L’Ughelli, abate delle Tre fontane, è il benemerito scrittore che, nei primi decenni del secolo XVII, raccolse e pubblicò le notizie delle diverse diocesi italiane nell’Italia sacra e rischiarò di luce nuova le storie locali. Egli visitò i singoli centro-diocesi e con dolore il più delle volte dovette constatare la deficienza quasi completa di documenti autentici sull’episcopato del luogo; con l’aiuto degli archivi del Vaticano, dei monasteri, di altri enti e di privati, cercò di ricostruire, come meglio poté, la serie cronologica dei vescovi di ogni diocesi e lasciò un monumento imperituro di storiografia ecclesiastica.
Come si spiegano le deficienze del materiale storico locale? Più che a trascuratezza dei nostri antenati, ciò è dovuto principalmente alle sventure patite dalla nostra Italia, sventure periodiche, distruggitrici di ogni vita e tradizione. Crolli, incendi, rapacità hanno devastato i depositi di papiri e pergamene gelosamente custoditi negli archivi degli antichi episcopi. Alle cause indipendenti dalla volontà umana si congiunse talvolta incomprensione del valore dei documenti e, ciò che è peggio, la triste usanza invalsa in qualche tempo di coniare falsi scritti, onde provare pretesi diritti o dare immeritato lustro alla propria terra. Vite tardive di martiri, di vescovi, di santi possono disorientare e indurre in inganno lo studioso.
Tutto questo fa comprendere il lavoro ingente da compiere per rintracciare la storia di una diocesi. Il lavoro dell’Ughelli non fu certamente scevro da errori. Il Muratori, nel 1743 scriveva così: «Tra le opere che si possono desiderare in Italia, sembra che specialmente sia da contare sopra una nuova Italia sacra. Abbiamo grande obbligazione all’Ughelli per la sua fatica. Ma quella è tuttavia informe e lontana dalla perfezione che si potrebbe e dovrebbe dare» [1].
È necessario, per conoscere qualche notizia sull’origine della diocesi di Andria, ricorrere, ai pochi documenti antichi esistenti altrove con riferimento ai nostri presuli. Anche lo studio dell’evoluzione storica dell’episcopato cattolico nelle diverse nazioni può aiutare il lavoro d’indagine.
I documenti superstiti sui vescovi della Chiesa sono dati dagli acta martirum, dai dittici, dagli scritti antichi di ecclesiastici e laici, dagli atti dei concilii e dalla corrispondenza pontificia. Se le lettere scritte dai papi ai vescovi non fossero state distrutte in massima parte nelle incursioni barbariche, sarebbero state la fonte più utile alla ricostruzione storica delle singole diocesi italiane.
Poche parole illustrative dei dittici. Già in uso presso i pagani, erano tavolette doppie da ripiegarsi, in cui si registravano i nomi dei consoli e magistrati. La Chiesa primitiva se ne servì dal secondo secolo per segnarvi i nomi dei vescovi, martiri e benefattori. Si distinsero in dittici per i vivi e per i morti. Erano letti dall’ambone durante le funzioni liturgiche; in quelli dei vivi erano scritti i nomi dei pontefici, vescovi, sacerdoti, imperatori, re e di altri benefattori; negli altri erano registrati i defunti vescovi e persone insigni, la cui memoria in qualche modo era legata alla Chiesa del luogo. Anche queste preziose fanti di notizie storiche andarono in gran parte perdute.
Furono i continuatori della missione degli Apostoli: predicazione, santificazione e governo delle anime. Dagli apostoli stessi furono destinati, come si rileva dagli scritti giunti fino a noi, Tito a Creta, Timoteo. ad Efeso, Policarpo a Smirne. Le lettere di Ignazio, vescovo di Antiochia e discepolo dell’evangelista S. Giovanni, fanno comprendere chiaramente che l’episcopato monarchico era già un fatto in tutta la Chiesa nascente dall’oriente all’occidente, da Antiochia a Roma.
Il nome vescovo fu usato indistintamente con presbitero e papa. Solo più tardi si fece netta distinzione tra i tre termini e papa fu chiamato il successore di S. Pietro, vescovi i rettori delle diverse chiese cattedrali, presbiteri tutti gli altri sacerdoti.
I vescovi erano eletti dagli altri confratelli con la approvazione della comunità cristiana. Alla morte del pastore, si radunavano i vescovi vicini e, dopo aver interrogato il clero e le persone più rappresentative del luogo, presentavano all’adunanza generale il candidato, dicendo: «È costui quello che volete? Possiede le doti necessarie alla sua dignità?». E il popolo rispondeva: «È degno». Quest’uso rimonta ai primi secoli e viene ricordato da S. Cipriano, vescovo di Cartagine nel secolo terzo.
Al Concilio di Nicea del 325 fu confermata la stessa procedura con l’aggiunta dell’approvazione da parte del metropolita. Il vescovo eletto doveva essere consacrato da almeno tre vescovi, disposizione ancora in uso al tempo presente.
Sin dal secondo secolo abbiamo vescovi dappertutto, specialmente nell’Oriente. Essi dovevano stabilire le nuove chiese e convertire i pagani alla dottrina evangelica; anche i villaggi avevano il proprio pastore.
In seguito il Concilio di Sardica del 343 dispose che i villaggi non potevano avere un vescovo proprio: «Non bisogna stabilire, fu sancito, vescovi in un villaggio in una piccola città, ove un solo presbitero basta, affine di non avvilire il nome e l’autorità di vescovo».
Una caratteristica dell’episcopato subito dopo la era apostolica fu la stabilità. Mentre gli apostoli avevano dappertutto le stesse facoltà di governo spirituale, i loro successori ebbero poteri limitati alle proprie chiese. Nel concetto liturgico essi realizzavano con la chiesa dipendente un connubio spirituale e perciò non potevano abbandonare una sede per assumerne un’altra. Tali poteri, pur ristretti nei confini del territorio diocesano, erano indipendenti dall’autorità dei confratelli e solo subordinati al romano pontefice.
Quando i vescovi si univano insieme per discutere su argomenti di fede e di disciplina, formavano un Concilio. Se le adunanze avvenivano nell’ambito della provincia ecclesiastica, erano presiedute dal metropolita. Se invece l’invito si estendeva a tutta la Chiesa, il Concilio si chiamava ecumenico ed era presieduto dal papa o dai suoi rappresentanti. Talvolta vi presero parte gli imperatori per tutelare i diritti e la libertà dei convenuti. I primi quattro concilii ecumenici furono di grande importanza e venivano commemorati nei dittici delle sacre funzioni. Il primo fu tenuto a Nicea il 325, alla presenza di 318 vescovi, tra i quali S. Nicola di Mira esso definì la divinità di Gesù Cristo contro le teorie di Ario. Il secondo ebbe luogo a Costantinopoli il 381 con l’intervento di 150 vescovi, che definirono la divinità dello Spirito Santo. Il terzo si svolse ad Efeso il 431; vi parteciparono 200 vescovi, che definirono la maternità divina di Maria santissima. Il quarto fu convocato a Calcedonia il 451 con la partecipazione di 630 vescovi quasi tutti orientali, tranne due africani e i legati pontifici. Fu dichiarato che in Gesù Cristo sono due nature, la divina e l’umana.
Il nome diocesi era usato anche presso i romani e significava una regione, che includeva diverse provincie. Costantino divise l’impero in quattro diocesi Italia, Illiria, Oriente ed Africa. Una divisione posteriore enumerava 14 diocesi e 120 provincie. A capo della diocesi era un console, mentre la provincia era governata da un proconsole.
Nell’organizzazione della Chiesa, diocesi significò sede residenziale del vescovo e provincia sede del metropolita.
In Italia, Roma costituì sino alla metà del secolo secondo unica diocesi ecclesiastica, diretta dal papa: Le necessità dell’apostolato e la diffusione rapida del Cristianesimo nell’Italia centrale e meridionale indussero il romano pontefice ad inviare presso i cristiani sacerdoti con poteri episcopali (episcopi escurrentes). Così si formarono le prime comunità cristiane, governate da vescovi, subordinati al papa, che per molto tempo continuò ad essere unico metropolita dell’Italia e isole adiacenti (Sicilia, Sardegna e Corsica).
Dopo la pace costantiniana i vescovi italiani erano molti; la loro nomina doveva essere convalidata dal papa, cui era riservata la consacrazione almeno per i vescovi più vicini a Roma. Il sommo pontefice convocava i vescovi italiani in adunanze sinodali, dai cui verbali superstiti si sono conosciuti i nomi di alcune sedi residenziali antiche.
Dal I al VI secolo la diocesi si chiamava anche parrocchia ed aveva un territorio alle volte ristretto alla sola città di residenza. Diocesi più estese erano invece quelle dell’Italia settentrionale. Nel secolo quarto Milano divenne metropoli; più tardi Ravenna, divenuta sede dell’impero, ebbe lo stesso onorifico titolo e nel secolo quinto fu pure metropolita il vescovo di Aquileia.
In Africa la diffusione del Cristianesimo fu anche rapida. Le sedi residenziali dei vescovi si moltiplicarono in modo straordinario, e il metropolita, ad imitazione della diocesi romana, era unicamente il vescovo di Cartagine. Egli chiamava ogni anno i vescovi suffraganei per stabilire nelle assemblee sinodali le norme della propaganda evangelica, combattere gli errori e chiarire le dottrine cristiane. Nel secolo III l’Africa aveva 150 vescovi, 250 nel sec. IV e nel sec. V raggiungeva la rilevante cifra di 600 presuli. Questa regione ebbe vescovi illustri, tra i quali splende come fulgido sole S. Agostino, scrittore profondo di 93 opere, divise in 232 libri.
In Oriente le circoscrizioni ecclesiastiche si modellarono su quelle civili. Le sedi residenziali furono moltissime ed avevano in ogni provincia il metropolita. Ciò fu sanzionato dai Concilii di Nicea (325) e di Antiochia (341). I metropoliti potevano anche istituire nuove sedi vescovili. Si può citare l’esempio di S. Basilio Magno, il quale istituì due nuove diocesi a Nissa e Sasima; la prima affidò al fratello Gregorio, detto poi il Nisseno e l’altra a Gregorio di Nazianzio.
I vescovi di Roma, Alessandria e Antiochia, diocesi di origine apostolica, oltre il titolo di metropoliti, avevano quello di arcivescovi e patriarchi con giurisdizione anche sui metropoliti. Il papa era il giudice supremo di tutti i vescovi occidentali e orientali. Nel concilio romano del 501 trionfò, conforme alla tradizione, il principio che il sommo pontefice non poteva essere giudicato da nessun altro vescovo. Egli inoltre era l’aiuto dei confratelli, il promotore dell’evangelizzazione del mondo, il difensore dei deboli e poteva perciò chiamarsi, come disse S. Gregorio Magno, servus servorum Dei.
Questa in brevi tratti l’organizzazione della Chiesa cattolica nei primi secoli dell’era cristiana, organizzazione che ha destato ammirazione anche agli avversari.
I vescovi furono promotori della civiltà cristiana e molti si distinsero per dottrina e santità. Nel secolo IV S. Ambrogio di Milano con le virtù e la sapienza riusciva a dominare lo stesso imperatore Teodosio, in Africa S. Agostino governava la sua piccola diocesi di Tagaste e nel medesimo tempo convertiva molti eretici e costituiva la nuova scienza filosofica e teologica, e a Costantinopoli S. Giovanni Crisostomo faceva echeggiare la sua eloquenza affascinante, incanto delle folle e terrore dei prepotenti.
Purtroppo i documenti superstiti alle invasioni barbariche e alle ingiurie del tempo e degli uomini sono pochi e, tra questi, pochissimi sono autentici e degni di fede. Conseguentemente ogni lavoro critico sui primi vescovi dev’essere monco, insoddisfacente.
E ne adduciamo la prova, S. Atanasio (296-373), il grande atleta della fede cattolica, patriarca di Alessandria, perseguitato a morte dagli ariani, scriveva il 349 o 350 che più di 400 vescovi erano concordi con lui dalla grande Roma, da tutta l’Italia, dalla Calabria, dall’Apulia. Oggi le sedi residenziali italiane non raggiungono complessivamente il numero di 300. Fermiamoci a considerare la diocesi della regione pugliese, come è costituita ecclesiasticamente. Essa comprende le sedi metropolitane di Bari, Otranto, Taranto, Brindisi e Trani e 13 vescovi residenziali, mentre le diocesi sono 26, di cui alcune unite e rette da unico prelato. Supponendo uguali le proporzioni, al sec. IV le sedi pugliesi dovevano essere almeno 30.
Il Lanzoni il 1927 pubblicò una seconda edizione di uno studio critico sulle diocesi, d’Italia dalla origine al 604. Egli ha potuto dimostrare l’esistenza di appena nove diocesi pugliesi e cioè: Canosa, Trami, Bari, Eignazia, Brindisi, Lecce, Taranto, Gallipoli e Otranto. Questa grave lacuna svisa molto la realtà storica e ci occulta dolorosamente diocesi scomparse del tutto, il cui lavoro per la diffusione della fede rimarrà forse per sempre nelle tenebre più fitte.
Le diocesi pugliesi più antiche e più importanti appaiono Otranto, Siponto e Canosa. Otranto nel secolo VI dipendeva da Costantinopoli; fu costituita come la capitale dell’Apulia; perché retta civilmente da un tribuno con poteri estesi alla regione. L’esistenza di tale magistrato in quella città si rileva da una lettera scritta da S. Gregorio Magno al tribuno Occiliano per raccomandare alla sua benevolenza coloro che avevano molto sofferto sotto il governo del predecessore Viatone. Un’altra lettera dello stesso papa scritta nel 595 affidava al vescovo Pietro di Otranto le diocesi vacanti di Gallipoli, Lecce e Brindisi. I bizantini più tardi fecero di Otranto una metropoli per attirare maggiormente nella loro politica di opposizione a Roma l’Apulia del sud.
La diocesi, di Siponto (Manfredonia) è legata intimamente all’apparizione di S. Michele Arcangelo, in cui ebbe parte importante il vescovo del tempo Lorenzo. Sebbene non tutti i varî documenti, che parlano dei fatti miracolosi verificatisi al Gargano, meritino uguale fede, l’apparizione è certamente avvenuta nel secolo V e in quell’epoca nel calendario della Chiesa appaiono le feste del 9 maggio (apparizione) e 30 settembre (dedicazione della basilica di S. Michele). Da quel tempo il Gargano fu meta di pellegrinaggi da tutto l’Occidente. Papi, imperatori e turbe infinite di fedeli visitarono con grande devozione lo speco santificato dalla presenza dello spirito celeste. Questi pellegrinaggi, numerosissimi nel medioevo, continuano ai nostri giorni a scopo di purificazione e di perfezionamento sotto le ali purissime del messaggero di Dio.
A Canosa, una delle prime diocesi dell’Apulia, si distinse il vescovo S. Sabino nella prima metà del colo VI. Egli fu di uno zelo straordinario e di una bontà eccezionale sì da meritare particolare stima dal papa S. Agapito (535-536), dal quale fu inviato come rappresentante a Costantinopoli presso l’imperatore Giustiniano nell’elezione del patriarca. Fu amico di S. Benedetto e riscosse anche le simpatie del barbaro re degli ostrogoti Totila. Quest’alta figura di vescovo, la cui importanza sorpassò i confini della città, che gli dette i natali e lo ebbe padre e pastore, basta da sola ad illuminare l’episcopato pugliese dei primi tempri della Chiesa, tempi di dure sofferenze, di feroci persecuzioni, ma anche di eroismi senza confronti.
Abbiamo detto che nel secolo IV i vescovi d’Italia e isole adiacenti erano più di 400. Supponendo l’esistenza di Netium in quel secolo, potremmo domandarci: ebbe Netium il suo vescovo? Purtroppo non possiamo dare alcuna risposta rassicurante. La Peucezia dovette avere diversi vescovi, ma anche le diocesi di Ruvo e Bitonto, che sopravvissero allo sterminio, rimangono nella notte più fonda circa la loro origine.
Andri certamente fu sede di diocesi. Quando? È necessario andare avanti a tastoni per rintracciare qualche notizia. Possiamo affermare che probabilmente Andri ebbe il suo vescovo verso il secolo VI o VII; con certezza ricorda alcuni del secolo VIII.
Il piccolo abitato, che nel secolo V forse comprendeva il solo rione di S. Andrea, unito ai vari centri rurali, man mano formatisi nel territorio fino alle Murge, richiedeva cure spirituali da parte di sacerdoti diversi, retti da un capo. La tradizione locale circa un episcopio nella primitiva Andri fa pensare al vescovo del VI o VII secolo con giurisdizione su Andri e i casali sorti nella campagna. Bisogna tener presenti le condizioni del tempo molto diverse dalle presenti per convincersene. L’Apulia, compresa la Hirpinia, in quell’epoca, secondo calcoli approssimativi, non aveva più di 350.000 abitanti su una superficie di 30.000 Kmq., cioè quasi 12 abitanti per ogni Kmq. Le diocesi dunque allora erano piccole, molto più piccole delle più modeste sedi contemporanee.
L’Ughelli nota che la diocesi di Ugento ai suoi tempi, cioè nel secolo XVII aveva 2.600 anime sparse in 8 comuni e 6 frazioni. Donde si può dedurre l’ambito ristretto delle piccole diocesi di dieci secoli prima.
Una prova più convincente dell’antichità remota della diocesi di Andrj è il suo vasto territorio rurale. È comunemente ritenuto dagli storici che i territori delle diocesi si modellarono, perfettamente sui civili. Ora la diocesi antichissima di Canosa, secondo notizie attendibili, aveva il territorio fino alla città di Minervino, S. Ferdinando di Puglia e Canne, il che fa supporre che al sud e a sud-est della città ci fosse un’altra diocesi, quella. di Andri, che si spingeva e si spinge tuttora ad ovest fino alle Murge, lontane oltre venti chilometri dalla sede vescovile.
La piccola basilica del Salvatore costituisce un argomento archeologico di indubbia importanza. L’opinione dei tecnici, espressa nel capitolo II, assegna una data, che si aggira dal secolo VII al secolo X. Bisognerà ridurre l’ipotesi ai secoli VII e VIII per motivi diversi da quelli artistici e archeologici. Il Lanzoni, che non è molto tenero per le tradizioni, nella citata opera dice testualmente: «Durante il IV e il V secolo nelle città imperiali (Roma, Milano, Ravenna) e in pochissime altre (ad esempio Aquileia, Napoli) la cattedrale è la sede dell’amministrazione diocesana venne costruita entro le mura; nelle rimanenti fu edificata nel suburbano presso l’area di un cimitero cristiano, ordinariamente del cimitero cristiano primitivo, e sopra i sepolcri dei martiri locali; e la cattedrale, successivamente restaurata o rifatta, rimase nel suburbano per parecchi secoli. Solo nell’VIII e, più, nel IX secolo al tempo dei Carolingi, le cattedrali furono traslocate dentro la cinta urbana, e in qualche luogo (ad. esempio Imola, Foligno) circondato di mura a modo di castrum» (pag. 88).
Questa citazione era necessaria per dimostrare la epoca precarolingia della nostra basilicula. Essa era posta proprio nel suburbio, sulla rocca della cittadina e fu contenuta entro le mura solo dall’epoca normanna. Per convincersene basta osservare la pianta di Andria, tracciata dal Pacichelli (1640-1702). Dietro il palazzo ducale e la cattedrale si scorge aperta campagna, solo interrotta dalla cinta muraria e da qualche molino. Anche qui viene in aiuto la toponomastica. Il rione compreso tra piazza Municipio e piazza Catuma si chiama con voce dialettale punta delle vigne (confine estremo dei vigneti), il che conferma quanto si è detto.
Perché la basilica, dedicata al Salvatore, fu chiamata come ci assicura la tradizione locale, chiesa di S. Pietro? Il popolo di Andri, in omaggio alla comune credenza della venuta di S. Pietro, fratello di S. Andrea e capo degli apostoli, ad evangelizzare l’antica Netium, chiamarono S. Pietro la chiesa cattedrale. Del resto la diversa denominazione non fu una peculiarità di Andri. Sappiamo che la cattedrale romana, caput urbis et orbis era dedicata al Salvatore, ma si chiamò comunemente la basilica di S. Giovanni.
La chiesetta di S. Andrea a quale epoca rimonta? Supposto, come abbiamo detto avanti, che l’attuale sia un rifacimento dell’antica, questa doveva essere del V o VI secolo, quando Andri era costituita dal solo rione di S. Andrea. Poté divenire cattedrale non appena Andria ebbe i primi vescovi, che in seguito costruirono fuori l’abitato una chiesa più ampia a stile basilicale conforme ad altre cattedrali del tempo.
Nel secolo VIII abbiamo qualche nome di vescovo andrense. Il Cappelletti e il Gams riportano, quale vescovo sancti Andrii un Gregorio del secolo VIII, senza la determinazione dell’anno preciso. La sua morte era segnata al 22 agosto.
Inoltre l’Ughelli assegna come vescovo di Andri Cristoforo, che partecipò al Concilio di Nicea il 787.
Dopo la feroce persecuzione iconoclasta, voluta dall’imperatore Leone l’Isaurico, (717-741) il papa Adriano (771-795), pregato dall’imperatrice Irene (752¬803) indisse un concilio ecumenico a Nicea. Vi parteciparono nella quasi totalità vescovi orientali, che definirono lecita la venerazione delle sacre iconi, perché tale devoto omaggio non è reso direttamente alle immagini, ma ai santi, che rappresentano.
Vi partecipò il vescovo di Andri? Alcuni l’hanno negato, perché Andri non era diocesi orientale. Osserviamo che molte diocesi meridionali in quel tempo erano soggette a Costantinopoli e perciò potevano chiamarsi in qualche modo orientali. Le diocesi pugliese-orientali partecipanti a quel concilio furono, oltre Andri, Bari e Bisceglie [2]. Il nome del vescovo non si può precisare. Secondo l’edizione del Mansi, il vescovo Cristoforo apparteneva a. S. Ciriaca (Gerace, diocesi calabro-orientale nel senso suddetto). Sono riportati dal Mansi due vescovi di Andri, Costante e Costantino. È facile che uno dei due si riferisca ad Andros, diocesi poi scomparsa. L’incertezza del nome non nuoce alla storicità del fatto.
Sono queste le poche fonti, donde abbiamo potuto arguire con certezza la relativa, antichità della nostra diocesi, tormentata da sciagure senza fine durante il lungo periodo delle dominazioni barbariche e di quella bizantina, non meno disastrosa delle altre.
Nel secolo X le scorrerie mussulmane e l’invasione slava distrussero, quanto lentamente si era edificato. Case atterrate, cittadini angariati o uccisi, monaci esiliati o soppressi, templi bruciati o demoliti furono le gesta della soldataglia. Nella descrizione della piccola basilica il Bernich osservava che le colonne hanno superficie scabrosa e intaccata, ciò che fa supporre abbiano subito la violenza del fuoco.
Andri agonizzò e per poco non giacque come l’antica Netium. Forse l’attaccamento alla basilica e al suolo fertile delle sue campagne trattenne il popolo superstite e ravvivò la speranza in un domani migliore.
Poco dopo il 1000 ritornarono i benedettini e ravvivarono la vita religiosa. Più tardi un altro popolo barbaro, il Normanno, occupò le nostre terre. Provvidenzialmente la bontà e laboriosità del popolo andrense fu compresa e sostenuta dai nuovi padroni, che intesero sfruttare i soggetti più con opere di pace che con 1o sterminio. E Andri risorse materialmente e spiritualmente. Ebbe le sue mura a tutela del lavoro pacifico e di un minimo di giustizia sociale. Ma soprattutto ebbe il suo vescovo, il vescovo provvidenziale, l’inglese S. Riccardo, il quale migliorò gli animi inselvatichiti dalla crudeltà, prepotenza e disonestà dei diversi dominatori e stabilì le basi della prosperità religiosa, i cui monumenti ancora oggi costituiscono un cantico di fede e un ammonimento al bene.
Canosa sotto i longobardi divenne, come si è detto nel capitolo II, sede di castaldato. A principio del secolo IX ebbe come presule il principe longobardo Pietro, il quale ottenne dal papa Gregorio IV che la sede canosina fosse dichiarata arcivescovile. Egli purtroppo dovette fuggire insieme a sacerdoti e cittadini nell’invasione saracena e si rifugiò a Salerno, dove morì l’842.
In seguito la sede canosina fu anche metropolita e primaziale di tutta la Puglia fino al dominio normanno. Essa si mantenne sempre fedele a Roma nelle contese con l’Oriente e qualche suo arcivescovo morì esule a Costantinopoli. Il papa Urbano II trasferì a Bari la sede metropolitana e primaziale il 1089. Da questa data l’importanza politica e religiosa di Canosa andò sempre più declinando. Il 1102 la città ebbe l’onore di ospitare il papa Pasquale II, che consacrò la cattedrale di S. Sabino.
Emula di Canosa fu Bari, diocesi antica, forse del secolo IV. Crebbe la popolazione con l’immigrazione dei diversi dominatori e crebbe altresì il benessere economico per l’attività commerciale con l’Oriente. La sua importanza religiosa data dal 1087, anno dell’acquisto delle reliquie di S. Nicola di Mira (9 maggio). Il Santo taumaturgo benedisse la città, i cui animosi marinai avevano salvato il suo venerato corpo dal pericolo turco e le ottenne un vescovo santo. Da quel giorno Bari sarebbe stata considerata dal mondo cristiano come la seconda patria di S. Nicola.
Il vescovo della rinascita barese fu Elia, il benedettino, confratello del papa Urbano II. Il quale, il 1089, a due anni di distanza dall’impresa marinara, consacrava a Bari il nuovo presule e rendeva la diocesi sede primaziale delle Puglie, cui furono sottoposte come suffraganee 19 diocesi, tra cui Andre. Bari raggiunse con lui il massimo delle aspirazioni. Col possesso dell’antica venerata icone della Madonna Oldegitria e del corpo del Santo di Mira, essa inconsapevolmente aveva stabilito una testa di ponte per la conquista spirituale dell’Oriente; con l’avvento del vescovo santo, legato con fili doppi alla Chiesa di Roma, meritò completa vittoria e divenne l’erede dello splendore di Canosa. Il Concilio di Bari, tenuto il 1090 e presieduto dallo stesso Urbano II, sanzionò definitivamente la raggiunta supremazia.
Un’altra diocesi, aspirante all’eredità canosina era Trani. Città, divenuta importante politicamente sotto il dominio longobardo, sede di castaldato, sebbene subordinatamente a Canosa, ambiva l’ascesa nella gerarchia ecclesiastica. Il vescovo di Trani assunse arbitrariamente il titolo di arcivescovo nel secolo X per tacita o esplicita compiacenza di Bisanzio, che voleva attrarre nella sua orbita i maggiori centri dell’Italia meridionale e allontanarli da Roma. Ma i papi non approvarono il fatto compiuto.
Il vescovo di Trani Giovanni si mostrò molto docile verso il patriarca di Costantinopoli, forse per spuntarla su Bari, e fu il destinatario di una lettera dell’arcivescovo bulgaro Leone d’Acrida, in cui erano rivolte viete accuse contro la Chiesa romana (1053). La diocesi poggiava la sua ambizione sulla prosperità politica raggiunta e sulla posizione geografica, essendo a pochi chilometri da Canosa, ma non godé il favore dei papi forse per l’esagerata condiscendenza a Bisanzio, e rimase in sottordine. Fu sottoposta a Bari il 1089 o qualche anno prima, pur essendo sede metropolitana relativamente ad Andria ed altre piccole diocesi.
[1] CAMPORI: Epistolario.
[2] Collectio Conciliorum Labbei et Cossartii.