Quasi tutte le città, oltre le trasformazioni etniche, religiose, politiche, culturali, hanno subito l’evoluzione onomastica. Nella Tavola peutingeriana del secolo III d. C. troviamo trascritte le località di Bardulos, Turenum, che evidentemente si riferiscono a Barletta e Trani. Alle volte il nome è completamente cambiato come Troia e Manfredonia, un tempo chiamate Aeca e Sipontum.
Andria non è rimasta esente da questa legge storica. Sorta sopra le rovine di città più antica, (Netium) essa assume poi sostanzialmente lo stesso nome con diverse varianti nella desinenza, e cioè: Andri, Sanctum Andrium, Andre, Andra, Andrum. Ed eccone la spiegazione. La lingua di Roana, diffusa in tutta l’Italia ed oltre, dal popolo conquistatore, non rimase identica all’idioma di Virgilio, Orazio e Cicerone. Subì l’influsso del tempo e specialmente delle varie invasioni dei barbari settentrionali e delle civiltà orientali. Lingua greca, longobarda, germanica, normanna, causarono la decadenza del latino e cooperarono ad alterare o cambiare nomi di città e villaggi.
La prima notizia di Andri si ha da un viaggio di S. Placido. Questo discepolo di S. Benedetto da Norcia peregrinò attraverso l’Italia meridionale e fondò un monastero sul lido di Messina. Durante i viaggi era solito informare il suo illustre superiore mediante la corrispondenza. In una lettera egli scrisse di essersi fermato a Canosa e poi aggiunse: Ad Andrim a Canusio iter nimis molestum. Questo rilievo poco confortante sulla via canosina del secolo sesto ci fa sapere che Andri era il nome della nostra città.
In un documento del secolo VIII si leggono queste parole: Obiit Dominus Gregorius Sancti Andrii Episcopus, commissus noster [1]. Donde si ricava il nome Andrium.
Tre pergamene, rispettivamente del 1000, 1011 e 1032, edite dal Trinchera, riportano il nome Andra e Andre.
Nel secolo XI la città, ingrandita e cinta di mura dal normanno Petrone, fu chiamata Andrum dal poeta Guglielmo il pugliese. Ecco le Sue parole:
Edidit hic Andrum: fabricavit et inde Coretum;
Busilias, Barolum maris ædificavit in oris.
In una Bolla del Papa Urbano II del 1089, con cui Bari era eretta sede primaziale delle Puglie, tra le diocesi soggette, appare il nome Andri, mentre nella Bolla di Alessandro II del 1063 diretta all’archidiocesi di Trani, è chiamata Andren.
Il nome Andria incominciò ad usarsi nel sec. XII. Difatti in documenti del 1104 (Mors. Desidio), del 1126 (Mons. Ilderico), del 1137, 1144 (Mons. Leone), e del 1145 (Mons. Matteo) è scritto Episcous Andriæ.
È da notarsi che gli abitanti di Andria continuarono a chiamarsi andrenses da Andre. E difatti fino al secolo XIV nei documenti pontifici, diretti a Vescovi di Andria o ad altri enti, ricorre la denominazione andrensis e non andriensis. Troviamo l’aggettivo andriani sulla porta di S. Andrea, rifatta il 1593, come, si legge tuttora: «Ad Andrianos - Andria fidelis nostris affixa medullis». Ricorderemo quest’ultima particolarità, quando faremo l’esame della biografia di S. Riccardo.
Una domanda è spontanea: quale fu l’origine di questo nome?
I primi cristiani unirono alla devozione verso S. Pietro, il principe degli apostoli, quella verso il fratello di sangue e di martirio S. Andrea. La festa in onore di questo santo è elencata nei calendari dei sec. IV della chiesa romana e di altre chiese particolari. Il suo corpo glorioso fu trasferito solennemente il 3 marzo 357 da Patrasso a Costantinopoli, ciò che contribuì a diffondere maggiormente il culto nell’impero bizantino. Ora le venerate reliquie si trovano ad Amalfi e a Roma.
La liturgia romana di S. Andrea aveva la stessa solennità di S. Pietro ed era preceduta dal digiuno da una solenne vigilia notturna.
Il Papa Simplicio costruì accanto alla basilica di S. Pietro un oratorio dedicato a S. Andrea. Dopo di lui incrementò la venerazione al grande apostolo con zelo instancabile S. Gregorio Magno. Egli in molte sue lettere manifestò i miracoli compiuti dal santo tra i fedeli ed incitò ad aver fiducia nella protezione di lui. La Scozia, appena convertita al Cristianesimo, ebbe come protettore S. Andrea.
La liturgia di S. Andrea eccita devoti sentimenti anche ai nostri tempi. Ci si commuove, mentre si scorrono le lezioni dell’ufficio divino del 30 novembre. Secondo la narrazione di testimoni immediati, il santo apostolo ebbe espressioni calde di affetto verso lo strumento del suo supplizio. Egli, abituato all’austerità dal Battista, di cui fu discepolo e all’amore eroico dalla predicazione di Gesù, mentre gli veniva presentata la croce, su cui si sarebbe compiuto il sacrificio supremo, l’abbracciò, esclamando con entusiasmo: «O Croce buona, resa gloriosa dalle membra del Signore, lungamente desiderata, ardentemente amata, continuamente cercata e finalmente pronta, staccami dal mondo e rendimi al mio Maestro, affinché per mezzo tuo mi riceva colui, che per te mi ha redento».
Andria è la città di S. Andrea; il suo nome parla chiaramente. Il paese della sofferenza, rifugio dei superstiti dai borghi vicini distrutti da gravi disastri, sentì il bisogno di porsi sotto la protezione dell’apostolo eroico, che donò tutto, anche la vita, a Dio Padre per la diffusione della dottrina di Gesù Cristo. Era viva la tradizione della predicazione di Pietro e si volle mostrare la vitalità della fede, rendendo un tributo al fratello, che un giorno lontano gli aveva detto con gioia: «Abbiamo trovato il Messia» e lo portò da Gesù. (Giov. I, 41).
Altre città presero il nome del santo. Nel Salento esiste il comune di Andrano, che ha per protettore S. Andrea. Comunemente si ritiene che tale denominazione derivi da quell’apostolo. Il capo Andrea dell’isola di Cipro e l’isola di Andros nel gruppo delle Bahama, detta anche S. Andrea, hanno la medesima derivazione.
Perché Andri non si chiamò con l’appellativo di santo? A quei tempi il nome santo non aveva l’uso odierno. Un esempio eloquente è offerto da due contrade del Salento, Cesarea vicina a Gallipoli e S. Cesarea tra Otranto e Castro. L’una e l’altra ricordano la medesima santa martire, ma la prima località è più antica della seconda.
S. Andrea fu certamente il protettore di Andria prima di S. Riccardo: Quando l’annalista [2] scriveva di Gregorio episcopus santi Andrii, dava inconsapevolmente la possibilità di farci rivivere questa verità; egli si esprimeva come quando noi affermiamo che un determinato vescovo occupa la cattedra di S. Riccardo.
La chiesetta di Andrea si ritiene anteriore al mille; ma essa è solo un rifacimento di una chiesa più antica, la prima cattedrale di Andria. La tradizione popolare addita, a pochi passi dal sacro tempio, il posto dove sorgeva la casa del vescovo. E bisogna credere a questa tradizione, che non ha nulla di esagerato, di ambizioso e di fantastico. Non per nulla si volle scegliere come targa del verso affettuosamente riconoscente di Federico II alla città prediletta l’architrave della porta di S. Andrea.
Ancora oggi il capitolo cattedrale vanta i suoi diritti sulla chiesetta antica e commemora con liturgia speciale la festa di S. Andrea.
L’attuale cattedrale conservava un grande quadro dell’apostolo, distrutto durante l’incendio del 1916. Quel dipinto testimoniava la congiunzione, nella devozione locale, di S. Andrea con la titolare Maria Assunta al Cielo e col novello patrono S. Riccardo [3].
Quando spirò tra le mura di Andria il grande vescovo Riccardo, i fedeli lo venerarono come il loro santo, il benefattore degli umili, il taumaturgo e lo elessero giustamente Patrono. Ma l’antico amore al fratello del primo Papa continuò a commuovere il cuore di Andria fidelis. La statua in pietra di S. Riccardo, collocata sul fronte dell’umile chiesetta di Sant’Andrea, fu per molto tempo un altro eloquente simbolo di questa fusione di culto e di riconoscente amore.
L’Italia, dopo la decadenza dell’impero romano, soffrì l’onta delle invasioni barbariche. Unni, Goti, Ostrogoti la dilaniarono a varie riprese, devastarono città, uccisero abitanti, incendiarono tesori di cultura e di arte e rapinarono quanto potettero.
In questo triste periodo ha potente rilievo di grandezza la figura di S. Leone Magno, il quale si presentò inerme ad Attila, re degli unni, giunto con le sue milizie sotto le mura di Roma e riuscì ad ammansire il flagello di Dio ed a farlo ritirare. Dietro quest’esempio di virtù tetragona i vescovi fecero simili tentativi, alle volte infruttuosi, per impedire devastazioni e stragi.
La Puglia fu teatro di guerra tra i goti e i bizantini, finché costoro non limitarono il dominio al Salento. Teodorico il grande, re degli ostrogoti, dominò in Italia fino al 553.
Poco dopo, nel 568, avvenne l’invasione dei longobardi, popoli di origine scandinava che, condotti da Alboino, costituirono in Italia un regno con capitale Pavia. Durante il dominio longobardo dal 568 al 774 ed anche in seguito l’Apulia fu chiamata Longobardia e subì l’influsso della lingua, delle leggi e dell’organizzazione amministrativa di quei popoli. Andria ebbe allora la corte (curtis) longobarda e la robusta torre di guardia, baluardo di difesa, che poi costituì la solida base del campanile della cattedrale.
La religione cattolica non fu scossa dai longobardi, ma penetrò nei loro cuori, li mansuefece ed incivilì.
Dal 590 al 604 sedette sulla cattedra di S. Pietro S. Gregorio Magno. Quest’uomo pio ed energico riuscì a dominare longobardi e bizantini e con premure paterne e dinamiche ottenne vantaggi economici e religiosi ai popoli oppressi.
Alla dominazione longobarda risale la nostra piccola basilica, ora cripta della cattedrale, di cui parleremo in seguito.
Le città importanti vicine ad Andria erano Canosa e Trani. Canosa ebbe civiltà preromana, conservò prestigio e ricchezza per molto tempo, fu una delle prime diocesi pugliesi, ma a poco a poco decadde e fu soggiogata e in parte distrutta dai longobardi. Tuttavia, sotto questa dominazione, fu sede di castaldato insieme a Siponto (Manfredonia) e Lucera. Il castaldo canosino aveva poteri fino ed oltre Bari.
Anche Trani ebbe la sua importanza politica e religiosa. La sua sede episcopale è molto antica e divenne sotto i normanni metropolitana. Al tempo dei longobardi fu città fortificata (castrum) ed ebbe un castaldato proprio, frazione di quello canosino. Quindi l’antica Andri, nel periodo longobardo, ebbe dipendenza civile prima da Canosa e poi da Trani.
Partiti i longobardi, ritornarono in Puglia i bizantini, ma i franchi, scesi dal nord, li scacciarono ed occuparono le nostre terre, stabilendo il dominio di Carlo. Magno.
Poco dopo un’altra sciagura si abbatté sulla Puglia con l’invasione saracena. Questo popolo, avido di conquista e di sangue, si era impadronito della Sicilia, donde faceva incursioni sulle coste italiane e inferociva nella desolata Puglia. Verso l’841 essi lottarono ferocemente contro i franchi e riuscirono a strappare loro diverse città, tra le quali Bari, che per un trentennio fu dominata da quei corsari. Da Bari essi si spingevano fino a Benevento, compiendo devastazioni e uccisioni di ogni sorta. In questo tempo Andria subì disastri ingenti.
Ludovico II, imperatore di Germania e re d’Italia, riprese Bari l’871, ma poi abbandonò la Puglia, che ritornò l’875 in possesso dei bizantini sotto l’impero di Basilio il Macedone. In questo tempo la nostra regione (temi di Langobardia) godette un periodo di pace, disturbato ferocemente nel 939 dall’invasione ungara, che durò nove anni.
Il 1041 si insediarono i normanni, dei quali avremo agio di parlare nel capitolo quarto.
Certamente S. Pietro predicò il Vangelo a Roma, dopo essere stato, per sette anni ad Antiochia. S. Ireneo, morto nel 202 martire della persecuzione di Settimio Severo, dimorò per qualche tempo a Roma, dove studiò la dottrina di Cristo attraverso le tradizioni cristiane, eco viva e palpitante dell’insegnamento apostolico. Da vescovo di Lione dovette difendere la dottrina di Gesù Cristo contro gli eretici; per dare maggiore forza alla verità, egli, fra l’altro, si appellava alla continuità della Chiesa di Roma a cominciare dagli apostoli Pietro e Paolo, che l’avevano fondata e stabilita [4].
La migliore testimonianza è offerta dallo stesso S. Pietro, che scrisse da Roma una lettera ai fedeli. Al termine dello scritto egli dice: «La Chiesa, come voi eletta, che è in Babilonia, vi saluta ed anche Marco mio figlio» (I PIETR. V, 13). Babilonia è usata per Roma, come comprendevano bene i cristiani, giacché la capitale dell’impero era centro di empietà e di corruzione come un tempo la capitale dell’Assiria. Per sfuggire ai sospetti dei persecutori, S. Pietro usò quel nome tanto significativo.
A Roma esiste un cimelio, appartenuto al capo degli Apostoli. Si chiama «la cattedra di S. Pietro». Si tratta dei resti di una sedia di legno, logora dal tempo, in parte tagliuzzata dalla devozione dei fedeli, su cui Pietro insegnò, e trasformata poi in sedia gestatoria; ora è collocata nel trono di bronzo dorato in fondo all’abside di S. Pietro. Anticamente essa era vicina al battistero a simboleggiare l’unità della fede di Gesù Cristo, che aveva detto: «Andate ad ammaestrare tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (S. MATT. XXVIII, 19); pensiero sublime indicato dall’iscrizione di S. Damaso (Papa dal 366 al 384) sul fronte del battistero: «Una sola cattedra di Pietro, un solo e vero battesimo» [5].
Eusebio di Cesarea (267-338) nella Cronaca, scritta il 310, segna la data dell’arrivo di Pietro a Roma, cioè il 42. Il pontificato romano si protrasse fino al 67, epoca del martirio.
Il passaggio attraverso l’Italia è ricordato da molte tradizioni locali, delle quali alcune commemorano lo sbarco del Santo, proveniente dall’Oriente, altre l’arrivo da centri italiani, quasi tutte la predicazione e la celebrazione dei divini misteri. A Leuca, Brindisi, Taranto e Napoli esistono monumenti, che ricordano l’approdo dell’Apostolo. Tali tradizioni si possono conciliare, ritenendo che S. Pietro abbia viaggiato per mare da un porto all’altro.
Ad Andria la tradizione afferma che S. Pietro venne da Taranto, predicò la dottrina di Cristo, distrusse gli idoli e celebrò sull’ara che attualmente è nella cripta. Si può accogliere la sostanza della tradizione e cioè la dimora e la predicazione di S. Pietro nell’antica Netium. Tutto il resto rimane nel solo campo della probabilità.
La cripta della cattedrale e i ruderi della chiesa di S. Pietro nella contrada omonima vengono attribuiti dalla tradizione al religioso avvenimento. Possiamo ritenere che S. Pietro vi sia venuto da Taranto toccando Brindisi e Bari attraverso la via traiana. Il nome S. Pietro, dato alla contrada più vicina alla via traiana e la chiesetta ivi installata rendono probabile tale congettura. Questa chiesetta oggi non esiste e nessun monumento la ricorda. Un tempo, secondo quanto riferiscono gli storici locali, furono trovati nel tempietto molti scheletri umani ed anche antichi cimeli militari.
Il monumento più importante è la cripta, la piccola basilica, sulla quale fu edificata l’attuale cattedrale. È costruita a pianta basilicale a due navate: con abside semicircolare ed è preceduta da un atrio con colonne raccogliticce. Il tempio, che aveva volte a crociera, poi in parte sostituite da volte a botte, misura la lunghezza di metri 20 e la larghezza massima di metri 7,10. Era dedicata a Gesù Salvatore, come attesta un avanzo di pittura ad incausto sul pilastro, cui è addossato l’altare. Secondo il costume bizantino, ha l’abside ad oriente e l’ingresso ad occidente. Davanti all’altare c’è un vano profondo, che doveva servire anticamente da battistero.
La relazione dell’archeologo Bernich compilata il 1903, dopo aver descritto l’antica basilica, afferma: «Essa costituisce un prezioso documento per l’archeologia cristiana, della quale non si trova in Puglia altro riscontro».
La tradizione asserisce che S. Pietro abbia celebrato su quell’ara e battezzato, servendosi del rozzo battistero. Sebbene ciò non si possa in alcuna maniera ritenere per certo, l’asserzione non è inverosimile. L’altare è una rozza pietra e somiglia alle are antiche dei sacrifici pagani, di cui si trovano ancora oggi degli esemplari. Uno di questi è ritenuto un sasso esistente nel Santuario di S. Maria di Leuca, attribuito al tempio di Minerva. Il battistero, cioè la buca profonda antistante l’altare, poteva servire per lavare le vittime da sacrificarsi alla divinità. Una conferma di ciò è data dal nome della piazza Catuma che, secondo quanto ritiene Mons. D’Azzeo, deriva dal latino catumeum. E i catumei, a quanto afferma Arnobio († 327) erano focacce adoperate nei sacrifici pagani insieme a parte delle cervella delle vittime [6].
Possiamo così ricostruire l’intera tradizione. Il principe degli apostoli dalla via Traiana si recò a Netium; quivi predicò la dottrina di Cristo ai netini; distrusse gli idoli ed immolò l’Agnello immacolato sulla rozza pietra del tempio pagano.
Certamente l’attuale cripta non fu l’antico tempio di S. Pietro. Essa è dedicata a Gesù Salvatore e, secondo l’opinione dei dotti, non è anteriore al sec. VII. Tuttavia l’eco della tradizione è documentata dall’altare dedicato a S. Pietro nella nuova cattedrale. Per conciliare il giudizio dei dotti con la tradizione, bisogna ammettere che la basilica sia stata costruita dopo la demolizione d’un precedente tempio.
Possiamo ritenere che la piccola basilica fu costruita al tempo dei longobardi, quando Andri riebbe il suo vescovo che trasportò la residenza da S. Andrea accanto alla basilica, tra la residenza dei dirigenti longobardi e il baluardo di difesa cittadina. Confortiamo tale asserzione, riportando le seguenti parole del Bernich: «Per la totale mancanza in Andria di altre chiese importanti così antiche, possiamo anche asserire, senza timore di fare un’ipotesi troppo arrischiata, che essa fosse la principale del luogo, e, come tale, fosse dedicata al Salvatore. Né deve farci impressione la sua piccolezza, perché, prima del 1000, le chiese di Puglia si costruivano in proporzione degli abitanti, senza fasto ed inutile ampiezza. Piccina era quella di S. Pietro ad Otranto; e tali quelle di Castro e di S. Michele al Gargano, prima che venissero ricostruite rispettivamente dai Normanni e da Federico II. E le dimensioni originarie della stessa cattedrale barese non erano forse quelle della sua cripta?»
Basiliani si possono chiamare con nome generico i monaci dell’Oriente, perché tutti hanno avuto una certa dipendenza dalle norme di S. Basilio.
Questo gran santo orientale, annoverato tra i Padri della Chiesa, amava la vita ritirata e aveva scelto come luogo di preghiera e di studio Annesi sulla riva dell’Iris in Asia Minore, mentre a poca distanza conducevano uguale vita ascetica la madre Emmelia e la sorella Macrina. Fu richiesto da Eusebio, vescovo di Cesarea come aiuto e consigliere. Divenne il suo successore, rivelandosi uomo di ardente zelo pastorale e di salda fermezza.
Il valore caratteristico della concezione monastica di S. Basilio sta nell’unire insieme l’anacoretismo e il cenobismo, fondendo i pregi delle due tendenze del monachismo precedente e rimovendo gli inconvenienti della solitudine esagerata e dei numerosi agglomerati di religiosi.
Morì a 49 anni, meritando il titolo di Grande per la cultura, l’energia, l’amore alla Chiesa di Roma e le opere di beneficenza.
I basiliani si diffusero anche in Italia nel sec. VI al tempo della fioritura giustinianea; in seguito le famiglie monastiche si moltiplicarono per l’arrivo dei fratelli esiliati dalla persecuzione iconoclasta (secolo IX).
Derivazione basiliana furono i Calogeri, monaci orientali, dediti alla preghiera, alla penitenza e al lavoro agricolo. Essi facevano continua astinenza e molti digiuni. Fuggiti dall’Oriente insieme agli altri basiliani, si sistemarono in grotte già esistenti o costruite da essi, scavando nel terreno tufaceo ai margini dei piccoli centri abitati o in aperta campagna.
Andria, insieme a molte altre cittadine della Puglia, accolse questi monaci in numero rilevante, forse perché la natura del suolo si prestava particolarmente al genere di vita degli asceti.
I dintorni della città possiedono labirinti di grotte, forse un tempo tombe pagane, poi divenute rifugio dei cristiani perseguitati e infine abitazioni di monaci.
Questi dimoravano anche alcuni chilometri lontano dalla città, nel territorio che poi fu chiamato del Monaco, come si rileva dalle pergamene del Trinchera.
Le umili abitazioni, muti testimoni di ingenti sacrifici e di fervorose preghiere, si chiamarono, con voce greca Laure, nome che significava in genere contrada e specificatamente un cenobio formato da diverse celle.
Queste laure furono decorate da dipinti bizantini, in parte ben conservati a tutt’oggi. Laure basiliane furono in contrada Cicaglia, a S. Margherita in lamis (oggi S. Maria dei Miracoli), a Cristo di misericordia, cappella costruita sull’antica chiesetta dei monaci, a S. Maria dell’Altomare, il cui dipinto fu trovato in una cisterna (trasformazione poco decorosa di una laura) e soprattutto a S. Croce, vera chiesa basiliana del secolo IX e importante monumento nazionale. Essa è scavata interamente nel tufo, misura metri 90 di perimetro, ha pronao, tre navate con pilastri, transetto e abside. Degni di nota i dipinti, eseguiti con vivacità di colori e movimento, tra i quali si rilevano la Crocifissione e Gesù Cristo tra gli apostoli Pietro e Paolo.
I basiliani, superstiti alle feroci irruzioni dei saraceni, abbandonarono Andria, ma poi vi ritornarono e durarono per diversi secoli a compiere apostolato di vita ascetica e austera.
Nel secolo XI officiavano la chiesetta della Madonna delle Grazie suore basiliane, sostituite nel secolo XIII dalle suore di S. Chiara.
I basiliani non si fusero coi benedettini, ma i pochi rimasti formarono modeste colonie in Sicilia, Calabria e Grottaferrata di Roma, dove tuttora esistono.
Contemporaneamente ai monaci orientali, ebbero influenza in Andria i seguaci di S. Benedetto, il padre del monachismo occidentale.
Egli nacque a Norcia nell’Umbria il 480; di vita severa e virtuosa, si ritirò a Subiaco e poi a Montecassino. Quivi concepì le mirabili regole della vita monastica, che dovevano dare alla Chiesa folle di monaci consacrati allo studio, alla vita ascetica e al lavoro. Mentre declinava l’impero romano, quest’uomo provvidenziale ne ereditava lo spirito organizzatore, nel quale infondeva la luce ciel Vangelo per la diffusione della civiltà cristiana.
I benedettini furono per molto tempo i pionieri della Chiesa di Roma, cui dettero missionari, vescovi e papi di grande fama. Si contano circa trecento tra imperatori, re e principi, quaranta pontefici e tremila santi.
L’abbazia di Montecassino fu distrutta dai Longobardi, ma, dopo la conversione di essi a principio del secolo VIII, riprese vita e vigore. In questo periodo ebbe inizio la dilatazione del monachismo benedettino da Montecassino a tutto l’Occidente.
L’817 il Concilio di Aquisgrana prescrisse come unica regola per i monaci occidentali quella benedettina, costituendo così come una federazione di famiglie monastiche, facenti capo al centro di Montecassino. Studiosi, potenti insieme a uomini molto umili, battevano alle porte dei monasteri per trovare la pace al calore dell’anima benedettina, allettante alla perfezione col motto: Ora et labora.
Questi personaggi e gli ammiratori dell’Ordine lasciavano propri beni a beneficio dei pii istituti. I monaci si servivano di queste ricchezze, migliorando l’agricoltura e dando incremento mai visto all’industria e al commercio. Le popolazioni erano riconoscenti a questi padroni di vasti territori, perché essi, a differenza di molti signorotti locali, amavano i contadini, non compivano soprusi e beneficavano generosamente i poveri.
Ad Andria i benedettini possedevano alcuni vigneti, oliveti, una villa e una tenuta presso un fiumiciattolo, chiamato «il Monaco». Esiste tuttora la masseria «del Monaco», attraversata un tempo dal Rivo, che raccoglieva le acque torrenziali delle Murge e, passando per Andria, le trasportava al mare.
Le notizie sui possedimenti si ricavano dai decreti di restituzione ai benedettini dei beni, forse rapiti da privati in seguito alle incursioni e devastazioni saracene del secolo X.
Le pergamene scoperte dal Trinchera il 1865, scritte in greco e tradotte nel basso latino del tempo, riportano i decreti di tre governatori (catapani) d’Italia riguardanti la restituzione ordinata dall’imperatore di Costantinopoli Basilio II (976-1025). Esse furono compilate il 1000, 1011 e 1032.
In una versione del decreto del catapano Gregorio in data 2 febbraio dell’anno 1000 si dice, per quanto ci riguarda: «et in civitate Tranensis, et in villam que est de civitate ipsa que cognominatur Andre, vineæ sunt desertæ et olivetalie biginti septem; et in ipso Rivo, qui vocatur de ipso Monacho, territorie». La traduzione è la seguente: «Nella città di Trani la villa che appartiene alla città di Andre, vigne saltuarie e 27 oliveti, e il territorio del Rivo, chiamato del Monaco».
Evidentemente in quel tempo esisteva una dipendenza di Andria da Trani, come abbiamo notato parlando della dominazione longobarda. Può anche darsi che le possessioni benedettine in territorio di Andria appartenessero a qualche abbazia, esistente a Trani.
Ci sono alcune varianti nella traduzione latina e una di queste dice: in loco Andre. Quest’espressione indica il territorio di Andria, come si può desumere da altre pergamene scritte nello stesso tempo altrove.
Un’altra variante, invece del nome Monaco, porta: ad Rivum Calogerorum. Evidentemente la masseria del Monaco si chiamava così, perché un tempo era posseduta dai calogeri orientali, poi passata ai benedettini.
I quali, dopo aver ricuperate le terre restituite, continuarono la loro opera benefica e civilizzatrice ed estesero i loro possedimenti fino a Castel Del Monte, dove costituirono un monastero, chiamato «S. Maria del monte».
In conseguenza si può affermare che Andria dal secolo XI in poi fu una vera rocca benedettina, donde si irradiava l’eco della preghiera e dell’esercizio di virtù e sacrificio, ad esempio magnanimo delle popolazioni e ad incitamento a ben fare, a progredire civilmente e religiosamente.
[1] Annali camaldolesi.
[2] Annali camaldolesi, Tomo III.
[3] Il Pacichelli affermava che la cattedrale era dedicata all'Assunta e a S. Andrea.
[4] S. IRENEO: Adversus hereses, III, 3.
[5] GUNTER: Inscrip.
[6] ARNOBIO: Adversus gentes, 1, IV.