Nel capitolo II abbiamo esaminato le poche notizie, scheletriche, frammentarie, giunte fino a noi sull’antica Andri. Il tempo e la malvagità umana hanno distrutto anche una qualsiasi documentazione delle altre attività di questo periodo storico.
In questo capitolo cercheremo di unire le poche gemme finora raccolte, di ordinarle, valutarle meglio per rintracciare e determinare, come meglio si potrà, la base, il tronco, su cui esse germinarono. Abbiamo già intravisto e vedremo. Meglio in seguito che all’epoca normanna. ebbe inizio in Andria la ricostruzione civile e religiosa cittadina, perfezionata nei secoli seguenti. Ora bisogna congiungere il secolo XII, in cui il nome Andria si affermò, con la remota origine della città, onde poterne ravvisare il volto e le caratteristiche.
Sarebbe lungo ed estraneo al nostro scopo parlare diffusamente degli antichi popoli delle Paglie e delle diverse civiltà: mediterranea, paleo-italica, japigio-messapica, greca e romana. Ci fermiamo un po’ al periodo romano, accennando, quando sarà necessario ai precedenti.
L’imperatore Augusto divise l’Italia in dieci, regioni. La seconda comprendeva l’Apulia e la Calabria e cioè tutta l’attuale Puglia e inoltre l’antica Hirpinia fino al fiume Biferno a sud di Termoli. La popolazione complessiva è stata computata, secondo calcoli approssimativi, a 350.000 abitanti.
L’Apulia comprendeva a nord la Daunia, al centro la Peucezia e al sud la Messapia, la cui continuazione costituiva la Calabria (Salento). La Peucezia terminava alla parte settentrionale nei pressi di Canosa e alla parte meridionale con Egnazia.
Si ritiene che gli abitanti della Peucezia siano stati di origine Illirica, immigrati in questa regione prima dei greci. Nel quinto secolo a. C. subirono l’influsso greco e, insieme alla lingua, accettarono la civiltà ellenica.
Il nome Peucezia, secondo il Mommsen, è greco e significa la terra dei pini. (péuke). Gli abitanti si chiamavano Peuceti o Pedicoli con parola dialettale latina, significante «gli abitanti di alture» (da podium e colere).
Per conoscere in quali zone si trovassero le città della Peucezia, bisogna notare che nell’epoca preellenica le città erano situate piuttosto nell’entroterra che sulla zona costiera, perché il mare era infestato dai corsari. Per citare qualche esempio, Ugento, l’Ausentum di civiltà paleo-italica, fu fondata a sette chilometri dalla costa, dove ebbe un porto di grande importanza commerciale nell’antichità. Invece Molfetta al tempo dei romani era solo il porto di Ruvo. Le città quindi della Peucezia si svilupparono ad una certa distanza dal mare fino alle Murge.
Nella Peucezia erano: Netium, Cœliæ, Rubi, Butuntum, Lupatia, Silvium, Petilia, Egnatia ed altre città più o pieno importanti. Che relazioni aveva Netium con Andria? È quello che esamineremo poi.
Per ora ci basta notare che ad Andria e nel suo territorio ci soro molti sepolcri antichi, spesso costituiti da ammassi di pietre, formanti vere specchie sepolcrali, vestigia evidenti di abitanti, distrutti dall’ala del tempo.
Prima di individuare la relazione tra Andria e Netium, è bene premettere qualche notizia sulle vie romane, che attraversarono la Peucezia.
I romani, popolo guerriero, avevano bisogno di vie spaziose per l’impiego celere dell’esercito. Non appena conquistavano una contrada, avevano cura di allacciarla con l’Urbe. Coi mezzi, di cui allora potevano disporre, costruirono strade spaziose e lunghe, che attraversavano l’Italia nei punti più idonei ai movimenti strategici delle truppe e al commercio coi popoli soggetti. Così più facilmente potettero conservare ed allargare le conquiste, difendersi dai numerosi nemici interni ed esterni. E, poiché da Brindisi essi si spinsero verso l’Oriente, quel porto acquistò importanza notevole e divenne l’indispensabile collegamento tra la terra italica e i barbari orientali.
La via principale e più antica si chiamava Appia, perché iniziata da Appio Claudio il Cieco nel 312 a. C. Essa giungeva fino a Capua, ma fu poi prolungata. fino a Brindisi: toccava Benevento, Aquilonia, Venosa, Matera, Taranto e di qui procedeva a Brindisi, passando per Oria. Da Stazio, poeta napoletano del I° secolo d. C. fu così celebrata:
«Appia longarum teritur Regina viarum».
Questa via attraversava un breve tratto occidentale dell’Apulia, toccando Equotuzio (Ariano di Paglia).
Il geografo Strabone, nato in Amasia nel Ponto (Asia Minore) verso il 54 a. C. percorse diverse volte le vie tra l’Oriente e Roma, forse nell’interesse commerciale dei suoi connazionali. Egli descrisse la via Appia e un’altra, che poi fu chiamata straboniana. Ecco le sue parole: «Dalla Grecia e dall’Asia il tragitto più breve e diritto è per Brindisi, e qui infatti si dirigono tutti coloro che devono proseguire per Rama. Per recarsi in quella città vi sono due vie, una mulattiera che, attraversando la regione dei Peuceti, detti Pedicoli, dei Dauni e dei Sanniti si dirige a Benevento. In questa via si incontrano le città di Gnathia, Netium, Canusium e Erdonia. L’altra, volgendo un po’ a sinistra, mena verso Taranto e ad una giornata di cammino, si incontra con l’Appia carrozzabile. Vi si incontrano le città di Uria e Venosa, la prima tra Brindisi e Taranto, l’altra fra Sanniti e Lucani. Ambedue queste strade si congiungono presso Benevento nella Campania, donde per l’Appia si perviene a Roma passando per Caudio, Galazia e Casilino. Tutta la via da Brindisi a Roma è lunga trecento sessanta stadi».
La via straboniana era dunque meno larga e meno comoda dell’Appia e perciò poteva essere percorsa solo da cavalcature e non da carri. Se Netium, come pensiamo, era la città, sulle cui rovine sorse Andria, bisognerà identificare l’iter nimis molestum di S. Placido con la. strada straboniana.
Una terza via fu costruita poco più tardi da Traiano. Questo imperatore, nato in Ispagna, governò Roma dal 98 d. C. per circa vent’anni, favorì molto il commercio e l’industria ed altre opere, che lo resero celebre nella storia dell’impero. Non solo egli prolungò la via Appia, ma costruì altre strade, che presero da lui il nome.
Per raggiungere più facilmente il porto brindisino fece costruire il tronco Equotuzio (Ariano) Egnazia-Brindisi, attraversando Elcana (Troia), Erdonia (Ortanova), Canosa, Ruvo, Bitonto e Bari. Un tratto di questa via, tornato alla luce il 1919 presso Brindisi, così è descritto dallo storico locale Camassa: «La via è larga quindici piedi romani, cioè metri 4,20 circa; è lastricata a grosse e informi pietre sbozzate semplicemente nella parte superiore, incastrate maestrevolmente le une nelle altre senza cemento e irregolarmente apparigliate come nelle costruzioni ciclopiche, ed è rasentata da cigli o paracarri».
Allo stesso imperatore si deve una via che, partendo da Taranto, attraversava i paesi costieri della Calabria (penisola salentina) e raggiungeva Brindisi.
A questo tempo rimonta anche la via costiera, che congiungeva Bari a Siponto, toccando le città vicine di Trani e Barletta.
Finalmente accenniamo alla Tavola Peutingeriana, cioè ad un’antica pergamena geografica, lunga sei metri, che descrive il dominio romano. Si chiama peutingeriana, perché scoperta dall’archeologo tedesco Corrado Peutinger (1465-1547). In questa Tavola, che pare rimonti al quarto secolo d. C. è descritta una strada che, partendo da Benevento, attraversava, fra l’altro, le seguenti località: Furfane (Cerignola), Rudæ, Ruvo e Bitonto, terminando a Brindisi. Dalle Murge ha inizio in questa Tavola il tracciato del fiume Aveldium, che sbocca sull’Adriatico a sud di Barletta. Evidentemente questo fiume è il Rivo delle pergamene del Trinchera e cioè, quello che oggi con nome dialettale chiamiamo Canalone e che si trasforma in torrente durante le alluvioni invernali. La località Rudæ, segnata accanto alla sorgente del fiume, non è stata bene individuata. Il nome deriva, pare, dalla radice indo-europea rud = generare, ed è simile a quello di Rudiæ messapica, patria di Ennio.
Queste le principali notizie pervenute fino a noi sulle vie romane. Potremmo aggiungere i Tratturi, che sono antichissimi, esistenti certamente all’epoca romana, e che servivano al transito delle gregge per i pascoli. Queste vaste strade, simili per la ruvidezza alle mulattiere, si estendevano dagli Abruzzi sino alla Terra d’Otranto.
Le città elencate nei diversi itinerari nulla ci dicono della loro importanza, perciò l’indicazione serviva solo ad avvertire i viaggiatori delle fermate, dove potevano prendere riposo e provvedersi del necessario per il proseguimento del viaggio. Una dimostrazione di ciò viene fornita dalla Mutatio ad XV, segnata nell’itinerario gerosolimitano. In questo documento, dopo la città di Ruvo, è scritto Mutatio ad XV, punto centrale prima di giungere a Canosa. Lì evidentemente esisteva una Taverna per i viaggiatori e, secondo alcuni, è proprio questa stazione il punto dove sorse Andria. A nostro parere, la mutatio coincideva con la località oggi denominata Tavernola, posta sulla via Traiana e punto intermedio tra Canosa e Ruvo, mentre Netium sorgeva approssimativamente ove oggi è Andria.
La Netium di Strabone era posta, come abbiamo già detto, nella Peucezia. Non soltanto il geografo asiatico ricorda quella città, ma anche Plinio. Il grande naturalista comense († 79 d. C.) affermò l’esistenza nella Peucezia dei popoli Netini, oltre i Matini, Rubustini, Silviani ed altri [1].
Il nome Netium ha un omonimo in Sicilia, la città di Noto, e sembra derivi dalla base indo-europea na, che significa abitare, come il verbo greco naio. L’antichità del nome fa supporre l’epoca remota della città.
Dopo qualche tempo sparirono diverse città della Peucezia, come Silvium e Petilia, su cui sorsero Gravina e Altamura; Nezio subì simile dura sorte.
Quale fu la causa? Alcuni ritengono probabile un fatto naturale, come movimenti tellurici distruttori, documentati dalle diverse doline e voragini sparse nella regione. Più facilmente la rovina seguì a fatti di guerra. Dopo la vittoria dei romani contro i sanniti, sul suolo pugliese si svolsero diversi episodi delle guerre puniche, come la cruenta battaglia presso Canne. In seguito i popoli latini combatterono la guerra sociale per ottenere il diritto di cittadinanza romana (91-88 a. C.). Nessuno può oggi specificare i danni, le uccisioni, gli incendi verificatisi in questa guerra, che forse fu più feroce, delle precedenti. Ci sarà stata più tardi qualche sollevazione dei Pedicoli, che abbia determinato un’orrenda strage come rappresaglia? Noi pensiamo che queste città furono decimate dalle guerre romane e poi rase al suolo nella invasione barbarica di Alarico dopo il sacco di Roma (410).
I pochi netini sopravvissuti coi superstiti di città vicine formarono il piccolo nucleo abitato di S. Andrea, la cui morte tormentata dava conforto, infondeva fiducia in Dio e generava la speranza di risurrezione.
Tra gli storici non c’è accordo sull’identificazione di Andria con Netium. Tale disparità di vedute si è accentuata recentemente e si è voluto accostare Netium a Ruvo, Rudæ, Ehetium, Giovinazzo e Lecce.
Gli storici andriesi, fatta eccezione di pochi, ritengono la tesi tradizionale dell’identificazione con Andria. Noi abbiamo questa convinzione e cerchiamo di darne la dimostrazione.
Lo Strabone elenca due città nel tratto Canosa-Brindisi della via mulattiera e cioè Nezio ed Egnazia. Questa città è stata identificata con le rovine scoperte a circa 60 chilometri da Brindisi. L’altra città coincideva con la nostra Andria.
Difatti l’unico abitato della Peucezia in diretta comunicazione con Canosa era l’antica Andri. Essa aveva due strade di comunicazione e cioè quella comunemente chiamata la via vecchia di Canosa, nella quale senza alcuno sforzo possiamo scorgere la via mulattiera di Strabone e l’iter nimis molestum di S. Placido. L’altra era il Tratturo che, pur essendo strada spaziosa, non era certamente una via plaustris (carrozzabile).
Una dimostrazione indiretta è offerta da una cronaca del 1009 del monastero di S. Sofia presso Benevento. In essa è detto: «Saracœni comprehenderunt (occuparono) Butuntum et castrum Netii». Il «castrum Netii» è il Castel del Monte; né si trova sulle Murge o nelle vicinanze di Bitonto un altro castello, che abbia potuto portare quel nome.
Alcuni ammiratori dell’opera di Federico II di Svevia temono l’identità supposta come un tentativo di svalutazione. Ma ciò non è. Senza entrare in merito nel dibattito, osserviamo che il castello può ritenersi un artistico perfezionamento di uno preesistente, oppure un monumento nuovo, sorto sulle rovine del precedente.
Una conferma dell’ubicazione indicata di Castrum Netii vien data dalla toponomastica. Difatti a poca distanza dal castello si trova la masseria Finizio, il cui nome (fines Netii) può indicare il confine del territorio agricolo dell’antica Nezio.
La tradizione è una convincente conferma della prova data. Certamente col passare dei secoli si è affievolita, data la sua poca importanza per la vita religiosa e civile del popolo. Ma essa un tempo dovette essere molto viva.
Lo stemma di Andria insinua l’esistenza della tradizione. È rappresentato da un leone rampante ad un pino. Il pino ricorda la terra di Nezio, cioè la regione dei peuceti, mentre il leone indica evidentemente la radice greca del nome Andri, che significa virilità, forza.
Una documentazione autorevole della tradizione andriese è data dai dicasteri della Chiesa romana, che hanno accettato Netium come nome classico della Diocesi. Difatti ognuno può consultare l’Annuario pontificio, in cui sono elencati i nomi di Curia. Accanto ad Andrien è posto il nome Netium. Si sa che la Curia romana è tenacemente rispettosa della tradizione e, se accettò l’identificazione dei due nomi, lo fece per motivi solidamente fondati.
Interpreti della tradizione locale sono diversi autori italiani e stranieri di dizionari geografici (Calepino, Niger, Baudrand, Lasor ed altri). Mi limito al più antico di essi, al famoso letterato Ambrogio Calepino che, nel suo vocabolario edito il 1502, così scrisse di Andria: «Strabonis Netium, Andri, etc. ».
Le argomentazioni e gli indizi, che abbiamo dato, sono una prova sufficiente per raggiungere i confini della certezza morale.
Ammessa l’identità, trovano facile spiegazione i resti archeologici rinvenuti in Andria e nei dintorni, che forse affioreranno in numero più considerevole quando le case poco igieniche del quartiere delle grotte di S. Andrea saranno demolite per offrire altrove spazio e luce ai laboriosi abitanti di quella zona.
Dolmen, ceramiche, monete, lapidi sono gli avanzi di epoche remote. Gli studiosi Matta, Gervasio, Quagliati ne hanno ampiamente trattato in dotte monografie. Anche Mons. Morgigno in «Pagine sparse» ha illustrato diversi antichi cimeli.
Auspichiamo l’erezione di un Museo, che raccolga le vestigia dell’antica civiltà netina, onde poter in parte ricostruire le vicende storiche dei nostri lontani avi.
L’importanza dei Castel del Monte per la storia di Andria ci obbliga ad indugiarci su alcune vicende del celebre maniero e del monastero di S. Maria del Monte. Già, perché in quella zona sin dal secolo XII esisteva un’abbazia benedettina.
Ce lo assicura un documento del 1192, un libro di censi, nel quale è detto che il monastero di S. Maria del Monte in diocesi di Andria, pagava una mezza oncia aurea ogni anno [2]. I benedettini, dopo aver rioccupato, per ordine dell’imperatore d’Oriente i loro beni, la villa, i vigneti, oliveti e la masseria del Monaco, estesero il loro dominio al Castrum Netii, ridotto in istato pietoso da imprese guerresche.
Come abbiamo detto, la cronaca di S. Sofia del 1009 accenna ad una scorreria saracena con occupazione di Bitonto e Castrum Netii. Un altro avvenimento simile si verificò nel 1029, quando, come narra una cronaca del Monastero di Cava, il Duca di Bari Raino, in lotta contro i greci, occupò Bitonto, Castromonte, Trani e Ruvo.
Forse i normanni donarono ai benedettini il Castromonte, reso cadente dagli ultimi disastri bellici.
I nuovi padroni fabbricarono un monastero e una chiesa, una vera abbazia. All’insieme dei fabbricati dettero il nome di S. Maria del Monte Balneolo. Il termine Balneolo si spiega col notare che la Tavola peutingeriana descrive il letto del fiume Aveldium presso le Murge e accanto alla sorgente segna un lago, che doveva essere nelle vicinanze di Castromonte. Le acque del lago hanno fatto sorgere il titolo Balneolo (da balneum, che significa bagno) [3]. In seguito la località si chiamò S. Maria del Monte e solo dal 1463 prese il nome di Castel del Monte.
Federico II di Svevia, volendo formare del castello una sede di svago, relegò i monaci a Barletta, riservando il castello a sè e gli altri fabbricati al suo numeroso seguito.
L’indicazione S. Maria del Monte Balneolo si ricava da una Bolla di Alessandro IV. Secondo questo documento pontificio del 1258; otto anni dopo la morte di Federico II, i benedettini fecero giungere a Roma l’eco del loro vivo dolore, perché avevano subìto persecuzioni da parte dell’imperatore. Essi invocavano il suo intervento affinché il monastero ed annessi fossero affidati al florido ordine cistercense [4], che aveva un’abbazia ad Arabona presso Chieti. Il Santo Padre accolse la preghiera dell’abate e dei monaci, specialmente perché il monastero dipendeva immediatamente dalla Santa Sede, e volentieri incorporò tutta l’abbazia di S. Maria del Monte a quella di Arabona (dioc. di Chieti) [5].
La dipendenza immediata dal Papa, o esenzione dalla giurisdizione dei vescovi, costituiva un privilegio dei monasteri benedettini non solo nella diocesi di Andria, ma quasi dappertutto. Tuttavia il monastero di S. Maria del Monte Balneolo si trovava nella diocesi di Andria, come attesta lo stesso documento, pontificio.
A conclusione di questa breve digressione, diamo un cenno di Castel del Monte. Esso è di stile gotico; ha due piani di forma ottagonale e misura 24 metri di altezza. Si accede al portale con una scalinata di 12 gradini, che una volta erano rivestiti di marmo. L’Avena così descrisse il portale: «Magnifico e superbo, che in complesso arieggia le opere classiche. Le sue linee schematiche appariscono edotte dall’arte romana. Il Bernich, infatti, dandone le proporzioni, prova che è iscritto in un quadrato e mezzo. La larghezza, presa agli estremi dei due pilastri che lo fiancheggiano, è di circa m. 6, ed altrettanto è alta dalla soglia la trabeazione orizzontale, mentre l’altezza del frontone è la metà di quella del quadrato così risultante. Queste proporzioni riproducono il modulo usato nell’architettura romana, applicato specialmente negli archi di trionfo di Roma antica, sui quali è modellata la bellissima porta».
Al pianterreno e al primo piano ci sono otto sale simmetricamente disposte, tutte di forma trapezia, fra otto robuste torri. Le finestre del pianterreno sono di stile romanico.
Mediante tre scale a chiocciola, innalzate nell’interno delle torri terza, quinta e settima, dal pianterreno si sale al piano superiore maggiormente ornato. Le finestre esterne sono ogivali bifore, tranne una, trifora, che guarda Andria; invece le tre finestre che danno sul cortile sono ad arco tondo e quindi romaniche. Mentre le sale del pianterreno con volte a crociera sono sostenute agli angoli da mezze colonne di breccia rossa, quelle del piano superiore. sono poggiate su fasci di tre colonne di marmo bianco.
Sotto il pavimento, alla profondità di m. 0,65 ci sono pietre grezze, messe a coltello, ad imitazione dell’opus spinatum per impedire l’umidità. Diverse pareti del piano superiore hanno imitazioni dell’opus reticolatum, cioè costituito di pietre, disposte obliquamente, in maniera da formare con le teste la figura di una rete.
Il Perkins afferma che il Castel del Monte è l’edificio più completo di stile gotico, che ci sia nel mondo.
La parola Casale appartiene al latino medioevale e significa un piccolo gruppo di case. La formazione dei casali avvenne subito dopo la colonizzazione romana.
Lo sfruttamento dei terreni più adatti alla coltivazione fu principalmente opera di ufficiali e soldati romani, che avevano anche il compito di difendere il territorio per la grandezza e prosperità di Roma. I militari avevano diritto, secondo le disposizioni del tempo, a far propria la terra di conquista, quando avevano raggiunta una certa anzianità di servizio. Ogni soldato riceveva in premio 50 jugeri, il centurione 100 e il cavaliere 150.
Inoltre alcune famiglie patrizie, allettate dal clima e dalla fertilità dell’Apulia e Calabria, vennero a stabilirvi la loro dimora. Così sorsero le ville romane e, con l’andar del tempo, moltiplicatesi le famiglie, si formarono numerosi villaggi, di cui alcuni ricordano i nomi di quelle famiglie.
Comunemente si ritiene che i paesi con desinenza in anum come Conversano (Cupersius), Cassano (Cassius), Rutigliano (Rutilius) in provincia di Bari e molti piccoli comuni del Salento, abbiano origine gentilizia.
I casali ebbero anche nome di santi, cui era dedicata la chiesetta del luogo, come S. Lucia, S. Ciriaco, o denominazioni tratte dalla natura del terreno come Spineto (luogo coperto di spine), oppure con la stessa denominazione di casale. Trinitapoli è chiamata dal popolo il Casale; Casali si denominano ancora piccoli comuni in provincia di Salerno, Chieti e nell’Italia centrale e settentrionale. Un buon numero di essi sorse nei vasti possedimenti dei monaci e gli abitanti vivevano sotto la paterna giurisdizione dei monasteri.
Inoltre distrutte in tutto o in parte le popolazioni di antiche città, nel recinto di esse si formarono diversi gruppi di abitazioni, somiglianti ai casali, sparsi nelle campagne. Ciò si può arguire dalle tombe di epoca remota, sparse a gruppetti nell’ambito delle città, come si è constatato a Canosa. Ogni famiglia aveva accanto alla casa il campicello, che coltivava, e gli avelli, in cui riponeva con cura religiosa i resti mortali dei defunti.
Andri ebbe i suoi casali, in cui si suddivideva la città come in tanti quartieri. Ciò è dimostrato anche dalla toponomastica locale, che ricorda il Casalino. Si noti l’esistenza di un comune nella provincia di Novara col nome Casalino.
I casali, che formavano nell’alto medioevo Andri erano, a quanto sembra: Casalino, Catacana (voce greca che significa collocato in basso), Grotte S. Andrea, S. Fortunato, S. Lorenzo, S. Onofrio, S. Ciriaco, il Borghello.
Nel territorio agricolo di Andri erano disseminati altri casali, come Cicaglia, Trimoggia [6], S. Litio, Spineto, Calicchio (forse abbreviazione di Casalicchio), S. Lucia ed altri. Col tempo, per scorrerie e devastazioni, compiute da soldataglie di popoli rapaci, questi villaggi scomparvero in quasi tutta la Puglia settentrionale, mentre continuarono ad aver vita nel Salento.
I grossi centri della provincia di Bari possono essere spiegati dall’incremento dato dai normanni specialmente con la costruzione di fortificazioni. Certamente i superstiti casali del territorio di Andria si estinsero dopo la formazione della cinta di mura, avvenuta per opera del normanno Pietrone. Il clero di Trimoggia si rifugiò ad Andria nel 1104. Pur essendo di dubbio valore la pergamena, conservata nell’archivio della Collegiata di S. Nicola, che riporta gli accordi tra capitolo della cattedrale e il clero di Trimoggia, la notizia riferita del trasloco è di assoluta certezza. Sacerdoti e popolo trimodiensi si raccolsero in Andria ospitale e innalzarono un tempio a S. Nicola, le cui reliquie gloriose rapite a Mira formavano il vanto e la speranza di grandezza dei marinai baresi.
Riuniti tutti i casali, avemmo l’Andria del sec. XII con l’aspetto di una vera città con diversi quartieri e circondata di mura. Non facciamo la questione se Andria prima di questo tempo era una città. La crediamo oziosa. Andria può essere denominata città anche in riferimento al medioevo ob antiquitatem, essendo continuazione della Netium peuceta.
[1] PLINIO: Historia mundi, 1, III, c. 16.
[2] FABRE: Liber censuum Camerari.
[3] In Andria la chiesa ora chiamata S. Angelo, aveva il nome di S. Michele al Lago, perché a poca distanza il letto del Rivo o Aveldium formava un piccolo lago.
[4] L’ordine cistercense fu fondato dal benedettino S. Roberto a Citeaux in Francia ed ebbe come principale rappresentante il celebre S. Bernardo, abate di Clairvaux (1091-1153).
[5] Questo documento fa pensare che il Castel del Monte, non sia opera di Federico II, ma sia stato costruito dai benedettini e devoluto poi all’imperatore con un atto di persecuzione tirannica, come afferma la Bolla.
[6] Questi due casali sono ricordati in una pergamena dell’843, esistente nell’archivio della cattedrale di Trani - PROLOGO: Le carte della Cattedrale di Trani - Vecchi, 1880.