La liturgia è il culto ufficiale della Chiesa. Fu identificata, con la celebrazione del sacrificio della Messa, perché questo costituisce la base e il centro del culto esterno, sociale, evangelico.
La liturgia si può dire la vita della Chiesa nella unione intima a Dio e a tutti i membri rigenerati dalla grazia. La legge dell’amore, come espressione di avvicinamento a Dio e di collaborazione alle esigenze del prossimo è splendidamente indicata nelle preghiere liturgiche, fusione di spiriti, unione del cielo e della terra, implorazione ed acquisto di grazie, lavoro interiore per la diffusione del regno di Gesù Cristo. Dopo Dio, uno di natura e trino di persona, sono oggetto di culto Maria, madre di. Gesù, e i santi, eroici esecutori della legge e dei consigli evangelici.
Chi concepisce la liturgia come complesso di aride cerimonie, non ha compreso nulla della vita della Chiesa. Chi entra nel tempio con l'intento esclusivo di ammirare lo stile del sacro edificio, le ricche vesti dei ministri del santuario, i gesti vari delle cerimonie è un esteta, non un credente.
La comprensione della preghiera liturgica come elevazione dell’anima a Dio, lo studio del significato storico e simbolico delle cerimonie ammette il fedele alla vita della Chiesa e gli comunica a poco a poco il fervore dei primi cristiani, uniti nella fractio panis al ministro di Dio, sacerdote e vittima per la santificazione delle anime.
Per questo la Chiesa è stata sempre gelosa custode della sua liturgia. In Italia il romano pontefice, l'unico metropolita, regolava le norme generali del culto, mentre altrove erano i vescovi, uniti in concilii particolari, a determinare l’importante disciplina. Così sorsero i diversi riti, che risentono dell’ambiente, in cui ebbero origine e sviluppo.
Il rito orientale è il più solenne con prevalenza di simbolismo espresso in formule e cerimonie, avvolte di mistero. Anche i riti di Spagna e di Francia si avvicinavano a quello orientale. All’opposto il rito romano è semplice, pratico, sobrio, dignitoso e rispecchia fedelmente la tradizione imperiale, dominata da saggezza e prudenza.
Nella manifestazione del culto una parte riguarda il magistero infallibile della Chiesa e un'altra è di indole prettamente storica. Gesù Cristo promise la sua assistenza a S. Pietro, agli apostoli e ai loro successori uniti al papa soprattutto per garantire l'unità, della fede e della legge morale. La storia rimane storia, soggetta ad alterazioni, a sviste, ad errori. Tuttavia anche dal lato storico la liturgia merita il rispetto degli studiosi, perché elaborata sotto la vigilanza oculata dell’autorità, premurosa in ogni tempo di allontanare dal culto ogni pericolo di falsità e di superstizione.
Chi approfondisce le regole minuziose della Chiesa nel lungo procedimento per la canonizzazione dei santi, può formarsi un concetto della cura guardinga e apparentemente esagerata nella ricerca e valutazione dei fatti riferiti intorno ai servi di Dio, candidati agli onori degli altari.
Ai nostri tempi la materia liturgica è affidata quasi esclusivamente ai dicasteri romani diretti dal papa. All’epoca di S. Riccardo, diminuito se non estinto l’influsso orientale, Andria e le altre diocesi pugliesi erano in comunicazione con Roma e ricominciavano ad accettare direttive in ogni campo, compreso quello disciplinare e liturgico. Il nostro Patrono ebbe la Messa e l’ufficio proprio a cura dei vescovi locali in uniformità alla liturgia romana.
Fu trovata dal Morgigno, il quale così racconta l’episodio occorsogli: «Fu a me concessa la fortuna di scoprirla nel novembre 1909 nella Biblioteca Vallicelliana di Roma. Il che, grazie a Dio, io devo ad un benigno concorso di circostanze, che favorirono il ritrovamento di essa; cioè alla cortesia del bibliotecario, che tutto si offrì alle mie domande, all’inatteso arrivo di un abbreviatore di Curia, che cortesemente mi lesse il Codice irto di abbreviazioni» [1].
Questa Messa facilmente si leggeva prima dello smarrimento delle reliquie di S. Riccardo. Il Del Balzo rinvenne solo i tre Oremus in un foglio di messale; è probabile che il resto sia stato rintracciato e usato dopo il ripristino del culto al santo Patrono, ma ciò non risulta. Dopo la riforma liturgica, auspicata dal concilio di Trento e voluta dal papa S. Pio V, anche la Messa di S. Riccardo subì alcuni ritocchi e si trasformò in quella attuale. Mons. Resta, allora vescovo di Andria, ammiratore e zelante apostolo del culto riccardiano, adattò la liturgia della Messa alle nuove disposizioni pontificie.
Confrontando le due Messe, ne rileviamo subito le differenze. Nella più antica abbonda la parte destinata al canto. Il Graduale è in versi rimati e molto più esteso dell'attuale. Anticamente questa parte della Messa domenicale o festiva era cantata «da un diacono, prima di S. Gregorio Magno e, dopo, da un cantore sul gradino (donde il suo nome) inferiore del pulpito di sinistra, destinato alle letture dell’Antico Testamento e dell'Epistola. La sua melodia, arricchita di neumi fin dal secolo V. veniva a porre in rilievo l’idea dominante della lettura e ravvivare la attenzione degli uditori, che rispondevano con la ripetizione dello stesso versicolo» [2].
Un altro inno soppresso nella riforma è la Sequenza di S. Riccardo. In essa si esprime in veste poetica, ma facile e quasi popolare la vita del Patrono, intrecciata ai bisogni spirituali dei figli andriesi.
La prevalenza delle parti poetiche, destinate al canto, ricorda la solennità della Messa antica. Essa era celebrata esclusivamente dal vescovo mentre i sacerdoti concelebravano e i ministri inferiori erano addetti alle parti accessorie della sacra liturgia sacrificale. Il vescovo entrava in chiesa al canto dell’Introito, cui seguiva il Kirie. Le preghiere da principio si lasciavano all’improvvisazione del celebrante, ma poi furono determinate e inserite nei Sacramentari. La parte essenziale della Messa incominciava dal Canone, avvenuta l’esclusione dal tempio dei catecumeni. Tutti i fedeli presenti partecipavano alla Comunione.
In seguito la Messa poté essere celebrata anche dai sacerdoti senza ministri e cantori, con cerimoniale ridotto. Il declinare della liturgia solenne incomincia, dal secolo XIII e si accentua nei due secoli seguenti, conseguenza lacrimevole della cattività avignonese e dello scisma d’occidente. I fedeli cercano di coltivare le devozioni particolari e il clero abbrevia le sacre cerimonie senza curare la partecipazione attiva della comunità cristiana.
Il concilio di Trento introdusse salutari riforme, ma non poté ripristinare la solennità del culto antico.
Il Prefazio, cioè l'introduzione al Canone nella Messa di S. Riccardo è proprio, ossia non è comune ad una categoria di santi. Ai primordi della sacra liturgia quasi tutte le Messe avevano prefazi propri, ma S. Gregorio Magno li limitò a dieci. Nel secolo XI, col diffondersi della liturgia romana in tutto l’Occidente si compilarono nuovi Prefazi propri per le solennità maggiori. Nessuna meraviglia che la festa patronale di Andria abbia avuto nel secolo XII un Prefazio speciale.
Un, altro rilievo riguarda la Sequenza. Essa serviva a dare corpo ad alcuni canti neumatici un po’ estesi, che seguivano il Graduale. Ebbero origine nel secolo IX ed avevano funzione extra-liturgica; in seguito fecero parte della Messa. Nell’attuale disciplina ne sono rimaste poche, ma tutte belle, dense di pensiero e di poesia. Esse sono: Victimæ paschali attribuita a Wipo († 1050) [3], Veni Sancte Spiritus attribuita ad Innocenzo III, Lauda Sion Salvatorem di S. Tommaso d’Aquino, Dies iræ di Tommaso da Celano († 1260) e Stabat Mater attribuita a Jacopone da Todi († 1306).
In complesso tutta la Messa riccardiana ha le parti classiche della struttura liturgica e a prima vista non presenta caratteri specifici per la determinazione: dell’epoca in cui fu elaborata. Troviamo nella forma l’elemento indicatore. La storia della liturgia ci insegna che la Sequenza e il Graduale in principio non erano in versi e solo nel secolo XII e nei seguenti invalse l’uso della Messa ritmica.
Abbiamo inoltre un nome, che non ci permette di allontanarci dal secolo XII; esso si trova all’inizio dei seguenti versi del Graduale:
Archipræsul Richarde mane qui custos
Andriæ, laudes devotas suscipe, facinoraque lue.
La parola Archipræsul vale arcivescovo e nel nostro caso indica le doti eccelse di pastore di anime, possedute dal santo. Ciò risente molto dell’uso ed abuso della parola arcivescovo nei secoli X e XI tra le diocesi pugliesi, dipendenti dall’Oriente. Se alcuni vescovi credettero di assumere arbitrariamente l’attribuzione arcivescovile, gli andriesi potevano credersi in diritto di prestare questo titolo a colui, che ne era particolarmente degno. Sistemate invece le circoscrizioni territoriali delle sedi metropolitane nei secoli XI e XII, il titolo arcivescovile dovette attribuirsi solo ad esse.
Stabilito il secolo XII per la glorificazione di San Riccardo nella liturgia sacrificale, osserviamo che essa contribuisce ad illuminare la storia del santo. L’accordo col breve cenno del calendario esaminato avanti è quasi perfetto. S. Riccardo è presentato come stirpe clarus et natura, Patrono di Andria: in terra præsulem et in cœlo Patronum meremur habere (Prefazio) e come taumaturgo: quotidianis miraculis approbat fidem (Prefazio). Nella Sequenza si accenna a miracoli fatti alla porta della città:
In ingressu civitatis
Morbo diu mancipatis
Praebet opem miseris.
Bisogna infine notare che era data ai sacerdoti facoltà di leggere il Vangelo dal Commune Doctorum. Ciò fa pensare alla fama di persona colta, posseduta dal santo vescovo e sanzionata dall’autorità diocesana. Solo dopo il Concilio di Trento il Commune Doctorum fu riservato a scrittori eminenti, dichiarati Dottori da un documento pontificio.
Il calendario e la Messa di S. Riccardo sono le prove più antiche del culto a S. Riccardo, si integrano a vicenda e sono conformi alla sostanza della tradizione locale.
Giorno e notte si loda Dio dalle creature riconoscenti della vita, del tempo, delle forze e delle grazie nell’ordine naturale e soprannaturale. Questo concetto, espresso diffusamente nei testi scritturali e inculcato come monito e precetto dal divin Salvatore: «Oportet semper orare et non deficere». (LUCA XVIII, 1) fu trasmesso dagli Apostoli alla cristianità da essi fondata e organizzata.
Il sacrificio eucaristico e la preghiera si intrecciarono e fusero insieme nelle prime comunità, raccolte nella mutua carità intorno al rappresentante di Cristo. L’elogio rivolto da S. Luca ai primi cristiani consiste proprio in ciò: «Erano assidui (i battezzati) all’istruzione degli Apostoli, nell’unione, nella frazione del pane e nelle preghiere» .(Atti, II, 42).
Di qui ebbe origine la preghiera pubblica, liturgica della Chiesa e si chiamò psalterium, horæ canonicæ, missa vespertina e, più tardi, divinum officium. Le adunanze della preghiera si facevano per lo più di notte, onde si unirono insieme le orazioni vespertine e mattutine e si determinò conseguentemente una continuità tra i vespri, matutino e le lodi.
Col monachismo l’ufficio divino, che prima si restringeva alle feste del Signore, si estese a quelle della Vergine, dei martiri, indi ai santi vescovi e specialmente ai papi. Si leggevano i salmi, parti dell’antico e nuovo Testamento e si recitavano varie preghiere. S. Benedetto compì il ciclo delle ore canoniche, aggiungendo Prima (ore 6), Terza (ore 9), Sesta (ore 12), Nona (primo pomeriggio) e Compieta (dopo il vespro, a sera inoltrata).
La composizione dell’ufficio notturno (matutino e lodi) e diurno (le altre ore) fu fatta secondo lo schema dello svolgimento della Messa prima del Canone. «Si può dire che in ultima analisi l’Avanti-Messa servì di prototipo a tutto l’ufficio canonico. La Messa dunque fu il centro di formazione e, in tutto il rigore del termine, il nucleo della liturgia cattolica. Tutti gli uffici del giorno e della notte, per conservare il loro significato liturgico, devono dunque rimanere in stretta connessione con la Messa» [4].
Sistemate ed abbreviate le preghiere, ebbe origine al tempo di S. Gregorio VII il Breviario, volume in folio, che comprendeva i diversi libri dell’ufficio (salterio, antifonario, responsoriale, vesperale, innario). Questo Breviario, necessariamente voluminoso, si usava dai canonici e dai monaci nel coro; più tardi nel secolo XII e seguenti si formarono breviari più piccoli, detti itineraria o portatilia.
Le lezioni furono in uso insieme ai salmi e consistevano in letture della sacra Scrittura, commenti dei Padri, atti dei martiri o dei confessori della fede. S. Benedetto prescrisse per il primo notturno l’antico Testamento, per il secondo i commenti. patristici a passi scritturali, per il terzo il Vangelo con la spiegazione omiletica. Solo più tardi, molto più tardi si introdusse l’uso o abuso di leggere nei tre notturni delle feste la sola vita dei santi celebrati.
L’ufficio di S. Riccardo si intitola Officium diurnum atque nocturnum. Non fa cenno alcuno alle ore diurne (prima etc.) perché queste si recitavano usando il Commune Confessorum Pontificum. Ha antifona speciale per i secondi Vespri. Le lezioni sono ritmiche come il resto dell’ufficio; ad esse dobbiamo rivolgere una particolare attenzione.
La forma poetica di tutto l’ufficio, come abbiamo detto per la Messa, fa supporre che la composizione risalga al secolo XII.
Ma bisogna ancora procedere oltre, perché in calce appare l’antifona dei secondi vespri. Nel periodo classico della liturgia esisteva solo il vespro, ossia la preparazione alla vigilia. Quando si elaborarono i Breviaria itineraria (sec. XIII), quasi a compensare l’accorciamento degli antichi uffici, si aggiunsero altre preghiere, tra le quali i secondi vespri [5].
L’esame diretto delle lezioni ci fa supporre un maggiore ritardo nella composizione. La forma poetica è solo esterna; non c’è nulla di elevato. Le parole generalmente sono una traduzione latina, più o meno felice, del volgare. Ecco un esempio della prima lezione:
Corpus eius honoravit
et devote collocavit
andrisanus populus
[6].
Si noti l’aggettivo andrisanus, usato ancora oggi nel dialetto locale. Quanta diversità dallo stile della Messa che, pur non essendo elegante, è abbastanza dignitoso!
Sanctæ corisecrationis
Facto mysterio,
Vir summæ devotionis
Redit a monte Gargano,
Quem repletis sacris donis
Ambiunt cum gaudio
Plebs fidelis collætatur
Et in Christo jucundatur
De Pastoris reditu.
Questo avvenimento non ha riscontro nel calendario, il documento più eccellente che, unito alle reliquie del santo, ci offre le notizie più sicure sul tempo e sulla vita del Patrono. Anzi è in aperto contrasto con esso, giacché i trecento anni e più, riferiti dall’elenco dei morti e dall’antichità della scrittura, ci possono portare non oltre il secolo XI, molto lontano dal secolo V o inizio del VI dei fatti garganici.
Bisogna pensare che l’ufficio sia stato composto molto tempo dopo la canonizzazione di S. Riccardo. Almeno le lezioni saranno state elaborate dopo il ritrovamento delle sacre reliquie [7].
Esiste molta affinità tra questa parte dell’ufficio e il latino del duca Del Balzo nella Legenda inventionis. Non essendosi trovata la vita del santo, il duca avrà raccolto le notizie della tradizione popolare, aggiungendole al resto dell’ufficio.
È da notare inoltre che nel racconto riferito si dà maggior rilievo al ritorno del santo in Andria, anziché al fatto stesso. Questo induce a credere che il duca, probabile compositore delle lezioni e il vescovo, che le ha approvate, non erano sicuri dell’avvenimento. Questa osservazione è confermata dall’inno storico, contenuto nell’ufficio medesimo. Esso ha un tono più elevato delle lezioni e non ricorda affatto l’apparizione di S. Michele Arcangelo o la consacrazione della chiesa o di qualche altare.
Di quest’inno riferiamo una strofa, che fa pensare ad un viaggio terrestre del santo per raggiungere Andria. L’inno afferma che S. Riccardo fu illuminato da S. Pietro sulla fede cristiana e sullo zelo pastorale; poi aggiunge:
instructus iamque properat
Urbes et terras superat,
Donec attingit Andriam,
Ad cuius sanat ianuam …
Ritorneremo su questo particolare nel capitolo seguente.
Il santo pontefice Pio V con la bolla Quod a nobis del 9 luglio 1568 ordinò la riforma dell’ufficio divino in tutte le chiese, assecondando il progetto riformatore del concilio di Trento e approvando le proposte pratiche di una commissione di vescovi istituita a tale scopo. Tutti gli uffici dei santi particolari dovevano uniformarsi alle linee generali, tracciate da Roma. Essi potevano avere solo tre lezioni, dedicate alla narrazione della vita e precisamente quelle del secondo notturno. Si fece eccezione per gli uffici, la cui antichità fosse di almeno duecento anni.
Il clero di Andria credette di non procedere alla riforma nella convinzione di possedere un ufficio molto antico. Ma era facile dimostrare il contrario. Nell’archivio capitolare si custodiva un volume del 1518, in cui fra l’altro era stampata la Legenda inventionis del duca Del Balzo. Come si poteva dimostrare l’esistenza due volte secolare dell’ufficio, se il 1451, tempo della ripresa del culto riccardiano, le lezioni non erano state ritrovate? Le nuove lezioni erano state elaborate 117 anni prima.
Il 1572, quattro anni dopo l’ordinanza pontificia, il nuovo vescovo di Andria si persuase della necessità di riformare l’ufficio di S. Riccardo. Egli fu il dotto Luca Antonio Resta, nativo di Mesagne nell’archidiocesi di Brindisi. Conoscitore della lingua latina e scrittore forbito, egli assunse personalmente l’arduo compito. Arduo, perché bisognava desumere la vita del santo, da fonti liturgiche accreditate e queste erano le lezioni dell’ufficio del 1451 e la leggenda dell’anonimo, anch’essa edita nel volume capitolare del 1518.
Non fu il suo un lavoro critico; nè doveva esserlo. Si trattava di seguire il nuovo schema della S. Sede, adattando quanto c’era di buono nella liturgia locale ed eliminando o trasformando il resto. Il colto vescovo notò certamente le differenze e divergenze tra le due biografie di S. Riccardo e credette di uniformarsi alla narrazione dell’anonimo. Si ebbe un ufficio liturgico con linguaggio e tecnica perfetti, che fu approvato dal santo padre Sisto V [8].
Nel documento pontificio si condonava una penalità, imposta al clero di Andria. Perché questa punizione? L’ufficio composto dal vescovo Resta fu usato dai sacerdoti di Andria prima dell’approvazione pontificia. Ciò contrastava con le disposizioni della bolla di Pio V e provocò il provvedimento del severo pontefice Sisto V.
L’approvazione romana, è bene notarlo, non riguardava la veracità delle lezioni, ma solo la conformità della liturgia laudativa di S. Riccardo alle recenti norme.
Mons. Resta non compì solo quest’opera a favore della diocesi andriese. Egli pubblicò un sinodo importante tenuto in diocesi il 1582 secondo le prescrizioni del concilio di Trento, sinodo di particolare valore, perché fu uno dei primi celebrato nell’Italia meridionale. Inoltre egli pubblicò a Venezia le norme per la sacra visita in un volume intitolato Directorium visitationum et visitandorum, opera utile all’episcopato del tempo e lodata da eminenti giuristi.
Piace infine ricordare la profonda pietà dell’illustre prelato. A Mesagne esiste ancora un’antica cappella, dedicata alla Madonna dei Miracoli di Andria. Quella cappella testimonia eloquentemente il tenero affetto del grande vescovo alla Madre di Dio e alla diocesi andriese, in cui lavorò e soffrì onde contribuire alla riforma della società secondo le direttive dei romani pontefici.
[1] Il MORGIGNO riporta il testo Integrale delta Messa nel volume: Risposta al libro di S. Riccardo, p. 47 e seg.
[2] COHELO: Corso di Liturgia romana - Vol. II.
[3] SCHUSTER: Liber Sacramentorum - Vol IV - Festa di Pasqua.
[4] D. CAROL: Origines Liturgiques - Paris, Letouzey, 1906).
[5] COHELO: Corso di Liturgia romana - Vol. IV.
[6] L’ufficio intero è riportato da ZAGARIA: S. Riccardo, p. 9 e seg.
[7] Le lezioni storiche sono 8. Vi è un accenno alla IX, che doveva essere presa dal Vangelo del Commune Confessorum Pontificum.
[8] L’AGRESTI riporta la nobile lettera di Mons. Resta compilata per l’annunzio del nuovo ufficio e le parole del breve pontificio di approvazione. Il capitolo cattedrale.