Misura, providentia e meritanza
fa l'uomo esser sagio e conoscente;
e ogni nobiltà com si n'avanza
e ciascuna richeza fa prudente.
Né di richeze aver grande abundanza
faria l'uomo chè vile esser valente,
ma de perordinata costumanza
discende gentileza fra la gente.
Homo ch'è posto in alto signoragio
e in richeze abunda, tosto scende,
credendo fermo stare in signoria.
Unde non salti troppo, homo chè sagio,
per grande alteze che ventura prende,
ma tutora mantegna cortesia.
[1]
Stefano Rapisarda, nel suo lavoro critico sotto citato, riporta il sonetto,
trascritto su testo base "Urb. lat. 697 della Biblioteca Apostolica Vaticana",
e nella
Discussione testuale e attributiva tra le varie note di analisi scrive:
Misura, providenza e meritanza … è con Dolze meo drudo … tra i componimenti «che con maggior probabilità si possono attribuire» [a Federico].
Secondo Monteverdi 1951, … il sonetto fu scambiato in tenzone con Re Enzo, Tempo vene … .
Lo testimonierebbe, oltre che il tema («l’uno parte dal fatto della mutabilità di fortuna per trarne consiglio di saggezza, …
l’altro comincia col definire la saggezza per giungere poi a considerarla come un’arma contro i colpi della fortuna»),
anche il richiamo intertestuale delle rime in -ende e in -ente, quali discende 1 Re Enzo : scende 10 Fed II,
imprende e riprende 3 e 5 Re Enzo : prende 13 Fed II, e soprattutto dei rimanti gente e conoscente/canoscente;
in particolare l’emistichio finale del v. 9 di Re Enzo è uguale a quello finale del v. 2 di Federico II: «saggio e conoscente».
Tali indizi d’intertestualità contribuiscono, secondo Monteverdi, a dirimere la questione attributiva; se di tenzone si tratta,
l’attribuzione a Federico viene corroborata: «Padre e figlio, negli ozi della corte, si sarebbero divertiti a mettere in versi
l’eterno motivo dell’uomo di fronte alla fortuna, moraleggiando anch’essi, per una volta, come facevano […] altri poeti della loro corte,
Giacomo da Lentini o Rinaldo d’Aquino» (Monteverdi 1951, 16).
È sempre difficile avanzare congetture circa la cronologia interna del corpus siciliano, ma, se è vera l’ipotesi della tenzone con Re Enzo,
il sonetto andrebbe collocato in una fase molto tarda della produzione di Federico.
[tratto da Stefano Rapisarda, “Federico II”, in “I Poeti della Scuola Siciliana”,
Vol. II “Poeti della corte di Federico II”, A. Mondadori editore, 2008, pp. 487 e sgg.]
Per una immediato confronto si trascrive il citato sonetto Tempo vene che sale chi discende attribuito a Re Enzo, figlio di Federico II e re di Torres e di Gallura, in Sardegna.
Tempo vene che sale chi discende,
e tempo da parlare e da tacere,
e tempo d’ascoltare a chi imprende,
e tempo da minacce non temere;
e tempo d’ubbidir chi ti riprende,
tempo di molte cose provedere,
tempo di vengïare chi t’offende,
tempo d’infignere di non vedere
Però lo tegno saggio e canoscente
colui che fa sui fatti con ragione
e che col tempo si sa comportare,
e mettesi in piacere de la gente,
che non si trovi nessuna cagione
che lo su’ fatto possa biasimare.
Nel sotto citato testo Corrado Calenda riporta il sonetto e annota:
Della produzione poetica di Enzo, “cantionum inventor”, tra l’altro, nel ritratto che ce ne offre fra Salimbene da Parma,
restano due canzoni, S’eo trovasse Pietanza e Amor mi fa sovente;
un sonetto, Tempo vene che sale chi discende; e un frammento, probabilmente di canzone, Alegru cori, plenu. …
Il sonetto Tempo vene che sale chi discende, di trasmissione estesa ma tarda e ovunque molto scorretta, va ascritto senz'altro a Enzo … .
Si tratta del più celebre componimento siciliano di argomento non erotico, incentrato sul tema della fortuna
a partire da un noto suggerimento biblico (Ecclesiaste III) di cui l’autore mantiene “suggestivamente l'andamento stilistico di litania,
con l’allineamento anaforico di tutti i versi della fronte sulla parola tematica, il tempo dominatore di ogni vicenda umana” (Folena, 1965).
Se ne veda a riprova la prima quartina: “Tempo vene che sale chi discende, / e tempo da parlare e da taciere,
/ e tempo d'ascoltare a chi imprende, / e tempo da minaccie non temere”.
[ Corrado Calenda, “Re Enzo”, in “I Poeti della Scuola Siciliana”,
Vol. II “Poeti della corte di Federico II”, A. Mondadori editore, 2008, pp. 747 e sgg.]