Canzone del Duecento attribuita a Federico II (2)
De le mia disïanza
c’ò penata ad avire,
mi fa sbaldire poi ch’io n’ò ragione,
che m’à data fermanza
com’io possa compire
[lu meu placire] senza ogne cagione,
a la stagione ch’io l’averò ‘n possanza.
Senza fallanza voglian le persone,
per cui cagione faccio mo’ membranza.
A tut[t]or rimembrando
de lo dolze diletto
ched io aspetto, sonne alegro e gaudente.
Vaio tanto tardando,
che ’n paura mi metto
ed ò sospetto de la mala gente,
che per neiente vanno disturbando
e rampognando chi ama lealmente;
ond’io sovente vado sospirando.
Sospiro e sto ’n rancura,
ch'io son sì disïoso
e pauroso mi fece penare.
Ma tanto m'asicura
lo suo viso amoroso,
e lo gioioso riso e lo sguardare
e lo parlare di quella criatura,
che per paura mi fece penare
e dimorare, tant'è fine e pura.
Tanto è sagia e cortese,
no creco che pensasse,
né distornasse di ciò che mi impromise.
Da la ria gente aprese
da lor non si stornasse,
che mi tornasse a danno ch’i’ gli ofiso,
e ben mi à miso in foco [ . . . -ise]
[ . . . -ise] ciò m’è aviso,
che lo bel viso lo cor m’adivise.
Diviso m'à lo core
e lo corpo à 'n balia;
tienmi e mi lîa forte incatenato.
La fiore d'ogne fiore
prego per cortesia,
che più non sia lo suo detto fallato,
né disturbato per inizadore,
né suo valore non sia menovato
né rabassato per altro amadore.
NOTA
[trascrizione dell’originale latino] | [traduzione] |
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Sed hec fama trinacrie terre, si recte signum ad quod tendit inspiciamus, videtur tantum in obproprium ytalorum principum remansisse, qui non heroico more sed plebeio secuntur superbiam.
Siquidem illustres heroes, Fredericus cesar et benegenitus eius Manfredus,
nobilitatem ac rectitudinem sue forme pandentes, donec fortuna permisit humana secuti sunt, brutalia dedignantes. [testo latino tratto da: Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia, a cura di Aristide Marigo. Firenze, 1948. Ed. Felice Le Monnier, libro I, cap. XII] |
Ma questa fama [poetica] della Trinacria (Sicilia), se indaghiamo correttamente a cosa mira, ci accorgiamo che è rimasta soltanto a vergogna dei principi italiani che perseguirono l’arroganza, non comportandosi da persone eminenti ma come bassa plebe.
Qual eminenze illustri, l’imperatore Federico e il suo insigne figlio Manfredi
manifestarono invece la nobiltà e la rettitudine del loro animo e, finché la fortuna arrise loro,
perseguirono le inclinazioni proprie dell’uomo, disdegnando le irrazionali bassezze. |
Il signum o monogramma di Federico apposto nella subscriptio e composto da diverse lettere scritte su un grande segno grafico a forma di N, probabilmente indicano una sintesi-abbreviazione delle parole redatte ai suoi lati per esteso.