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Storia della Città di Andria ...

di Riccardo D'Urso (1800 - 1845), Tipografia Varana, Napoli, 1842, pagg. 152-155

Libro SETTIMO

Capitolo X.

Re di Napoli Carlo II. di Spagna. Fabrizio V. Duca di Andria.
Vescovo di essa Pietro del Vecchio Veneziano, Monaco Cassinese.
Determinazione di costui per far togliere il Trono Ducale da questo Duomo.
A lui successe nel Vescovado Monsignore D. Antonio Triveri.
Sollevamento Popolare contro il peso delle Gabelle.

Anno 1690.

Consagrato in quest’anno Vescovo di Andria da Alessandro VIII. P. Pietro de Vecchis, nel giorno 6. Marzo ne venne a prendere il possesso. Appena pose piede nel Duomo, e vide il Trono del Duca, ne fremette, ed a stenti si compresse. La famiglia Ducale al contrario, credendo in quel giorno fargli una gala, scese in Chiesa, ed occupò quel suo Trono coll’assistenza de’ suoi Ministri [1], ignara delle interne convulsioni del Prelato.
Essendo passati intanto pochi giorni, Monsignore fece sentire con garbo, e moderazione al giovane Duca, ed alla Famiglia, che avessero tolte di Chiesa quel Trono; ad onta che lo tenessero da tempo antico, ed in virtù di qualche concessione; poichè un tal costume era contrario alla mente della Romana Chiesa; stante il Decreto emanato dalla Sagra Congregazione de’ Riti nel 1666. e gli altri due anche dalla medesima posteriormente pubblicati. Che si fossero benignati consultar questi ed avrebbero trovato espressamente inibito tale abuso nelle Chiese a qualunque persona laica di qualsivoglia condizione, stato, grado, ed anche ai Presidi delle Provincie. Ma alle replicate sue rispettose ed urbane imbasciate si rispondeva sempre con la indifferenza e non curanza. Quando alla fin fine vide il Vescovo non potervi venire a capo con le buone maniere, corse alle armi accordate dalla Chiesa (sebbene con molta imprudenza, potendo interdire la sola Cattedrale), ed interdisse tutte le Chiese della Città; riserbandone l’assoluzione al sommo Pontefice. Dopo ciò nel più fitto bujo della notte fece affigere il monito nelle pubbliche piazze e nelle porte de’ sagri Tempii; ed indi precipitosamente partì, prendendo la volta di Roma.
Essendo apparso il giorno, ed essendosi pubblicato questo locale, e generale Interdetto; cessarono per conseguenza tutti gli esercizii de’ Divini Ufficii in ogni Chiesa. A questa novità il popolo Andriese incominciò subito ad ammutinarsi, ed a tumultuare; e verso la sera si presentò con violenza dal Vicario Generale, cercando la libertà del culto. A stenti con bel modo potè questi persuaderlo non essere delle sue facoltà; ma tanto permise ai Sacerdoti potere vicendevolmente nella Chiesa di S. Maria Matris Gratiæ praticare senza suono di campane quelle poche funzioni, che in tali rincontri si accordano. Cresceva frattanto da giorno in giorno lira e la smania ne’ petti de’ Cittadini; principalmente nel vedersi i cadaveri non più condotti alle Chiese, ma seppelliti in un fossato nelle adiacenze del Carmine.
Ora stando gli animi cosi stizziti e pronti alla vendetta; un sinistro evento tolse loro la barriera, e ne prevenne lo scoppio. Nella notte de’ 25. Febbraio s’intese una tremenda scossa di terremoto: a questa verso i primi chiarori del giorno si aggiunse un vento impetuoso con insoliti tuoni. Parve per gli Andriesi essere questo il segnale, per rompere ogni freno. Si videro da tutt’i punti della città correre frementi i figli della Cristiana Religione, ed insieme agglomerati si dirigono alla Chiesa Cattedrale. Non appena giungono alle sue porte, che ai primi colpi furenti queste si sfaldano s’infrangono ed essi si precipitano in faccia al trono Ducale. Il vederlo intatto e poi ridotto in brani, in minuzzoli fu un atto solo. Indi raccolti tutt’i pezzi furono portati nel largo della Corte; e stando il popolo trincierato, vi si attaccò fuoco; e consumossi questa vittima alla vendetta. Sulle ceneri del consunto Gigante si elevò poi un grido da spavento «Che si aprissero tutte le Chiese: che si celebrassero pubblicamente i Divini Ufficii».
Il Vicario, gli Ecclesiastici in questo stato di violenze indarno imponevano silenzio, col dire, doversi attendere la soluzione Pontificia. Ma il volgo effreno, negativo ad ogni ragione, e solo capace di eccessi, non ammetteva alcun ritardo. Alla fine cedette a patto di doversi condurre un numero di Andriesi dal Metropolitano, a prenderne il permesso. L’Arcivescovo di Trani per altro aveva da molto tempo preveduto tale scompiglio. Quindi veggendo un numero di riscaldati Andriesi si mostrò pronto ad accordar loro la libertà del culto per evitare un tumulto maggiore; ed in pari tempo impose loro rapportare l’avvenimento a sua Santità, ed al Vescovo del Vecchio. Tolse l’interdetto da queste Chiese; ma cum reincidentia, se non avessero praticato tutto quello, cui si erano obbligati. Così qui il divin culto prese il pristino suo corso; ne venne dopo la sanatoria, e dileguossi tutto il torbido. Dalla famiglia Ducale poi, come dal giovane Duca si mostrò tutta la rassegnazione alle leggi della Chiesa; protestandosi, che non intendevano far guerra né alla Casa di Dio, e né al suo Sacerdozio. Ma ad onta di ciò Monsignore [2] non volle far più ritorno in questa Sede; ed ottenne in grazia dal nuovo Pontefice Innocenzo XII. Pignatelli, figlio di Porzia Carafa, essere trasferito nella Chiesa di Molfetta.
Dal medesimo supremo Gerarca fu provveduto questo Vescovado di un altro degno Prelato, Fra Francesco Antonio Triveri di Bugella Conventuale, nell’Ottobre del 1692. il quale era stato Generale di quell’Ordine. Ne intraprese il governo spirituale con molto impegno, e zelo pastorale. Ma nell’anno 1696. mentre credevansi qui cessate le turbolenze, se ne vide in campo un’altra più trista.
Il popolo Andriese lusingato dal testé cennato sollevamento, pose mano al secondo. In uno de’ giorni dell’Aprile dell’anno indicato stante la famiglia Ducale a villeggiare nel soggiorno di Montecarafa; e mancando anco qui il suo Vicario, o sia l’agente generale, una ciurma di riscaldati Cittadini, mal soffrendo le tasse e le gabelle, ammutinossi, e cercò scuotere ogni giogo. Alla testa de’ faziosi marciava un robusto boscaiuolo con l’agnome — Abbutto. Questi prendendo nelle mani le chiavi della città, e dichiarando la indipendenza, si diresse ai pubblici mulini. Quivi salutati coi bastoni i Mugnaii, furono infrante le pubbliche misure, e statere. Ma mentre la ribellione andava a gradi crescendo, ne corse a tempo l’avviso al Duca; e si vide questi nel giorno appresso comparire preceduto dallo squadrone de’ suoi armigeri. Al primo suo ingresso in Città se gli fa davanti il capo della ribellione o sia Abbutto, con numerosissimo seguito, e con rispetto gli dice, che il popolo Andriese era ormai stanco di più soffrire tanti pesi; che ci fosse perciò una diminuzione sulle gabelle della farina, e su tutt’altro. Il Duca Fabrizio gli rispose con finta calma, che se ne sarebbe interessato, e che a quest’oggetto avrebbe convocato un pubblico Parlamento; e così dileguossi tutta quella gente ammutinata.
Or nel mattino seguente, mentre attendevasi qualche favorevole disposizione, odesi che nelle tenebre di quella notte era stato catturato l’Abbutto, un certo «un certo» ed il magnifico Dottor Fisico Carlo Malex, e molti altri occulti fautori della congiura; ed erano stati rinchiusi nel carcere criminale. Il loro processo fu subito compilato, ed uscì la sentenza di morte. Passati i tre giorni della legge, se ne venne alla esecuzione. Furono piantate le travi del patibolo fuori le mura del Castello; ed il Patrizio Camerlingo Domenico Antonio Zagariga ebbe l’ordine di condurre i rei alla pena, essendosi già squadrati gli armigeri. Ma mentre il Camerlingo stava aprendo il carcere, odesi la terra orribilmente muggire con scossa oltremodo violenta. Questa bastò, onde la Duchessa madre D. Margherita de Sangro, uscendo dalla ringhiera del suo palazzo, alto gridò, che si fosse desistito dalla esecuzione; poichè se ne opponeva con aperto indizio il Cielo. E così rimase non eseguita quella scena di lutto.
Ma in questo istesso anno surse un’altra briga tra Monsignore Triveri e ‘l Duca Fabrizio. Incominciò il Prelato a fortemente querelarsi su alcuni punti usurpati di sua giurisdizione: e non avendo a chi rivolgersi, cercò stancare coi suoi lamenti il Pontefice Innocenzo, il quale prevedendo le triste conseguenze, lo trasferì da questa Sede a quella di Melfi; e così quietò il nostro Duca suo pronipote, ed il nostro Vescovo.
NOTE    (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva dell'intero argomento)
[1] Uso questa espressione Ministri, perchè cosi trovo nelle antiche carte, e per dare una idea di que’ tempi.
[2] Questo nostro Prelato portava un nome distinto tra i primi Sacri Oratori d’Italia. Aveva date molte sue produzioni alle stampe, e tra queste avvi quella intitolata — Il tempio della Fama.