Per poter parlare dei problemi che il restauro di un'opera come la Laura di Santa Croce comporta, occorre tenere presente alcuni criteri fondamentali, i quali devono essere i principi informatori del lavoro in tutte le sue varie fasi. Un primo criterio è costituito dal quadro storico nel quale inserire l'opera in esame, inteso come salvaguardia delle caratteristiche architettoniche proprie dell'epoca nella quale l'opera è stata realizzata, senza volerne forzare lo spirito con interventi non pertinenti al contesto. Ciò può essere realizzato evidenziando i vari rifacimenti a cui si è andati incontro nel corso dei secoli, mediante l'uso di materiali e di tecnologie restaurative appropriata. Un altro criterio informatore che il restauratore riteniamo debba avere come punto di partenza, dovrebbe essere costituito dal fatto che un qualsiasi intervento si cerchi di effettuare esso, sia inteso in maniera globale, non tralasciando il benché minimo particolare che potrebbe pregiudicare l'uniformità dei risultati.
I criteri evidenziati sono resi necessari dal fatto che fino ad ora sistematicamente non sono stati tenuti in considerazione. Talune prove di ciò è possibile notarle nella presenza dell'altare e degli infissi della fine del secolo scorso, così come d'altro canto si assiste in tutti i punti dell'insediamento rupestre a rifacimenti, modifiche e aggiunte che danno all'insieme un aspetto notevolmente disomogeneo, disorganico e quindi non confacente, come si notava innanzi, con lo spirito storico che un'opera come la Laura di Santa Croce può fornire.
Ad una analisi anche superficiale dell'opera in esame, si rileva come la principale fonte di deterioramento sia determinata dalla umidità presente in notevole misura e dovuta sia per risalita dal terreno per imbibizione, e sia a causa di infiltrazioni di acque meteoriche penetranti dal tetto a causa della mancanza di una adeguata copertura. Il fenomeno di deterioramento è accentuato dalla natura stessa della roccia calcarea, che essendo notevolmente porosa trattiene una notevole quantità d'acqua e di sali in essa disciolti. Questi affiorando alla superficie della massa tufacea provocano quei fenomeni che sono ben visibili, quali esfoliazioni, patine ed efflorescenze, che interessano oltre che il tufo, disgregandolo, anche e soprattutto gli affreschi (1). Si comprende quindi, come un organico intervento di restauro non può prescindere dalla eliminazione delle fonti generanti umidità.
Ecco quindi che un primo determinante intervento conservativo è costituito dalla impermeabilizzazione della copertura.
Da alcuni documenti fotografici presenti su alcuni testi (2), si può rilevare come ancora sul finire del secolo scorso, era presente una copertura di tegole a doppia falda, la cui inclinazione è tuttora sommariamente rilevabile sulla facciata. Questa soluzione era stata riproposta da alcune parti, ma riteniamo di doverla categoricamente scartare, poiché pensiamo esuli dallo spirito storico dell'opera e generi un pericoloso carico sulla copertura. Si potrebbe realizzare, invece, una copertura adottante la tecnica del "coccio pesto o battuto", così come è stato realizzato in casi analoghi, ad esempio nel restauro della Cattolica di Stilo in Calabria o nella Basilica di S. Leucio a Canosa di Puglia. Occorre innanzitutto fornire il piano di copertura di una adeguata pendenza verso i bordi, cosa tra l'altro già presente. Qui mediante carotaggio verticale nella massa tufacea si realizzerebbero delle canalizzazioni entro le quali convogliare le acque che in seguito verrebbero allontanate.
La realizzazione dello strato impermeabile vedrebbe come prima fase la eliminazione del piccolo strato di terreno vegetale e di battuto di calcestruzzo disgregato attualmente presente. In seguito si pone in opera uno strato di circa un centimetro di polvere di coccio o di laterizio, e dopo averlo abbondantemente bagnato, lo si batte fortemente mediante appositi battitori in legno. Dopo aver effettuato la battitura, si predispone un nuovo strato di polvere di laterizio dello stesso spessore del precedente e ugualmente dopo averlo abbondantemente bagnato lo si batte fortemente. Questa operazione viene ripetuta per quattro-cinque volte. Lo strato che così si viene ad ottenere ha uno spessore di circa cinque centimetri e presenta una omogeneità ed una compattezza tali, da garantire la non infiltrazione di acqua meteorica dalla copertura. Naturalmente prima di effettuare le operazioni di battitura, si avrà avuto cura di predisporre all'interno adeguate armature di sostegno della volta, così da evitare incrinature e lesioni nella massa tufacea della stessa. Questo sistema era adottato in larga misura all'epoca dell'antica Roma, anche per intonacare pareti verticali e la loro durata nel tempo è possibile constatarla tutt'oggi.
Si sarebbero potute adottare impermeabilizzazioni adottanti tecniche facenti uso di strati bítumati, ma si è ritenuto non offrissero le necessarie garanzie tecniche e non fossero compatibili con i criteri di restauro enunciati all'inizio.
L'ultima operazione potrebbe consistere nel ripristino dello strato di terreno vegetale, il quale conferirebbe all'opera quello che presumibilmente doveva essere l'aspetto originario.
Un altro importante provvedimento atto a limitare l'umidità nella costruzione, è dato dall'evitarne l'infiltrazione dal terreno circostante, per imbibizione. Ciò è reso necessario dal fatto che all'esterno, non esistendo nessuna opera che riesca ad allontanare l'acqua dalle pareti, questa riesca ad infiltrarsi e a risalire poi per capillarità, danneggiando specialmente la parte inferiore della costruzione, provocando gli accennati effetti di sfaldamento ed esfoliazione dei tufi (3). Fine dell'intervento sarebbe quindi quello di abbassare più che è possibile il livello di risalita dell'umidità. Ciò è possibile realizzarlo in varie maniere, e si descriveranno qui quelle che si ritiene le più confacenti all'opera in esame.
Siccome per capillarità l'acqua non può risalire oltre una certa altezza rispetto al piano di campagna, altezza dovuta alla struttura microscopica della massa tufacea, per far diminuire questa altezza si può abbassare il piano di campagna mediante una apposita trincea esterna alla massa tufacea. Ciò assolverebbe anche allo scopo di favorire la ventilazione delle parti basse della Laura così da asportare l'umidità presente nella massa tufacea. Onde evitare poi che la quota di raggiungimento dell'umidità possa per una causa qualsiasi elevarsi, si dovrebbe creare una barriera alla risalita dell'acqua.
Attualmente ciò è possibile realizzarlo mediante prodotti a base di resine siliconiche, le quali immesse nei capiliari della massa tufacea evitano che in questi possa risalire l'acqua. La continuità di questa barriera alla risalita dell'umidità è garantita dal sistema di applicazione di queste resine siliconiche, che viene effettuato mediante applicazione di boccette contenenti il liquido, il quale, mediante fori aventi fra di foro una distanza opportuna, si spande nella massa tufacea. Questo sistema ha il pregio di non arrecare danni agli affreschi e di non essere visibile.
Le tecniche sin qui descritte dovrebbero consentire una notevole diminuzione dell'umidità per un lasso di tempo abbastanza lungo, apportando benefici effetti sia per la conservazione degli affreschi, sia sotto il punto dì vista statico. Proprio sotto questo punto di vista, si inserisce un altro importante provvedimento e cioè la individuazione e il consolidamento delle parti lesionate. Una sicurezza contro eventuali dissesti sarebbe data, specialmente per quanto riguarda gli avancorpi, dalla ripresa dei giunti. Occorrerebbe perciò innanzitutto estirpare le erbe e gli arbusti che in essi vi trovano alloggiamento raschiando nel contempo la vecchia malta ormai priva di forza legante. Dopo aver così scarnificato i giunti occorrerebbe innanzi tutto immettervi sostanze chimiche che impediscono la nascita di nuovi arbusti ed erbe. Effettuata questa operazione, si passerebbe alla chiusura dei giunti mediante malte che abbiano caratteristiche di forza legante e colori tali da garantire un buon risultato. La ripresa dei giunti dovrebbe essere effettuata tanto all'esterno quanto all'interno.
La estirpazione delle erbacce avrebbe il duplice scopo di evitare la creazione di nuove lesioni dovute alla penetrazione delle radici nella massa tufacea e fra i conci in pietra, e di conferire un aspetto più pulito e decoroso alla facciata. Perciò si dovrebbe abradere dalla facciata la patina di sporco che il tempo e l'uomo hanno creato sui conci in tufo e in pietra.
All'interno oltre alle opere già indicate di consolidamento statico, sarebbe necessario poter ripristinare la pavimentazione in cotto. Questa infatti era già presente, ma a seguito della vandalica opera dell'uomo attualmente è possibile ritrovarla solo nella zona absidale. Attualmente la pavimentazione, quasi dappertutto, è costituita da terra e detriti, per uno strato dì circa 20 centimetri sulla massa tufacea, Ciò comporta un non facile uso della cripta e un notevole inconveniente determinato dalla polvere che alzandosi al passaggio delle persone, si deposita su tutte le pareti e quindi anche sugli affreschi. Ecco perciò che il ripristino della pavimentazione in cotto conferirebbe un aspetto di pulizia e nel contempo favorirebbe l'uso continuato della Laura, preservandola dall'abbandono. In tale ambito va notato come sia necessaria la sostituzione degli attuali infissi, con altri che siano più confacenti al periodo ed alla collocazione geografica della Cripta di Santa Croce. Si è già parlato del motivo che induce a questa operazione, non resta che da dire che gli eventuali nuovi infissi, proprio per la difficoltà di attribuzione ad un determinato preciso periodo, dovrebbero presentare una più neutrale collocazione stilistica, e la loro unica funzione dovrebbe essere quella di fornire una adeguata protezione, cercando di realizzarli in materiali non discordanti con quelle che erano le tecnologie proprie dell'epoca in cui S. Croce fu costruita.
Ma quella che riteniamo assuma una importanza determinante fra le opere di restauro da effettuarsi su questo insediamento religioso rupestre, è la pulizia, la messa in evidenza e il restauro dei dipinti. Si procederà alla descrizione di tecniche restaurative che hanno una natura prevalentemente artigianale e che potrebbero sembrare antiquate. La loro scelta riteniamo, sia invece indispensabile, assieme alla professionalità del restauratore, per la realizzazione di un restauro adeguato al tipo di opera in esame.
In questo ambito è necessario innanzi tutto vedere che tecnica è stata usata per l'affresco, quali sono i danni che esso ha maggiormente subito e quali sono le tecniche più pertinenti da usare per il loro restauro.
Il metodo di pittura chiamato "a calce", usato in seguito nell'affrescature di catacombe e cripte, fu introdotto dell'antica Roma dagli Etruschi. Essa consisteva in un intonaco fatto di un solo strato, che all'atto del dipingere, riceveva come preparazione alcune passate di calce bianca, sopra alla quale venivano distesi i colori che asciugando rimanevano fissati.
La pittura "a calce", era di una fattura rapida e dimessa, eseguita da modesti pittori locali e con poche terre naturali, completata talvolta con colori più ricchi dati a colla, con qualche passata di cera disciolta in un olio essenziale e applicata a freddo.
La maniera di dipingere a calce veniva eseguita così: sopra ad un intonaco di rivestimento della parete, fatto generalmente di un solo strato di un impasto grossolano di calce e pozzolana o di calce e sabbia, si davano con un pennello, due o più passate di calce bianca, sopra alla quale, ancora umida, il pittore tracciava rapidamente con una punta metallica il disegno, distendendo poi i colori macinati e diluiti nell'acqua, che compenetrati nelle sostanze calcaree, asciugando rimanevano da questi fissati senza nulla perdere della loro bellezza e intensità.
Naturalmente il contatto dei colori con la calce, ne restrinse il numero di quelli adottabili alla terra rossa e gialla, al nero e all'usta che è un genere di rosso simile alla terra di Siena bruciata.
In seguito venne adottandosi l'uso promiscuo della calce e di colle e glutini, dando vita al genere di pittura denominato tempera forte, che adottato anche da Giotto e Cimabue giunse fin quasi al Rinascimento.
Le pitture murali vanno soggette a deterioramenti derivati spesso da vere e proprie malattie, la più grave delle quali e la loro stessa vecchiaia, cioè quel processo di disgregazione che, per legge naturale, subisce la materia, all'azione continua e inesorabile degli agenti atmosferici.
Per dare inizio al restauro bisogna individuare le cause che hanno prodotto il deterioramento della Cripta, tra queste la più terribile è l'umidità in qualsiasi modo penetri nella massa tufacea, che dannosa se continua, diventa pericolosissima se alternata a periodi di siccità.
Dall'umidità deriva principalmente il rigonfiarsi e il cadere dell'intonaco, lo sfaldarsi e l'arricciarsi della lamella superficiale del dipinto e il crearsi e il propagarsi di infezioni batteriche e salnitrose con il conseguente polverizzarsi dell'intonaco e del colore; e così all'umidità, sia del muro che ambientale, dobbiamo le muffe, le corrosioni e gli sbiadimenti e il formarsi dei veli bianchi e delle incrostazioni calcaree. Queste pitture subiscono, a loro volta variazioni secondo le sostanze usate per fissare i colori, che, pur buone in se stesse, male applicate e combinate fra loro, sono spesso causa di rovina.
A ciò bisogna aggiungere le malattie dei colori, derivate dalla loro origine e composizione; malattie che si manifestano con sbiadimenti, ingiallimenti e in qualche caso con alterazioni chimiche del colore.
Per procedere alla cura di una pittura murale è necessario prima esaminare le condizioni in relazione alla roccia e all'intonaco, poi studiare la tecnica e l'epoca in cui è stata eseguita, per i chiarimenti che questi elementi possono dare sui colori e sulle sostanze usate per fissarli (4).
Generalmente, comunque, la cura delle malattie del colore, nei casi di corrosione, si esegue con l'arrestare, per quanto è possibile l'azione delle sostanze alcaline, facendo gradatamente assorbire alle parti macchiate, se necessario all'intero dipinto, una soluzione alcolica di acido acetico e fenolo, sufficientemente allungata con acqua, data con un polverizzatore.
La sorte delle pitture murali a calce, è tutta affidata alla resistenza dell'intonaco che la sostiene.
Le pitture murali traggono principalmente la propria ragione di bellezza dall'armonica corrispondenza con il luogo dove sono state eseguite e dalla disposizione della luce ambientale di cui il pittore si è servito per consentire illuminazioni e ombre; non possono perciò essere sufficientemente apprezzate che nel luogo dove sono state ideate e dipinte, solo dove possano conservare per intero il loro valore artistico, storico, archeologico e documentario.
Resta comunque il fatto che per poter effettuare determinate operazioni di restauro, occorre portare il dipinto in laboratori adatti. 1 metodi più usati per il trasporto delle pitture murali sono due: il distacco del dipinto con l'intonaco e il distacco del solo colore (5).
È generalmente preferibile, specie per dipinti su pareti piane verticali con rilievi, usare la prima tecnica.
Questa consiste, come prima operazione, nel limitare l'umidità e nel pulire la superficie del dipinto da polvere, fumo e grasso che potrebbero limitare l'adesione della colla. Si fissano poi le parti di colore poco solide; quando la superficie del dipinto è così preparata e asciutta, si passa una mano di colla di pesce calda sul quale si pongono dei fogli di giornale incollati e fatti aderire bene con una spugna calda. Su questo strato non ancora asciutto vi si applica una tela che superi il dipinto di 20 cm. così da poterlo inchiodare ad un asse. Quando la tela è asciutta, si taglia il dipinto tutt'intorno e si inizia da sotto e dal perimetro il distacco dell'intonaco agevolandolo con piccole vibrazioni e colpi di mazzuolo, aiutando il distacco col taglio per mezzo di lamine metalliche. Prima che sia del tutto staccato, sul dipinto si poggia un piano di legno, si inchioda l'asse che regge la tela, e molto delicatamente, si pone orizzontalmente il piano in legno, piegandolo all'indietro. Si potrà così trasportare il dipinto nel laboratorio per il suo restauro.
Qui il dipinto viene fissato con la sua parte posteriore su di un
telaio di legno su cui si è posta una rete metallica e uno strato di malta. Dopo che la
malta è indurita, si mette il dipinto verticalmente e mediante panni inzuppati d'acqua,
cominciando dall'alto si tolgono la tela, i giornali e la colla di pesce. Ciò che rimane
da fare non è che il lavoro di restauro vero e proprio, cioè la stuccatura delle parti
mancanti e delle lesioni, da eseguirsi con calce e gesso. Le pezze bianche che ne
risulteranno, dopo asciugate, dovranno con una tinta neutra essere intonate al dipinto,
che mediante una leggera passata di cera sciolta nell'etere avrà ravvivati i colori.
Nel metodo che usa il distacco del solo colore, metodo detto a strappo, la tecnica è simile.
Questa tecnica è preferibile per pitture eseguite su volte e superfici curve di grandi dimensioni.
Anche in questa tecnica si applicano mediante colla di pesce, dei fogli di giornale e poi una tela, che in questo caso è molto sottile. Si taglia poi in perimetro il dipinto e non resta che attendere che asciugandosi la tela si arrotoli, e porti con sé lo strato di colore. Per consentire un buon distacco è preferibile farlo nella stagione calda e non avvalersi di nessun mezzo accelerante l'essiccamento.
Si fissa poi su un telaio di legno, una tela sulla quale mediante un impasto di colla si fissa la tela sottile con il colore. Quando il tutto è ben incollato mediante panni umidi si stacca il primo strato di tela, mettendo alla luce il dipinto che sarà quindi pronto per essere restaurato e reso brillante con la solita emulsione di cera in benzina.
Ha notevole importanza il fatto di fare queste operazioni con calma onde evitare pericolosi e probabili deterioramenti ai dipinti.
Fra i guasti più comuni che sono stati arrecati alle pitture murali della Cripta di Santa Croce possiamo annoverare i nomi, le date e le scritte di ogni genere fatte con tutti i mezzi ed ovunque, ed anche nei volti delle figure.
Per quanto riguarda le scritture eseguite con la matita, sarà sufficiente la mollica di pane o la gomma da cancellare; per quelle fatte a penna bisogna bagnarle con una soluzione di cloruro di calcio; per quelle graffiate si cercherà di stuccare le più gravi, le altre resteranno testimonianze dell'opera vandalica dell'uomo.
Dopo aver formulato queste ipotesi per il restauro, occorre determinare delle ipotesi per la CONSERVAZIONE.
A questa è strettamente connessa la sua futura utilizzazione. Essendo la zona in cui si trova Santa Croce a notevole sviluppo urbano, e ne sono riprova le case costruite sin nei pressi della cripta, è opportuno dotare la stessa di una zona verde di rispetto.
Infatti Santa Croce è sottoposta alle disposizioni della legge n. 1089 del 1-6-1939 per quanto riguarda i vincoli sui monumenti storici. Così non è invece per quanto riguarda la zona circostante. Questa negli anni sessanta in una bozza di piano regolatore della città di Andria, fu dichiarata zona di rispetto, ma in seguito, con la variante al piano di fabbricazione del 26-8-1976, questa zona di rispetto è stata abolita, inserendo l'area circostante nella sottozona B4. Questo atteggiamento completamente insensibile nei confronti di quelli che possono essere determinati interessi artistici, vengono mantenuti per quanto riguarda la più recente proposta di piano regolatore, nella quale la zona circostante S. Croce, è inserita fra le zone di completamento. Vi è da notare come anche da parte della Sovrintendenza ai Monumenti della provincia di Bari, in questi anni sia stata esaminata una proposta per la dotazione di una zona di rispetto attorno a S. Croce, ma anche questa iniziativa è lontana dal fornire gli effetti sperati.
La soluzione ottimale sarebbe quella di inserire l'oggetto architettonico analizzato in questo libro, in un parco il quale avrebbe il duplice scopo di preservare la laura da interventi speculativi e di servire da zona verde per i quartieri popolari che sono in via di formazione nella zona. Evidentemente una proposta di questo genere è allo stato attuale di difficile realizzazione, ragione per cui sembra più ragionevole l'ipotizzare per lo meno una zona di rispetto costituita dalla parte immediatamente circostante la cripta.
Una volta effettuati gli interventi conservativi, rimane aperto il problema della utilizzazione di questo patrimonio recuperato. Ciò è ovviamente di competenza dell'ente proprietario, ma da parte nostra si possono fare determinate proposte. Innanzi tutto si ritiene necessaria la non utilizzazione a scopi di culto, ciò perché si renderebbe necessaria la creazione di determinati servizi non confacenti con la struttura dell'opera. Si potrebbe invece utilizzare questa opera per fini eminentemente culturali, quali la sua eventuale trasformazione in oratorio favorendo la visita da parte di operatori artistici oppure inserendo Santa Croce negli itinerari turistici.
La conservazione, inoltre, dovrebbe essere garantita da una manutenzione e da una sorveglianza continua, onde impedire una volta per tutte il degradarsi dell'opera sia a causa di fattori naturali, sia a causa di interventi da parte dell'uomo.
Per poter realizzare queste ultime proposte, è assolutamente necessaria la conoscenza dell'esistenza da parte del maggior numero di persone possibile del patrimonio costituito da Santa Croce.
Occorre perciò formulare determinate ipotesi per la valorizzazione. Queste dovrebbero avere carattere di capillarità e si potrebbe cominciare coi tenere conversazioni illustrative nelle scuole e a livello cittadino così da creare un dibattito, riguardo la salvaguardia di quello che è uno dei patrimoni artistici più consistenti della nostra regione. In questa ottica si inserisce la pubblicazione di questo libro.
Arcch. Francesco Nicolamarino - Antonio Giorgio
[testo tratto da " Santa Croce In Andria, notizie storiche e ipotesi di restauro", di F.Nicolamarino - A.Lambo - A.Giorgio, Tip.Guglielmi - Andria, 1981, pagg. 107-118.]