Contenuto
Poi ch’a voi piace, amore
(1)
Canzone del Duecento attribuita a Federico II
(2)
Poi ch’a voi piace, Amore,
ch’ïo deggia trovare,
farònne ’ mia possanza
ch’io vegna a compimento.
Dat’ aggio lo meo core
in voi, madonna, amare,
e tuta mia speranza
in vostro piacimento,
e non mi partiraggio
da voi, donna valente,
ch’io v’amo dolzemente,
e piace a voi ch’io aggia intendimento.
Valimento mi date, donna fina,
ché lo meo core adesso a voi s‘nchina.
S’io inchino, ragion aggio
di sì amoroso bene,
c’io spero, in voi sperando,
ch’ancora credo avere
allegro il mio coraggio;
e tuta la mia spene,
ch’ò data in voi amando
ed in vostro piacere,
che veggio li sembianti
di voi, chiarita spera,
ca spero gioia intera
ed ò fidanza ne lo meo servire
e di piacire a voi, che siete fiore
sor l’altre donn’ e avete più valore.
Valor sor l’altre avete
e tuta canoscenza,
ca null’omo por[r]ia
vostro pregio contare,
che tanto bella siete!
Secondo mia credenza
nonn è donna che sia
alta, sì bella, pare,
né c’aggia insegnamento
inver’ voi, donna sovrana.
La vostra cera umana
mi dà conforto e facemi allegrare:
e,
s’eo pregiare vi posso, donna mia,
più conto mi ne tegno tutavia.
A tut[t]or vegio e sento,
ed ònne gra[n] ragione,
ch’Amore mi consente
voi, gentil crïatura.
Già mai nonn’ò abento,
vostra bella fazone
cotant’ à valimente.
Per vo’ son fresco ognura;
a lo sole riguardo
lo vostro bello viso,
che m’à d’amore priso,
e tegnolmi in gran bonaventura.
Preio à tutura chi al buon segnore crede:
però son dato a la vostra merzede.
Merzè, pietosa, aggiate
di meve, gentil cosa,
ché tuto il mio disio
[. . . . . . . . . -ente];
e certo ben sacciate,
alente più che rosa,
che ciò ch’io più colio
è voi veder sovente,
la vostra dolze vista,
a cui sono ublicato,
core e corp’ ò donato.
Alora ch’io vi vidi primamente,
mantenente fui in vostro podere,
che altra donna mai non voglio avere.
[forse scritta per Bianca Lancia d'Agliano]
Federico (Ruggero) II di (Hohenstaufen) Svevia
NOTE
[1]
“
Poi ch’a voi piace, amore” è una
canzone
composta da cinque stanze (
coblas, nel provenzale della poesia
trobadorica medievale), ciascuna con propria rima (
coblas singulars), di quattordici versi;
nel primo verso delle
coblas (dalla II alla V) appare una parola dell'ultimo verso della precedente (
coblas capfinidas);
infine il penultimo (13°) endecasillabo di ogni stanza presenta una rima interna col verso precedente.
Ecco la struttura metrica dei versi e delle rime, rilevata nella prima delle cinque stanze o
coblas:
[2]
Nei manoscritti originali l'autore è di dubbia e discussa attribuzione,
pur se in alcuni e annotato “
Rex Fredericus” o “
Lomperadore federigho”
o “
Federigo Imperadore” o “
Canzona dello Imp(er)adore Federigo” e simili;
in alcuni manoscritti mancano le ultime due stanze;
in tuuti non c'è, ovviamente, il monogramma di Federico II, perché non è un suo atto-documento ufficiale; il monogramma è qui posto per renderlo noto e come immagine ornamentale.