questa città e la Mensa Vescovile della stessa non hanno mai pagato,
ne pagano detto peso della
colletta e
giummella per quelli loro beni, stabili di vigne e terre, che hanno tenuto,
e tengono per proprio conto rispettivamente. Ma qualora da detto Rev.mo Capitolo e Mensa Vescovile
tali respettivi beni si sono fittati e si affittano ad altri, li conduttori hanno pagato e pagano i pesi suddetti,
avendoli io esatto, ed esigendoli in questo caso solamente da essi conduttori e
non già dal Rev.mo Capitolo
e dalla Mensa Vescovile, qualora li loro respettivi beni si sono fatti da essi coltivare,
ed immediatamente percepito il fruttato. Onde ecc.»
[5].
Ecco quali e quanti privilegi godeva il Capitolo Cattedrale in quel tempo!.
NOTE (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva)
[1]
Esiste copia, nell’Archivio capitolare, di detta lettera apostolica, che qui omettiamo per brevità.
Chi volesse leggerla potrà riscontrarla in un altro nostro lavoro:
Il Preteso giuspatronato
del Comune di Andria sul Beneficio Priorale della Cappella di S. Riccardo, Roma.
Tipografia Agostiniana 1905 - La pergamena andò distrutta nell’incendio del 1799.
[2]
Iummella (
giumella nel nostro dialetto) è la misura di un’apertura delle due mani congiunte.
[3]
Archivio capitolare, Copia di quel decreto, nel libro dei Privilegi.
[4]
Archivio capitolare. Dal libro delle cause dell’anno 1763; pag. 267.
[5]
Archivio capitolare. Libro delle cause 1763.
*
* *
Ma, si dirà,
eran quelli tempi, in cui la civiltà non era ancor matura e le ragioni dello spirito
e quelle civili erano stranamente confuse con danno della fede e del popolo.
[6]
Erano, insomma, tempi del
medio evo! epoca
dei preti e dei frati! epoca della
barbarie, in cui
i Preti e i frati avevano il mestolo della cosa pubblica! Per cui si godevano, dai medesimi,
tanti privilegi, che, ora, non confanno pia colla moderna civiltà! E qui ci si permetti un’altra digressione.
A dire il vero, sono gli uomini che fanno il tempo, e non è il tempo che fa gli uomini! Gli uomini del
medio evo
[7]
erano più ossequenti alle leggi della Chiesa, e più rispettosi verso i Preti e frati. Ecco tutto. Ma è poi vero,
che il
medio evo era l’epoca
del preti e dei frati, l’epoca dell’
ignoranza e della
barbarie?
Eppure, ancor oggi, uomini di alto sapere, di profonda conoscenza della storia, con ghigno sprezzante,
parlano tanto male del medio evo, pur conoscendo, che tutto quel che vi ha di grande, e che a noi sia pervenuto,
si appartiene al medio evo! A questa progenie di eunuchi, col cervello di stoppa, col cuore gelido e vuoto,
senza fede né amore, senza ispirazione, senza genio dell’arte, noi vorremmo presentare un Dante,
gloria della religione e dell’arte, un Carlo Magno, un Gerberto, un Goffredo di Buglione, una Giovanna d’Arco,
un Tommaso d’Aquino, un Alberto Magno, un Idelbrando (Gregorio VII), un Alessandro III, un Innocenzo III,
un Gregorio IX e cento altri personaggi del medio Evo, uno solo dei quali basterebbe ad illustrare una età, una storia ! …
Ai mingherlini poi del secolo illuminato (dai fuochi fatui!), che con lo sguardo stupido ed imbambolato,
chiamano il medio evo l’epoca dei preti e dei frati, l’epoca della barbarie, noi additiamo i miracoli
di Granata e di Toledo, le Cattedrali di Reims, d’Amiens, di Yorch, di Roma, di Siena, d’Orvieto, di Firenze,
di Bologna, di Notre Dame di Parigi ecc. e diremo loro: Ecco quel che seppero fare i preti nel medio evo!
E qual opera si è fatta oggi, che superi, od eguagli almeno quelle del medio evo? Nessuna …
Se tu interroghi ogni città d’Europa, ogni città d’Italia; se, muto di meraviglia, contempli le migliori opere d’arte,
che vi son profuse, e, con riverenza, domandi: in che tempo sorgeste? Ti risponderanno nel medio evo.
[nell’epoca dei preti e dei frati!] nell’epoca, che si dice barbara!. Ed eran barbari quei preti, quei frati,
che intimavano ai Principi d’esser giusti e pietosi coi popoli, o scendere dal trono? Eran barbari quei preti e quei frati,
che proteggevano gli oppressi ed alzavan la voce contro gli oppressori?. Eran barbari quei preti e quei frati,
che aprivano scuole agl’ignoranti, ricoveri ai mesti, asili ai poveri, ospedali agl’infermi? E non furono
questi preti e questi frati barbari e, per aggiunta, ignoranti, che, nel silenzio delle loro celle,
mentre occidente era inondato da veri barbari tramontani, travagliato da guerre, da rapine, da saccheggi,
attendevano a copiare, in pergamene, le opere dei filosofi antichi, dei poeti, degli storici, dei giuristi più insigni,
e vi ornavano quei manoscritti di preziosissime miniature, che formano ancor oggi ammirazione di tutti
e la ricchezza delle più rinomate Biblioteche?. E chi non sa che, mentre i Danesi incendiavano i monasteri d’Inghilterra,
gli Scandinavi quelli di Germania, i Normanni quelli di Francia, i Saraceni d’Africa quelli di Spagna,
gli Ungheri quelli di Lombardia, e poscia i Saraceni di Sicilia e di Sardegna quelli d’Italia, i barbari preti,
gl’ignoranti frati del media evo salvavano tutte le opere dei greci e dei latini, dandosi a frugare fra le ceneri e nelle stalle,
per rintracciare quei fogli preziosi, ch’eran sfuggiti alle fiamme, o serviti di strameggio ai cavalli,
ivi allocati? E, se non fosse stato per quei benemeriti preti e frati del medio evo, sel sappiano gl’imberbi studentelli,
oggi non si avrebbe affatto cognizione delle opere di Platone, di Erodoto, di Tucidite, di Omero, di Livio,
di Tacito, di Varrone, e di Cicerone! Furono quei benemeriti preti e frati del medio evo che nascosero in casse di piombo,
in cisterne asciutte, in camere murate, in sotterranee caverne tante e tante opere, che poi vennero alla luce!
E furono i Pontefici di quel tempo che, a mettere in salvo le opere antiche dei grandi, comminarono scomuniche
a chi possedesse opere appartenenti ai Monasteri ed alla Chiesa ed indulgenze di colpa e di pena, in remissione
dei peccati commessi in guerra coi saccheggi e coi sacrilegi, a chi donasse alle Cattedrali ed ai monasteri libri, a questi involati!
E difatti, in quei tempi, si videro molti di quei potenti Langravi, Signori e Guerrieri, farsi un pregio di recare,
in vassoi d’oro o d’argento, libri rilegati in finissime pelli, con borchie d’oro, a pie’ degli altari, riportandone
l’assoluzione delle loro colpe! E questa è storia! Eppure, dai taccolini dei nostri giorni, il medio evo vien chiamato
l’epoca dell’oscurantismo, l’epoca del fanatismo religioso, della prepotenza papale; e prepotenti son chiamati
i Papi di quel tempo; barbari ed ignoranti i preti e frati del medio evo!
Poveri taccolini ! … Essi, o non conoscono la storia, o voglion dar prova d’ingratitudine, calunniando quel medio evo
e quei benemeriti preti e frati, che ci han tramandati le scienze, le arti belle, le lettere, la coltura,
la civiltà, tutto, insomma, che ci ha di buono, di grande.
Chiudiamo questa digressione con le parole non sospette di un luminare, che non appartiene al medio evo,
ma che è, anzi, in buona vista dei moderni sapientoni, che dicon male del medio evo. Il Gioberti:
Ecco quanto scrive nel suo Gesuita Moderno:
«Lo studio delle lingue, delle memorie, dei monumenti ci dimostra,
nel crepuscolo dell’istoria,
la maestosa comitiva delle falangi
sacerdotali, uscenti di mano in mano dalla regione posta fra l’Indo e l’Eufrate,
nuova culla del genere umano; e a poco a poco si diffuse nelle varie parti dell’Asia, dell’Africa, dell’Europa,
e perfino nella Oceania e nell’America, recando per ogni dove
leggi, arti, scienze, lettere, riti, oracoli, istruzioni.
- Onde, il medesimo Gioberti, conclude dicendo – il Sacerdozio, considerato anche come magistero civile,
fu
creatore e pacificatore delle nazioni, autore e conservatore d’ogni loro progresso
[8].»
Ecco che cosa han fatto
i preti ed i frati del medio evo.
NOTE
[6]
Così scriveva l’on. R. O. Spagnoletti in una sua monografia:
Gli Andriesi illustri: Francesco II Del Balzo: pagina 27.
[7]
Il
medio evo ebbe principio dalla morte di Teodosio il Grande nell’anno 395, chiuso secondo alcuni,
con la presa di Costantinopoli dai Turchi nel 1453, secondo altri, protratto sino alla scoperta dell'America,
fatta da Cristoforo Colombo nel 1492, e, secondo altri, con la discesa di Carlo VIII in Italia nel 1494.
[8]
Gioberti,
Il Gesuita moderno - Tom. IV, pag. 246 e seguenti.
*
* *
Ed ora ritorniamo alla storia della nostra città e del nostro Capitolo, rimasta agli sgoccioli del medio evo!
In questo tempo il Reame di Napoli andò soggetto a forti e ripetute scosse di terremoto, massimamente nel 1456,
nel qual anno, nelle viscere della terra sentivasi continuamente un gran fremito, che metteva in tutti spavento.
Sul finire del dicembre di quell’anno, più di trentamila persone, in tutto il Regno, eran rimaste seppellite fra le macerie,
a causa dei terremoti! . . . Più d’ogni altra regione ne risentirono i danni Terra di Lavoro, Abruzzi e Puglie.
Al terremoto seguì una terribile peste, causata, forse, dalla corruzione dei cadaveri, rimasti insepolti.
Andria non andò esente da questi terribili flagelli, che fecero qui non poche vittime.
Intanto Re Alfonso d’Aragona moriva in Napoli a dì 27 Giugno del 1458, nel Castello dell’Ovo.
A Lui succedeva nel Reame il figlio naturale Ferdinando, o, secondo altri, Ferrante (dal padre legittimato),
che già aveva disposata Isabella di Chiaromonte, sorella della nostra Duchessa Saucia, moglie di Francesco II del Balzo.
In questo tempo un’altra vertenza fu composta fra il Capitolo della Cattedrale e la Collegiata di S. Nicola,
circa i diritti di parrocchialità, auspice il nostro piissimo Dura Francesco II Del Balzo.
La Collegiata di S. Nicola, fin dalla sua istallazione in Andria, pretendeva esercitare i medesimi diritti parrocchiali,
che aveva esercitati nella sua primitiva residenza di Trimoggia. Il Capitolo della Cattedrale, invece, tenace difensore
dei suoi diritti parrocchiali, contrastò sempre le pretese di quella Collegiata. Già nel 1126, essendo avvenute
le prime scaramucce fra la Cattedrale e S. Nicola, come innanzi dicemmo, il Vescovo Ilderico aveva emanato il primo decreto,
col quale si ordinava a quei Preti di San Nicola,
ne in futurum auderent aliquid innovare circa l’amministrazione del sacramenti.
Nel 1328, essendo cresciuto il numero degli abitanti (erano 25 mila), il Vescovo di quel tempo, Domenico,
credé necessario chiamare la Collegiata di S. Nicola
in adiutorium della Cattedrale, nell’esercizio della cura delle anime,
duratura tamen usque dum non minueatur numerus animarum
[9].
II Capitolo della Cattedrale accettò quella coadiutoria
salva semper libertate eidem Capitulo ad sui libitum reassumendi
integram administrationem, ac quod semper fiant salva jura Chatedralis
[10].
Stabilite ed accettate queste condizioni da ambo le parti, fu concesso alla Collegiata di S. Nicola di poter costruire
anche un cimitero nei pressi della sua Chiesa, oltre alle sepolture ch’esistevano di dritto patronato delle famiglie gentilizie in detta Chiesa
[11],
con l’espressa condizione
quod in exequiis defunctorum debeant intervenire Capitulares Cathedralis, et omnia emolumenta
dividere cum Praesbyteris S. Nicolai: con l’altra condizione, che i Preti di S. Nicola dovevano pagare alla Cattedrale,
in signum subiectionis, per ciascun defunto
sexdecim cavallos
[12].
Tutte queste condizioni erano state consecrate in pubblico istrumento nel 1328, con giuramento di volerle costantemente
adempiere in ogni tempo, sottoponendosi anche i Nicolini a determinate multe, in caso d’inadempienza, e dando garenzia
alla Cattedrale su tutti i beni, che la Collegiata di S. Nicola possedeva
præsentia et futura in ampliori forma
Cameræ Apostolicæ cum clausolis et conditionibus apponi solitis et consuetis etc.
Intanto le promesse restarono promesse, le condizioni assopite, l’istrumento a raunare polvere nell’Archivio notarile,
ed i Preti di S. Nicola, ottenuta la Coadiutoria, l’esercitò cum plenitudine iuris, non più curandosi degli obblighi
assunti verso la Cattedrale, specialmente nel l’associare i defunti. Di qui nuove liti, cause, scandali, ecc.
Il Vescovo d’allora, Mons. Dondei, il Duca Francesco II Del Balzo e l’Università si adoperarono a sedare quelle discordie,
che tenevano in grande agitazione la città. Fu percia redatto un pubblico istrumento per Notar Francesco Caputi di Andria,
in data 21 agosto 1446, nel quale, mercé l’intervento del prelodato Vescovo, del Duca e della Università,
fu stabilito quanto siegue «si accordava ai Preti di S. Nicola la facoltà di poter associare i cadaveri dei soli fedeli
appartenenti a quella Chiesa, e che avessero però scelta quella sepoltura; a condizione pure che, ogni volta,
ne tenessero avvisato il Vescovo ed il Capitolo della Cattedrale, il quale avrebbe delegato un Sacerdote del suo gremio,
il quale associandosi ai Preti di S. Nicola, nell’accompagnamento dei cadaveri, e nell’assistenza alle relative esequie,
avrebbe ricevuta la sua
rata di candele di denaro e di qualunque altro emolumento, egualmente a qualunque
altro Prete della Collegiata di S. Nicola». Non destinandosi dal Capitolo della Cattedrale (previo avviso dei Niccolini)
un tale sacerdote, fu convenuto doversi lasciare all’arbitrio dei Niccolini la dovuta offerta al Vescovo ed al Capitolo
della Cattedrale, per i loro diritti parrocchiali. In riguardo poi ai defunti non appartenenti alla Chiesa di S. Nicola,
e specialmente per rapporto ai forestieri e
vagabondi, morti dentro o fuori la città, fu convenuto,
doversi questi associare esclusivamente dal Capitolo Cattedrale, ed esser tumulati nella sua Chiesa, o nel suo Cimitero.
A rendere solide e durature tutte queste condizioni, stabilite nel detto istrumento di concordia, i due Capitoli dettero
a garenzia tutti i beni delle rispettive Chiese, (
sia mobili che immobili, sia presenti che futuri) col diritto
d’impossessarsene
auctoritate propria, et praesentis infrascripti vigore, non exquisita licentia Judicis vel Praetoris …
promettendo, per l’avvenire di non venire
mai più (?!!) a nuove liti, ma di voler vivere
pacifice et perpetuo
permanere in pace; aggiungendo la clausola, che la parte contravveniente a tali condizioni avrebbe sborsata
alla parte adempiente
cinquanta once di oro
[13]! …
Questo pubblico istrumento fu sottoscritto da tutti i componenti i due Capitoli, dal Vescovo Dondei, dal Duca Del Balzo,
dal suo Luogotenente
Antonellus de Pesinis e da altri testimoni, che omettiamo per brevità
[14].
Fra i componenti il Capitolo della Cattedrale figurano i soli nomi delle quattro dignità, l’Arcidiacono
Lillus de Mele,
l’Arciprete
Petrus Andreas de Guasto, il Cantore
Iacopus de Leopardis, il Primicerio
Angelus Vulpone
ed il Cancelliere Vescovile ed Archivista
Felice Zingaro. Gli altri Canonici,
brevitatis gratia, omittuntur.
Perciò non ci è riuscito aver notizie degli altri componenti il Capitolo in quel tempo.
NOTE
[9]
Archivio Capitolare -
Volume delle cause 1763, pag. 2 - 3.
[10]
Idem, ibibem, pag. 4.
[11]
In quel tempo tutti i cadaveri erano tumulati in Chiesa o nei pressi delle Chiese.
[12]
Cavallo, moneta napolitana minutissima, portante l’effigie del cavallo. Essa corrispondeva al terzo
di un centesimo; sicché 16 cavalli equivalevano a poco più di cinque centesirni! …
[13]
Quanto erano facili a promettere i nostri buoni vecchi preti! e quanto erano ancor più facili
a venir meno alle loro promesse, come in seguito vedremo.
[14]
Archivio Capitolare.
Libro delle cause. 1763 -pag. 5 (retro).
*
* *
Il Vescovo Mons. Giovanni Dondei morì nel 1451, dopo quasi diciassette anni di Vescovado.
A lui successe, a dì 29 Settembre del 1452,
Fr. Antonello, dell’ordine dei minori Conventuali.
Questo Vescovo fu trasferito in Andria dalla sede Vescovile di Gallipoli. Mons. Fr. Antonello fu,
in pari tempo, Vescovo di Andria e di Montepeloso, la quale Diocesi, al dire dell’Ughelli
[15],
da quell’epoca, fu unita alla diocesi di Andria.
Noi troviamo, invece, che, anche prima di Mons. Antonello, la Chiesa di Montepeloso era unita
alla Diocesi di Andria. Difatti il Vescovo Giovanni Dondei, nell’istrumento innanzi detto di concordia
fra il Capitolo della Cattedrale e la Collegiata di S. Nicola, si firma
Episcopus Andrien et Montis Pelosi
[16].
Di questa unione delle due Diocesi (Andria e Montepeloso) ci è riuscito avere quest’altra notizia,
in una nota, ricavata nel 1763 da Mons. Bartolomeo Regoli, dai libri delle tasse del Sacro Collegio:
Fuit mandatum uniri dicta Ecclesia terrae Montis Pilosi B. M. De Fuso extra muros dictae terrae
(Montis Pilosi) cujus etiam 24 florin: fructus etc. … dum et quando Franciscus (Del Balzo)
Dux Andriae applicaverit de bonis suis dictae Ecclsiae 200 florin: Augeatur taxa in fiorin. 16 ⅔.
Dunque, sembra che la unione di Montepeloso ad Andria sia avvenuta ai tempi di Francesco I Del Balzo,
il quale fu pure Signore di Montepeloso.
Sotto il Vescovato di Mons. Fr. Antonello troviamo queste notizie in riguardo all’Arcidiacono Lillus De Mele.
Questo Lillus viene riconfermato Arcidiacono nel 1452 da Papa Nicolò V, con Bolla di collazione in forma dignum,
data da Roma: apud S. Petrum 1452 V Idus Octobris Pontificatus S. M. Nicolai PP. V. anno sexto pontificatus sui.
Il
Lillus de Mele, trovavasi già, da molti anni, Arcidiacono della Cattedrale, per
ordinaria autorità insignito
dal Vescovo
De Nigris, senza aver tenuto conto della costituzione di Papa Eugenio IV, la quale stabilisce,
che la collazione delle dignità,
Post Pontificales majores, in tutti i Capitoli andar deve soggetta alle riserve
ad affezioni apostoliche. Venuto, però, in Andria il Vescovo Fr. Antonello e, vista la irregolarità,
in cui si era incorso, tosto ne informò la S. Sede, per gli opportuni provvedimenti. Il Papa Nicolò V,
che occupava allora la Sede Apostolica, volendo reintegrare Arcidiacono
Lillus De Mele (dal Vescovo commendato
per la bontà di costumi e d’altri meriti) con Bolla dell’ottobre 1452, diè facoltà al Vescovo Fr. Antonello
di
assolvere il De Mele dalla inabilità e dalla macchia d’infamia contratta, e di sottoporlo ad un
rigoroso
e coscienzioso esame, dal quale, se fosse riuscito idoneo all’ufficio arcidiaconale, gli avesse conferito tal dignità
con tutti i relativi diritti e preeminenze (non esclusa la
Cura delle anime, a quel heneficio annessa
[17] ),
in conformità della Bolla
Execrabilis di Papa Giovanni XXII, che viene invocata nei soli beneficii, cui è annessa la cura delle anime.
Il Vescovo Fr. Antonello, dopo d’aver assoluto il
De Mele dalle irregolarità, nelle quali era incorso,
e dopo d’averlo sottomesso all’imposto esame, ottenne per lui la Bolla
in forma dignum, di cui è fatto innanzi parola.
Però il povero arcidiacono
Lillo De Mele non sopravvisse che poco tempo alla nuova investitura, giacché,
due anni dopo, noi riscontriamo eletto alla dignità Arcidiaconale
D. Domenico De Montepiloso,
con Bolla di collazione
in forma gratiosa, data da Roma:
apud S. Petrum net 1454, VIII Idus Aprilis,
Pontificatus ejusdem Nicolai PP. V. anno octavo pontificatus sui
[18]
Fu questo. Arcidiacono
Domenico di Montepiloso dottore in legge, letterato esimio,
di vita e di costumi intemerato, come leggesi nella sua Bolla di collazione
[19].
Nel 1454 troviamo a Primicerio della Cattedrale un tal
Ial e Canonici
Laurentius Coppulo, Stefanus Bonosmiro, Daniel Franciscus De Noja.
[20]
NOTE
[16]
Archivio Capitolare, loc. cit.
[17]
Da ciò risulta, che la cura delle anime, anticamente annessa al Capitolo Cattedrale, era rappresentata dall’Arcidiacono
e non dall’Arciprete, come venne in prosieguo, e come è tuttora. Difatti fu i1 Concilio di Trento,
che operò tale mutamento nel beneficio Arcidiaconale, staccandone la cura delle anime, ad esso annessa.
Dopo questo mutamento, quando Pio IV, nel 1563, con la Costituzione
Benedictus Deus, confermò tutti gli atti
del Concilio tridentino, allora la Cura delle anime passò all’Arciprete, quale Vicario perpetuo del Capitolo Cattedrale,
cui solamente Competeva il diritto di unica Parrocchiale della città. Ciò viene confermato
anche da varie alle allegazioni
ad sacra limina dei Vescovi andriesi, fin dal 1590.
[18]
Archivio Capitolare:
Libro delle cause (1763).
[19]
Archivio capitolare. Queste due Bolle, che sono due preziosi documenti per la storia del Capitolo,
in quei tempi remoti, furono estratte nel 1763 dal registro delle lettere di Papa Nicolò V.
collazionate da Mons. Ferdinando Martinez, Maestro Decano del Registro.
Regist. Lib. VI ann. VIII, f. n. Nicolai PP. V, pel 79).
[20]
Da un pubblico istrumento del 1454, (per donazione fatta dalla Università di Andria, con autorizzazione di Papa Nicola V,
di una parte delle Gabelle a favore del nostro Capitolo, per Notar Antonio Macabeo. Archivio Capitolare).
*
* *
Per rapporto ai fatti del Reame, il 27 giugno 1458 moriva in Napoli Alfonso d’Aragona, cui successe suo figlio Ferdinando,
cognato del nostro Duca Francesco II Del Balzo.
Salito appena sul trono Re Ferdinando d’Aragona, nuovi torbidi vennero a travagliare il Reame di Napoli.
Gran parte dei Baroni ed il Papa Callisto III [1455-1458] non vollero riconoscere la successione di costui,
il Papa perché voleva dare la corona a suo nipote, Pier Luigi Borgia. Ma, nel successivo agosto [il dì 6],
di quel medesimo anno, passato a miglior vita Papa Callisto, a lui successe, il dì 27 agosto, il Cardinale
Enea Silvio Piccolomini, che prese il nome di Pio II (1458-1464). Questo Pontefice, memore dell’antica amicizia
di Casa d’Aragona, e propiziato anche dal nostro Duca Francesco II Del Balzo, recatosi in Roma a far omaggio al nuovo Pontefice
[21],
gli accordò tutto l’appoggio. Per mezzo del Cardinal Latino Orsino, Arcivescovo di Trani, (comune parente
del Re Ferdinando e del nostro Duca Francesco II Del Balzo) Re Ferdinando ottenne d’essere incoronato Re
nella città di Bar-letta, nella Chiesa di S. M. Maggiore, a dì 4 febbraio dell’anno 1459
[22],
dopo però aver prestato giuramento di fedeltà alla S. Sede Apostolica.
A quella solenne cerimonia intervennero, in Barletta, oltre ai Grandi Ufficiali e Dignitarii dello Stato, gran numero di Baroni
e Sindaci delle varie città del Regno, in una ad un popolo immenso, accorso da ogni parte
[23].
A dimostrare il Re la sua gratitudine al nostro Duca Francesco II Del Balzo, suo cognato e Gran Contestabile del Regno,
e ad appagare anche il desiderio della Regina sua moglie, Isabella (la quale volea visitare in Andria sua sorella,
la nostra Duchessa Saucia, che, al dire dello Storico Durso, trovavasi inferma), dopo quella solenne incoronazione,
si portò da Barletta in Andria, con tutto il seguito della sua Corte, dove, al dire del medesimo Durso, si trattenne
due giorni, passando poi a Castello del Monte, dove fece dimora per parecchi altri giorni
[24].
In quel Castello, al dire del medesimo Durso, fu combinato e conchiuso il matrimonio fra Pirro Del Balzo
(figlio del nostro Duca Francesco II) e Maria Donata Orsini, figlia di Gabriello, Duca di Venosa,
e cugina alla medesima Regina Isabella
[25].
Assunta la Corona Reale Re Ferdinando d’Aragona, la pace e la tranquillità nel regno ebbero ben poca durata.
Il Principe di Taranto, Gianantonio Orsini (zio della Regina Isabella e delle due Duchesse, Saucia,
moglie di Francesco Del Balzo, e Maria Donata di Venosa, moglie di Pirro Del Balzo), non sappiamo
per quale corruccio, corso tra lui ed il Re Ferdinando, messosi a capo di alquanti Baroni del Regno, prese iniziativa
per discacciare dal Regno Re Ferdinando, chiamando sul trono Giovanni di Navarra, zio dello stesso Re Ferdinando.
Ma rifiutatosi Giovanni, perché contento che il regno restasse nelle mani di suo nipote Ferdinando,
l’Orsini venne ad offrirlo a Giovanni d’Angiò (che governava allora Genova), perché riprendesse la successione,
abbandonata da suo padre Renato.
Giovanni d’Angiò non si fece troppo pregare; e, nell’ottobre di quell’anno medesimo 1459, dopo d’aver approdato
nelle coste di Napoli, passò i feudi della Campania, che avevano inalberata la sua bandiera; indi passò negli Abruzzi,
e di là in Puglia. Lucera, Foggia, Sansevero, Troya, Montesantangelo e Manfredonia gli aprirono le porte. Andria,
Barletta, Trani, Giovinazzo, Canosa e Minervino restarono fedeli all’Aragonese Re Ferdinando. Bari, Bitonto,
Molfetta, Corato, Lavello facevano adesione, man mano, al Principe Orsini
[26].
Intanto, venuti a battaglia i due rivali, Ferdinando fu disfatto a Sarno dagli Angioini e dai Baroni fedifraghi.
Scorato Re Ferdinando, a dì 8 Luglio 1460, si ritirò a Napoli con pochi dei suoi. Nell’estate dell’anno seguente,
però, Ferdinando ricuperò varie terre, riprendendo, a viva forza, Montesantangelo sul Gargano, asportandovi tutti i tesori,
che ivi erano stati nascosti dai ribelli, per le spese della guerra; riparando poscia a Barletta, dove le schiere nemiche,
guidate dal Conte Giulio d’Acquaviva e da Iacopo Piccinino, lo cinsero d’assedio. Ma Pio II, che proteggeva Re Ferdinando,
aveva inviato suoi legati ambasciatori nel l’Epiro, per indurre Giorgio Castriota, detto
Scanderbech, a venire
in aiuto del Re Ferdinando, ricordandogli l’aiuto a lui prestato da Alfonso d’Aragona, padre di Ferdinando, nella guerra
contro i Turchi, promettendogli pure di dare tutto il suo appoggio, con una Crociata contro i Turchi, nel caso che la guerra
si riprendesse. Lo
Scanderbech aderì all’invito di Pio II, e raccolti 800 albanesi, con altri mille
dei suoi più fidi militi, approdò tosto a Barletta. All’annunzio di quell’arrivo i nemici di Re Ferdinando,
che erano insediati in Barletta, ne furono sgomenti, e si dettero a precipitosa fuga, attraversando
le campagne di Andria, e prendendo la volta della Basilicata
[27].
Re Ferdinando, affidata la città di Barletta allo
Scanderbech, fe’ ritorno allora nella Capitale.
Intanto il Principe di Taranto, non avendo potuto ottenere adesione del suo congiunto Francesco II Del Balzo
e del di lui figlio Pirro, profittando della partenza del Re, e poscia dello
Scanderbech, nell’estate
dell’anno seguente 1462, volse le armi contro la nostra città, per avere nelle mani Francesco e Pirro Del Balzo
[28].
Raccapricciante è la descrizione che fa di quell’assedio il Pontano, autore accuratissimo, ed, in gran parte,
testimone oculare di quel che allora accadde.
Andria, però, che avea ben meritato il titolo di
fidelis dallo Svevo Imperatore Federico Barbarossa, non poteva smentire
la sua
fedeltà all’Aragonese suo Re, che tanta predilezione le aveva addimostrata. È perciò che, unito al suo prode
Duca Francesco II Del Balzo, (pur parente dell’Orsini, Principe di Taranto), non temé d’affrontare tal potente nemico,
che associatosi ad una masnada di malfattori, ferocemente venne a mettere lo scompiglio nelle nostre fertili campagne,
abbattendo alberi secolari, distruggendo vigneti, oliveti, dando fuoco alle biade, già mature pel ricolto, e diroccando
quanti edificii esistessero nelle campagne e fuori le mura della città! … . Indi, facendo uso della polvere pirica,
da poco inventata, quei masnadieri vennero all’assalto della città. I nostri valorosi cittadini, benché impari di numero,
purtuttavia, animati dal prode Duca Francesco II Del Balzo e dal non men valoroso suo figlio Pirro, opposero tale resistenza,
che gli avversarii, non potendo penetrare in città abbattendo le mura, pensarono aprire, di notte tempo,
una mina nei pressi della vallata, detta di S. Lorenzo (messa fuori le mura), sperando così di poter penetrare nella città,
per un cavo sotterraneo, ivi praticato. Ma, mentre essi credevano d’esser riusciti nel loro intento,
i cittadini andriesi, avendo saputo dello stratagemma degli avversarii, operarono una contro mina
[29]
per affrontarli, e farne quindi un vero macello. E cosi fu. Incontratisi, in quel cavo sotterraneo, nulla sospettando gli avversarii,
furon tutti catturati; e devesi alla bontà del Pio Duca, se non furon tutti linciati per bene, come si meritavano;
laddove furono quei militi rinviati tutti liberi al campo, donde si erano imprudentemente partiti,
dando così gli Andriesi anche prova di generosità e di nobiltà d’animo ! …
Intanto l’assedio alla nostra città ancora durava, ed i nemici aspettavano che la fame avrebbe fatto loro aprire le porte.
E, difatti, cominciavano a mancare i viveri e l’orzo, del di cui pane si cibavano i nostri poveri assediati.
Ond’è che il buon Duca Francesco II del Balzo, compreso dall’affetto che gli Andriesi nutrivano per lui, contenti pur di dare la vita,
anzicché vederlo nelle mani degli avversari, pensò di capitolare con questi, addivenendo alla resa, sotto l’espressa condizione,
che non lo avessero costretto a giurare infedeltà al Re Ferdinando. Accettata tale condizione dall’implacabile Orsini,
furono aperte le porte della città, dopo 49 giorni d’assedio
[30].
Intanto il Principe Orsini, profittando che Pirro Del Balzo trovavasi in Andria, a difesa del Padre, corse a Minervino
coi suoi per soggiogare quella città, Signoria di Pirro Del Balzo. Pirro, avutone sentore, tosto partì, con due mila fanti,
alla volta di Minervino, ma troò la città già caduta nelle mani di Gianantonio Orsini! La Duchessa moglie di Pirro,
la quale trovavasi in Minervino pregna e prossima al parto, pensò rifugiarsi, con i suoi figlioletti, nel Castello
di quella città, opponendovi virile resistenza, ed incoraggiandovi anche i figli alla difesa di quel Castello,
da non cederlo sino a che non fosse stato smantellato dalle artiglierie del feroce Orsini, zio della detta Duchessa,
la quale, dopo qualche giorno, dette alla luce un pargoletto
[31].
L’inumano Principe, dopo finte carezze e varii doni, fatti alla puerpera, sua nipote, la mandò poi prigioniera a Spinazzola!
[32].
Impossessatosi il Principe Orsini di Andria e Minervino, portò l’assedio alla vicina città di Canosa, non risparmiando
neppure la tomba del famoso Normanno Boemondo, esistente in quella Chiesa Cattedrale!
Ma, dopo parecchie sconfitte subite, l’Orsini, vistosi a mal partito, chiese la pace, che ottenne, a condizione,
che si fosse staccato da Giovanni d’Angiò e dal Piccinino, ai quali s’imponeva obbligo di allontanarsi,
fra quaranta giorni, dalla Puglia, coi loro militi
[33].
Così tornò finalmente la calma nel Regno.
Conchiusa la pace, Andria e Minervino tornarono ai rispettivi Signori, i Del Balzo, i quali strinsero maggiore vincolo
di amistà col loro congiunto Gianantonio Orsini, ottenendo da questi in moglie ad Engelberto (secondo genito di
Francesco II Del Balzo e fratello di Pirro), Maria Conquesta Orsini, figlia naturale di Giannantonio,
il quale non aveva avuto prole alcuna dalla sua legittima moglie Anna Colonna
[34].
Dopo tante vicende, Gianantonio Orsini moriva nel Castello d’Altamura, a dì 16 Settembre 1463. Corse voce
che fosse stato strozzato dai suoi servitori, corrotti dal Re Ferdinando d’Aragona.
NOTE
[21]
Giannone, Lib. XXVII, pag. 411.
[22]
Di Costanzo,
Storia del Regno di Napoli, Lib. XIX. - Giovanni Pantano,
De bello, Neapoli. – Muratori,
Rer. Italic. Scriptores, Tom. XXII.
[23]
Costanzo, op. cit. L. XIX — Giannone,
Storia civile, Tom. VI., Lib. XXVII, pag. 57-59.
[24]
Durso,
Storia d’Andria, pag. 107 - Il Durso dice d’aver ricavata tale notizia dall’Archivio Ducale di Andria.
[27]
Summonte, op. cit. Tom. III Lib. V — Costanzo op. cit. Lib. XX.
[29]
Di qui venne il nome a quel largo ed a quella strada, detta
Fravina, (cioè
fra mina), dove s’incontrarono gli avversarii fra mina, e contro mina, praticate in quel cavo sotterraneo.
[31]
Costanzo, Lib. XX., pag. 504.
[33]
Pontano, loc. cit., Lib IV.
[34]
Durso, op. cit., pag 111.
*
* *
Intanto il nostro beneamato Duca Francesco II Del Balzo, stanco di tante lotte, e compreso da veri sentimenti
di cristiana pietà, pensò ritirarsi dalla politica e dai fasti del mondo, per dedicarsi ad una vita
tutta dedita alle pratiche religiose. Nel 1472 rinunziò nelle mani del Re Ferdinando anche la carica
di Gran Contestabile del Regno, carica, che fu dal Re conferita al di lui figlio Pirro, Signore di Minervino.
Ad imitazione del suo avo (Francesco I Del Balzo), il pio Duca Francesco II si dedicò tutto a beneficare la nostra citta,
ed, in preferenza gl’istituti religiosi. Fe restaurare Andria dai danni sofferti in quell’assedio;
fe costruire la porta detta
della Barra; fe innalzare, nel centro della città, una torre per un pubblico orologio:
Istituì un’altra fiera dal 24 al 30 Giugno di ogni anno, intitolandola a S. Giovanni
[35],
fiera che oggi non ha più luogo. Sotto il suo governo ducale, con pubblico denaro, ed a sua iniziativa,
fu rifusa la grande ed antichissima campana, detta
della Madonna, per la torre del nostro Duomo.
Per opera sua fu compiuto il convento dei PP. Domenicani, (iniziato dal suo avo Francesco I), ed ingrandita
la Chiesa di S. Domenico, coll’aggregarvi la chiesetta di Santa Colomba, a quella adiacente. A lui devesi
pure l’ingrandimento della Chiesa di S. Maria Vetere, e non poche altre opere pie della città.
A favore del Monistero di S. Domenico accordò poi quattro miglia di mare, nell’Adriatico (possessione a lui pervenuta
come beni burgensatici), consecrando questa donazione in un pubblico istrumento, rogato dal Notar Ottaviano dei Natali,
in data 31 Gennaio 1474, ratificato da Nicola De Angotta, Giudice Regio ai contratti
[36].
Quel tratto di mare, donato ai PP. Domenicani, era volgarmente detto
il mare di Andria in Puglia,
ed i Domenicani ne tennero possesso sino a che non fu soppresso il loro Convento in Andria dalla dominazione francese del Bonaparte.
La pietà del nostro Duca Francesco II Del Balzo fu tale, che, nei giorni festivi, indossava, in Chiesa, l’abito Francescano [? Domenicano] dei Terziarii.
Al Duca Del Balzo si attribuisce quella predizione, che portò poi allo scovrimento della Immagine della Madonna dei Miracoli,
messa nello Speco della valle di S. Margherita in lamis, a circa un miglio di distanza dalla nostra città.
Raccontasi che un dì, passando per quei pressi il pio Duca, arrestando il suo cavallo, avesse detto ai suoi cavalieri,
che gli tenean corte, qui dentro avvi un ricchissimo tesoro; beato colui che si troverà nel suo scovrimento! …
Quelle parole furono, dai suoi cortigiani, intese in senso di materiale tesoro, per cui, sparsasi la voce nella città,
molti cittadini si recarono, in quel sito, a farne le ricerche; ma invano, giacché il pio Duca, ispirato forse dalla Vergine,
intendeva parlare della miracolosa immagine, che, in quella vetusta Grotta, si celava; immagine, che fu poi scoperta nel 1576,
come a suo tempo diremo.
Francesco II Del Balzo morì nel 1482, nell’età di 72 anni, lasciando di se fama di santità. La sua venerata spoglia,
chiusa in apposita cassa, e depositata nella Sacrestia della Chiesa di S. Domenico, dove conservasi tuttora intatta,
visibile a quanti accorrono a visitarla. Nella medesima Sacrestia sorge un busto marmoreo (fatto scolpire,
per gratitudine dai PP. Domenicani), rappresentando il Duca in abito di Terziario. A pie’ leggesi la seguente epigrafe:
« FRANCISCO. EX. AVITO. AC. PRÆCLARO. MAJORVM. SVORVM. GENERE. DE.
BAVCIO. IN. INSIGNIS. GENTILITJ. SIDERE. INDICATO
MAGNO. REGNI. NEAPOLITANI. EQVITVM. COMITI. AC. ANDRIENSIVM. DVCI.
AMANTISSIMO. ALMO. GVILIELMI. DE. BAVCIO
ET. ANTONIÆ. BRVNFORTÆ. VIGILEARVM. COMITIS. FILIO. FRANCISCI. VERO. AVI.
SVI. EJVSQVE. CONJVGIS. SVEVÆ. VRSINÆ
NEPOTI. DIGNISSIMO. PYRRHI. AVTEM. ALTAMVRENSIVM. PRINCIPIS. AC.
VENVSINORVM. DVCIS. ENGELBERTI. ETIAM. NOLÆ
ET. ANTONIÆ. S. SEVERINÆ. COMITVM. PARENTI. OPTIMO
QVOD. EXVVIARVM. SVORVM. SCELETVM. IN. SVBJECTA. HEIC. ARCA. RECONDITVM. EX.
BENEVOLENTIA. SVA
HVIC. ORDINIS. FF. PRÆDICATORVM. FAMILIÆ. TESTAMENTO. RELIQVERIT. ALIAQVE.
BENEFICIA. CONTVLERIT
QVVM. DIEM. EXTREMVM. OBIIT. ANNO. REPARATÆ. SALVTIS. MCCCCLXXXII. ÆTATIS.
VERO. SVAE. LXXII
BENEFICENTISSIMO. JVSTO. AC. PIO. PRINCIPI.
EJVSDEM. CŒNOBJ. GRATA. FAMILIA. VNA. CVM. EJVS. SIMVLACRO. SVPRAPOSITO. IN.
PERENNE. MONVMENTVM
JVSTA. PERSOLVENS. HOC. EPITAPHIVM. APPONI. CVRAVIT »
[l'arcosolio di Francesco II del Balzo, fotografato da "Ist. Arti Grafiche - Bergamo", inizio Novecento]
La memoria di questo pio Duca è ancora scolpita nel cuore degli Andriesi, i quali devono a lui la devozione e la venerazione
che Andria professa al suo inclito Protettore S. Riccardo, del quale il pio Duca ne rintracciò la venerata spoglia
e ne scrisse la Istoria, che, tanta luce appone, per fugare le tenebre, in cui si avvolgeva la nostra città e la nostra Chiesa.
Scrisse pure una lettera, anche in latino, sul sito dov’era sepolto S. Francesco d’Assisi.
La istoria della Invenzione
di S. Riccardo fu pubblicata dall’Ughelli e dai Bollandisti, la lettera su S. Francesco dal Fusignano e dal Wadding.
NOTE
[35]
Spagnoletti,
Gli andriesi illustri, pag 33.
[36]
Durso, op. cit., pag. 112. - ricavato da una pergamena dell’archivio domenicano.
*
* *
In questo periodo di tempo (1446 - 1582), oltre al Vescovo Dondei e Fra Antonello, di cui è innanzi parola,
occuparono la sede Vescovile di Andria Mons. Fra Antonio De Giannotto, Mons. Rogerio De Atella,
Mons. Francesco Bertini, Mons. De Soto Maggiore e Mons. Angelo Floro o Florio.
Mons.
Fr. Antonio De Giannotto, dell’ordine Domenicano, apparteneva ad una nobile famiglia di Andria.
Egli fu preconizzato Vescovo di Andria e di Montepiloso da Pio II nel 1460. A questo Vescovo devesi pure attribuire
la resa degli Andriesi nell’assedio, portato ad Andria dal Principe di Taranto Gianantonio Orsini.
Vedendo questo buon Vescovo lo stato deplorevole della città, sfornita di vettovaglie, ed i cittadini presso
a morire di fame, mosso a pietà, persuase il Duca Francesco II Del Balzo, e i più resistenti alla lotta,
a desistere, com-promettendosi di recarsi in persona a supplicare il principe Orsini, onde metter termine
all’assedio della città; risparmiando così la vita al buon Duca ed ai poveri cittadini Andriesi.
E fu tale la eloquenza del santo, Vescovo, che riuscì
ad infrangere quella pietra,
qual era il cuore del Principe Orsini, dal tener mano dal sangue
[37].
Questo Vescovo fece, a sue spese, restaurare il Duomo, come rilevasi dalla Epigrafe sovrapposta al suo tumulo.
Egli morì nel 1463, dopo tre anni appena di Vescovado. Fu tumulato nella Chiesa Cattedrale, di fronte al Pergamo.
Ecco l’epigrafe, che lo ricorda:
HIC JACET
FR. ANTONIUS DE IANNOTTO
NOBILIS CIVIS ANDRIENSIS
EJUSDEMQUE EPUS AC MONTIS PILOSII
CUJUS INDUSTRIA
HAEC ECCLESIA REFACTA EST
MCCCCLXIII
Al Vescovo De Giannocto seguì, in quel medesimo anno 1463, Mons. Rogerius De Atella, dalla qual città
trasse sua origine. Ebbe anche Egli le due sedi unite, quella di Andria e di Montepiloso. L’Ughelli dice che,
fu seppellito nel Duomo, presso l’altare maggiore in cornu Evangelii, e ne riporta anche la iscrizione,
scolpita sul suo tumulo. Eccola:
«HOC SUA SUB TUMULO DEFUNCTA ROGERIUS OSSA
DUXIT ATELLANA, QUI GENUS URBE TRAHIT
PONTIFICIS TITULUM CUI GRÆCA SALUBRIA QUONDAM
TRADIDIT, & TANTO DIGNUS HONERE FUIT.»
Questo tumulo oggi più non comparisce nell’indicato luogo. A causa del rifacimento del pavimento, forse,
dové andar trasportato altrove, o restar seppellito sotto le macerie con la sua lapide!
[38]
Non si conosce l’anno di sua morte; ma dovette avere appena due anni di vescovado, giacché, nel 1465,
gli successe Mons. Francesco Bertini. Questo Vescovo Bertini è ignoto al Durso ed all’Ughelli,
dal quale il Durso par che abbia ricopiata la Cronologia dei Vescovi di Andria.
Il Cappelletti ed il P. Gams, autori accuratissimi e più recenti, hanno rintracciato questo altro Vescovo,
che mancava nella cronologia dei Vescovi di Andria. Il Cappelletti dice, che Mons. Francesco Bertini
ebbe la sede di Andria, a dì 7 ottobre 1465, preconizzato Vescovo da Papa Paulo II (1464 - 1471).
Nell’anno 1469, a dì 20 ottobre, Mons. Bertini era designato all’arcivescovado di Brindisi; ed in Andria
egli doveva esser sostituito da Niccolò, Vescovo di Venosa; ma, poiché questa traslazione non ebbe più luogo,
Mons. Bertini passò, a dì 11 Settembre 1471, alla sede di Capaccio, e qui, in Andria,
venne Mons.
Martino De Soto Maggiore, di nazione Spagnuolo.
[39]
Mons. Martino De Soto Maggiore (o Major) successe, dunque, al Vescovo Francesco Bertini,
e non già a Ruggiero De Atella, come asseriscono l’Ughelli ed il Durso. Mons. De Soto Maggiore,
come il suo predecessore, governò pure la Sede di Montepiloso. Questo Vescovo trasferì nella nostra Cattedrale
molte reliquie di Santi, come ne attesta la lapide, messa sulla parete dell’antico Sacrario,
dove oggi è sito il banco della Collegiata Insigne di S. Nicola.
«Martinus de Soto Major Epus olim
Plurima in hoc templum Sanctorum transtulit ossa.»
Fe questo Vescovo costruire varie Cappelle nel nostro Duomo, come pure la parte superiore del Campanile,
per ripararlo dall’aria; fe' pure costruire il Sacrario, nel luogo dove oggi trovansi i banchi, destinati
al Capitolo di S. Nicola, quando interviene alle sacre funzioni nel Duomo.
[40]
Tutto ciò rilevasi dalla epigrafe, che ne dà l’Ughelli, dalla quale rileviamo pure l’anno della morte di questo Vescovo,
che fu il 1477. Ecco epigrafe:
«Martinus tumulo, quem reddunt stemmata,
Sibillae genitus contigit Auxoniae
Parthenope rati Tran... Sydera notum
Concilia Baucium Andria Magna Ducem.
Andriae et effectus Praesul, Montisque Pelusii,
Condidit in templo plura Sacella, latus
Campanilis, et arcem hinc exit providus aere,
Atque humum superans exstrui Sacrarium,
Majoris pius arae praetextum opus. …
Quippe animam superis occulto. …
[41]
MCCCCLXXVII.»
L’Ughelli dice, che questo Vescovo è seppellito nella Chiesa Cattedrale, presso l’altare maggiore
in corms Epistolae, dove vi è la lapide, che porta inciso il detto epitaffio.
Questa lapide oggi più non si vede, essendo stata, forse, pur rimossa o seppellita sotto il nuovo pavimento del presbiterio ! …
Al Vescovo Spagnuolo
Martino De Soto Maggiore successe, nel 1477, un nostro concittadino
e Prete della Cattedrale, Mons. Angelo Florio, appartenente ad una nobile e cospicua famiglia di Andria.
Al dire dell’Ughelli, Mons. Florio
erat Iuris utriusque doctor longe clarissimus.
[42]
Questo Vescovo spese tutte le sue ricchezze a vantaggio della nostra Chiesa, e dei poveri della città.
Fornì di molte suppellettili la Cattedrale: fe' costruire nuovi sedili nell’antico Coro;
a sue spese rifece la Cappella di S. Riccardo: fe' trasferire l’altare della Nascita del Redentore
dall’antica Cappella, messa sul presbiterio (fatta poi murare per adagiarvi l’attuale
Credenza)
alla Cappella, detta di
S. M. del Capitolo
[43].
A lui si deve quell’antico ed abbrunato Crocifisso, che ammirasi nella Cappella dell’Addolorata;
a sue spese rifece tutta la tettoia del Palazzo Vescovile; dotò l’ospedale civile, e fece molte altre opere
di beneficenza. Come il suo predecessore, (Mons. De Soto Maggiore), il Florio arricchì la nostra Chiesa
di molte altre reliquie di Santi.
Egli occupò la sede Vescovile di Andria per ben 18 anni, essendo morto nel 1495. Fu tumulato nel Duomo;
e, sulla lapide, che copriva la sua spoglia, si leggevano i seguenti versi, che riepilogavano le sue opere e le sue virtù.
«Andrius Antistes hanc Florius Angelus aedem
Ornavit donis, muneribusque suis.
Optima Praesulibus tradens exempla futuris
Divino cultu quos decet usque frui
Hic Christum in medii suspendit culmine temple
Sanguine qui lavit crimina nostra suo.
Ipse etiam multa praesepia finxit in auro,
Nata Redemptoris, quae pia membra fovent,
Condidit, atque Chori numerosa Sedilia; nec non
Struxit Episcopii diruta tecta sui.
Isque libros plures sericoque auro quoque tecta
Qualia Sacra decet pallia multa dedit.
Edidit is Divi Richardi in honore Sacellum
Corpus ubi, atque ossa condita Sancta jacent.
Hoc quoque de niveo monumentum marmore factum
Erexit, sub quo conditus ipse jacet.
Est tamen in Patrio Pastor bonus, actus Ovili,
Cuique datum est merito Pontificale decus.
Sentiat ergo Deum Sibi faustum, propitiumque,
Tot bona qui Templo donat habere Dei.
MCCCCLXXXXV.»
[44]
Questa lapide è pure scomparsa! … Si scorge invece, sulla parete de l’antico Sacrario (dove ora trovansi
i banchi della Collegiata Insigne di S. Nicola), accanto allo stemma di Mons. De Soto Maggiore,
uno stemma di detto Vescovo Florio, rappresentato da una Vacca, e leggonsi i seguenti versi:
Florius, unde suum genus Angelus, urbi
Præfuit antistes, templi patriæquæ levamen.
Il Vescovo Florio va pure sotto il nome di Mons. Vaccarella, come difatti ci apprende il suo stemma.
Il Durso dice, che il nome di
Vaccarella nacque dal fatto seguente. Trovandosi il Florio,
(semplice Prete della Cattedrale) nel suo podere, detto
la Tavernola (messo nella vicinanza della Via Appia,
a pochi chilometri dalla nostra città) vide di lì passare un Cardinale, reduce da Taranto.
Si affrettò il buon Prete Florio ad incontrare l’Eminentissimo Porporato, pregandolo ad accettare un ristoro
nella sua rurale casetta della
Tavernola. Il Cardinale non si fece replicare l’invito, stanco ed affamato com’era,
pel lungo viaggio. Non aveva il povero Florio che una
vaccarella! Fattala immantinente macellare,
ne allestì un succolento pasto al Cardinale ed al suo seguito. Nel conversare il Cardinale col Florio,
si accorse che avea da fare con un dotto e pio Sacerdote; onde, nel dipartirsi da lui, volle segnarne il nome.
Giunto a Roma, a testimoniare la sua gratitudine al prete Florio, lo commendò al Papa, (allora Sisto IV),
per la nomina a Vescovo di Andria, dove allora vacava la sede, per la morte di Mons.
De Soto Maggiore
[45].
Venne di qui il nome di
Vaccarella a Mons. Florio, il quale, nel suo stemma,
oltre al
fiore, porta pure una
Vaccarella! …
Ai tempi di Mons. Florio fu stipulata una nuova convenzione fra il Capitolo Cattedrale e l’Università,
per riguardo alla
gabella e Dazio del vino mosto, della quale godeva esenzione il Capitolo
e tutto il Clero di Andria, secondo abbiamo innanzi riferito. La gabella del vino mosto era la più antica
ed onerosa gabella della città. Ond’è che, per sgravarsi di questo peso, i capi di famiglia inducevano
i loro figli
a farsi preti, cedendo loro, per sacro patrimonio, le terre vignetate, le quali,
come beni appartenenti ad Ecclesiasti, andavano disgabellati, in pregiudizio della Università.
Per ovviare a tali inconvenienti, si convenne tra il Clero e l’Università, che tutti i terreni vignetati
degli ecclesiastici dovessero andar sottoposti al pagamento delle gabelle, come per i laici, obbligandosi,
invece, l’Università di corrispondere a tutti gli Ecclesiastici, ed anche ai parenti, con essi conviventi,
alcune determinate concessioni sui medesimi fondi, da essi condotti. Per quegli ecclesiastici poi,
che non avessero vigneti, l’Università si obbligava di corrispondere una determinata quantità di vino all’anno,
così contraddistinta. A ciascun Sacerdote
some
[46]
otto: a ciascun Diacono e Suddiacono
some sei; a ciascun Chierico
some quattro.
Così fu continuato sino al 1595, quando l’Università, visto che molti Ecclesiastici vendevano i vigneti che possedevano,
tornando loro più comodo avere il vino gratuitamente, pensò abolire la gabella sul vino mosto,
ed imporla sulla proprietà dei vigneti, posseduti dai laici, abolendo, nel contempo, la concessione fatta dell’assegno
del vino agli Ecclesiastici, che non avevano vigneti. Di qui forti liti fra il Capitolo e l’Università, come in seguito narreremo.
NOTE
[38]
Non è questo il primo caso di vandalismo, che riscontriamo! …
[40]
Quando furono costruiti questi banchi, il Sacrario fu trasportato dove oggi è sito, cioè a ridosso della Sacrestia.
[41]
I varii puntini fanno comprendere che parecchie parole, scolpite su quella lapide, erano inintelligibili, quando l’Ughelli le fe’ copiare.
[43]
Quella Cappella aveva l’ingresso dal presbiterio. Murato che fu l’ingresso, passò abusivamente in proprietà dei Duchi,
e fu annessa al palazzo ducale; ed ora è proprietà dei Signori Spagnoletti Zeuli, che la cedono in fitto, per uso di abitazione.
[44]
Ughelli,
Italia Sacra, loc. cit.
[46]
Soma, misura di vino, corrispondente a litri 175.
[tratto da “Il
Capitolo Cattedrale di Andria e i suoi tempi” di M. Agresti, tipi
Rosignoli, Andria, 1912, Vol.I, cap.VIII, pagg.157-178]