Andria va orgogliosa di tre aggettivi, che le
derivano dalla fertilità dei suoi campi, dall’indole dei suoi cittadini, da un
episodio storico del tempo delle Crociate.
Andria è stata sempre ferax felix fidelis e
queste sue qualità le sono state riconosciute in versi latini da Federico
Hohenstaufen, che onorò la città pugliese del suo affetto e della sua alta
protezione.
Durante la spedizione di Federico a Gerusalemme,
parecchie città pugliesi si ribellarono all’Imperatore e parteggiarono per il
Papa.
Andria restò fedele e tornato Federico – nel 1229 –
da Terra Santa, organizzò per il suo imperatore tali feste che i cronisti ne
fecero le meraviglie.
Tra le altre manifestazioni di giubilo e di omaggio,
ne organizzò una che fu particolarmente cara al cavalleresco imperatore.
Cinque giovanetti, riccamente vestiti, si
presentarono come ostaggio di fedeltà e giunti alla sua presenza gli recitarono
cinque esametri latini, nei quali affermavano che i cittadini devoti e grati al
duce supremo volevano essere per sempre con lui.
Rex felix Federici, vieni, Dux noster amatus ;
Est tuus adventus nobis super omnia gratus :
Obses quinque tene nostri pignanimi amoris
Esse tecum volumus omnibus diebus et horis.
Così dissero i cinque «pegni di amore» e Federico, che era valoroso condottiero e gentile poeta, in versi, rispose al messaggio.
Andria fidelis nostris affixa medullis,
Absit quod Federicus sit tui muneris iners
Andria vale felix, omnisque gravaminis expres.
Ma se è questa l’origine della tradizione della
fedeltà di Andria, qual è l’origine della città?
Negli scavi si è trovata qualche vestiglia di
antichissima civiltà che assegnerebbe ad Andria un’antichissima origine.
Sepolcri antichi, vasi preistorici, avanzi di simulacri di deità pagane,
farebbero ritenere per sicura l’affermazione che Andria fu città diomedea e che
prima che Diomede ne avesse segnate le fondamenta, visse nel suo suolo un popolo
di avanzata civiltà.
Il suo nome in greco significa forza,, ma la storia,
tranne il significato letterale del nome, tranne qualche vaso e sepolcro antico,
null’altro raccoglie delle antichità andriesi, così che si può affermare che la
città cominciò ad essere nota nel secolo IX mentre era diocesi e territorio
tranese ed era indicata come locum Andre a significare la sua scarsa
importanza.
Dalla tradizione e dalla toponomastica altre
indicazioni si hanno della antichità di Andria; ma non tali da imporre allo
storico date precise ed episodi documentati.
La tradizione vuole, ad esempio, che S. Pietro sia
stato ad Andria a predicare e diffondere la nuova religione. Una porta della
città che si chiama ancora santa è indicata come quella attraverso la quale
passò il santo miracoloso.
Ma chi può accertare che veramente S. Pietro fu ad
Andria e che in quell’epoca la città pugliese, era centro di diffusione della
nuova religione di Cristo?
L’istesso Vito Sgarra, che raccoglie le tradizioni
della sua terra e ad esse dà quasi valore storico, non giura sulla verità
storica di esse.
Fermiamoci quindi a parlare delle cose andriesi che
hanno conferma storica aspettando che gli auspicati studi comparati sul suo
dialetto e l’indagine più profonda sui suoi ruderi possa dare maggior luce di
verità sulle origini andriesi.
Il certo è che nel 1064 il normanno Pietro, duca di
Trani, la elevò a città e le assegnò il primo console e il primo vescovo e,
quello che più importa, tracciò la linea delle sue mura e la fortificò.
Per tutto il medioevo ed i tempi di poi la città fu
chiusa in mura fortificate per la circonferenza di un miglio. Ebbe dodici torri
ed un bastione trapezoidale e fin dal primo secolo della sua nuova vita ebbe
belle chiese, terra fertile e cittadini operosi.
Con gli Svevi acquistò ancora maggiore importanza e
già abbiamo visto quanto Federico l’avesse cara. Nella cattedrale, lo Svevo
seppellì le sue due mogli Iolanda dei Lusignani ed Isabella d’Inghilterra.
Le tombe dovevano essere veramente regali, ma l’ira
di parte impedì che esse fossero conservate.
Alla dominazione sveva, dopo la sconfitta di Re
Manfredi a Benevento, seguì quella angioina sotto la quale Andria restò fino a
chè, portata in dote da Beatrice figliola di Carlo III, non passò a Bertrando
del Balzo che fu, di Beatrice, secondo marito.
Un castello che fu già degli Svevi e degli Angiolini,
fu demolito dalla potente Casa Del Balzo che volle innalzare sull’istesso posto
il palazzo della propria signoria. Demolito dai Carafa, venne sostituito da
altro più vasto e sontuoso, grande « in isola di pietre proprie del paese, con
ampie sale e tre comodi quarti in piano, un giardino di dove un corridoio
coperto porta nel vescovado » come racconta Gianbattista Pacichelli nel 1686.
Né soltanto il palazzo «grande quanto un’isola» i
Carafa costruirono in Andria.
Sotto questa illustre famiglia feudale, la città ebbe
veramente lustro e decoro ed i cittadini ebbero iniziative e svilupparono i
traffici ed i commerci.
Ma la rivoluzione del 1799 è forse l’avvenimento più
ricco di episodi e purtroppo di strage di cittadini e saccheggi di case. Andria
non accolse lietamente la notizia dell’arrivo delle truppe francesi tra le quali
pur eravi Ettore Carafa con un esercito assoldato a sue spese.
Il Carafa, duca di Andria e conte di Ruvo, figliuolo
di quella Margherita Pignatelli che si distinse per la sua fedeltà alla Chiesa e
alla religione, discendente di una famiglia che dette quattordici cardinali e un
papa, ruppe, capitanando le schiere rivoluzionarie, la tradizione famigliare.
Finì decapitato a Napoli, ma anche nello estremo
momento guardò fieramente in viso la morte. Si disse allora che anche la
leggenda del nome impallidiva.
Un crociato, colpito a morte, ricorda il romanziere
andriese Mastropasqua, prima di morire scrisse il proprio motto col sangue sullo
scudo. «Cara Fè» scrisse il crociato e da quell’episodio fu creato il nome della
illustre famiglia.
Ettore Carafa non ebbe cara la fede e perciò –
dissero i conservatori – finì decapitato.
Le truppe repubblicane, accolte dall’ira del popolo
fanatico, dovettero assaltare e conquistare la città.
Seicentocinquantotto cittadini perirono nella zuffa
orrenda e molte devastazioni furono compiute.
Dal 1820 in poi Andria ebbe invece tutti i palpiti e
le rivolte per la libertà. Numerosi cittadini furono processati e condannati.
Numerose società segrete come quella degli Spettri e Tomba centrale, mantennero
vivo il sentimento patrio e la gioventù, specialmente, accolse le nuove idee con
entusiasmo, pronta a tutti i sacrifizi. La storia contemporanea di Andria si
svolse intorno allo sviluppo della sua agricoltura e dei suoi commerci.
Il latifondo dei signori si spezzetta sempre di più
nelle piccole proprietà dei cittadini. Le terre incolte si trasformano in
giardini e vigneti ed oliveti e tutto un nuovo impulso vine dato alla operosità
dei cittadini.
Giacinto Borsella nel suo lavoro Andria Sacra
edito per cura e merito del Dott. Raffaele Sgarra, il benemerito storico di
Andria, conta e descrive ben 24 chiese nella sua città.
Certo per ognuna di esse si può scrivere un cenno e
trovar qualche cosa da lodare ; ma sarà più opportuno alla indole della presente
grafica monografia soffermarsi alle chiese principali : a quelle che per ragioni
storiche od artistiche fermano l’attenzione di chi visita o ricorda la città
fedele.
La Cattedrale ha un bel campanile gotico che
sovraneggia su tutta la chiesa e che porta in cima una specie di cappelletto
traforato da un occhio sul quale sbandiera al vento un gallo di rame che ricorda
– narra la leggenda – la visita e la predicazione di S. Pietro ad Andria di
ritorno da Antiochia.
Nella cripta della chiesa, Raffaele Sgarra nel 1904,
in occasione del viaggio a Castel del Monte dell’Imperatore di Germania, scoprì
i loculi delle imperatrici Iolanda ed Elisabetta, mogli di Federico, ed i resti
dei due mausolei.
La chiesa fu molte volte restaurata ed ampliata e
l’istesso campanile è fattura di due epoche, poiché mentre il basametro è del XI
secolo, gli altri piani sono costruzione del secolo successivo.
L’arco del presbitero a sesto acuto di ben 72 palmi
di corda, ardita costruzione di un Alessandro Guadagno andriese è tale, afferma
il Borsella, da far stupire ogni ingegno sottile e con gli estranei il volgo ed
i Re.
A sinistra del presbitero vi è la cappella nella
quale, secondo la tradizione, i tredici della Disfida di Barletta, prima di
incontrarsi con i tredici di Francia, giurarono solennemente sul Vangelo di
vincere o morire, si cofessarono e ricevettero la comunione.
Nella stessa chiesa, in una serie di bassorilievi del
secolo XV, sono narrati gli episodi più importanti della vita di S. Riccardo.
Il ritorno di Federico II da Gerusalemme fu festeggiato anche con la fondazione, nel 1230, della chiesa di S. Francesco. Si volle lasciare anzi ricordo certo dell’anno di fondazione ed una lapide apposta sulla cornice della porta del chiostro che immetteva nella chiesa ricorda anche in caratteri gotici l’avvenimento:
HOC OPUS FACTUM EST IN ANNO DOMINI MCCXXX.
Ma nel 1230 la bella chiesa fu solo iniziata: dopo un
secolo e precisamente nel 1346, una seconda epigrafe incisa sulla stessa porta
ricorda l’opera di completamento di un maestro barlettano : Bonanno.
Molti affreschi riproducenti scene della vita di S.
Francesco decorarono specialmente l’annesso chiostro, ma di essi nulla resta. Il
barocco del sec. XVIII fece imbiancare le belle pitture : il fumo di
improvvisati focolari fece il resto e dove eran preghiere e salmi di glorie vi
furono spesso baldorie di soldati o maledizioni di carcerati.
Il chiostro infatti fu adibito a caserma ed a
carcere.
Dalla barbarica distruzione qualcosa si è salvato ed
il Museo provinciale di Bari può ancora vantare alcuni dipinti di Antonio da
Merano ed un trittico di Bartolomeo Vivarini.
Altre chiese da ricordare sono quelle di S. Domenico, di S. Croce del Salvatore, e di S. Maria dei Miracoli. In nessuna di esse si conserva neppur la pallida idea della antica magnificenza della quale eran orgogliosi i fedeli ed il clero di Andria.
Come popolazione, Andria, così come si desume dall’Almanacco
di Puglia, è la quarta città della regione pugliese contando una popolazione
di 68819 abitanti. E dobbiamo anzi aggiungere che occupava fino a circa quindici
anni fa il terzo (dopo Bari e Foggia) sorpassata solo in ultimo da Taranto.
Il notevole aumento della popolazione andriese è
stato studiato da Giuseppe Ceci il quale, senza tener conto delle notizie
incerte del periodo delle origini e dei primi secoli, comincia la sua statistica
dal 1532.
Lo studio del Ceci è così accurato ed interessante
che merita di essere riportato almeno in parte.
«Per Andria, afferma il Ceci, la prima numerazione
che conosco è del 1532 nel qual anno il numero dei fuochi, cioè delle famiglie,
ascese a 1154 e quello degli abitanti a 6924 computando sei individui per ogni
famiglia. Non sembrerà esagerata questa media quando si tenga conto
dell’interesse che avevano le università ad occultare una parte dei fuochi per
essere meno gravate nella ripartizione delle imposte.
Nel 1545 le cifre non variano, ma nel 1559 già si
sale a 10584 e nel 1561 a 13146 abitanti, che diventano 17352 nel 1595.
La popolazione si mantenne costante in quello scorcio
di secolo e fino alla metà del seguente, trovandosi segnata la stessa cifra
nella numerazione del 1648. Otto anni dopo nel flagello della peste, Andria
perde più della metà degli abitanti, che si trovano ridotti a 8526 nella
numerazione del 1665.
Per quasi un secolo mi mancano le notizie.
Trovo che nel 1761 la popolazione di Andria era
calcolata a circa 8000 abitanti, a 11000 nel 1751, a 13000 nel 1773. Una
statistica più precisa seguita dal 1763 al 1796 si trova nell’archivio della
Curia Arcivescovile e mi fu comunicata dal compianto Mons. Emanuele Merra.
Vi rilevo che gli andriesi da 10035 che erano nel
1763 andarono gradatamente aumentando, fino a raggiungere i 12291 nel 1775. Nei
due anni seguenti si ebbe una notevole diminuzione scendendo a 11278, ma dal
1778 ricominciò l’aumento graduale e costante in modo che nel 1786 gli abitanti
erano 13327. L’anno seguente si ebbe una repentina diminuzione (e non saprei
indicarne le cause) di più di 1000 abitanti, ma furono gradatamente sostituiti e
ricominciò l’ascesa : nel 1797 raggiunsero il numero di 16097.
Come l’anno seguente si riducessero a 11914 con la
diminuzione di più di 2000 anime non so spiegarmi e la diminuzione dovette
ancora accentuarsi nel 1799 quando nel 23 marzo, per la presa e la
distruzione della città, morirono 685 persone.
Ma col nuovo secolo cominciò l’ascesa, diventando
sempre più rapida di anno in anno e non ebbe più soste. La popolazione di
Andria, che fu accertata nella cifra di 12928 abitanti al 1803, salì a 16200 nel
1815, a 18878 nel 1830, a 21461 nel 1840, a 24331 nel 1851, a 27114 nel 1857, a
29451 nel 1869, a 37471 nel 1881 per raggiungere i 50434 nel 1911».
Si è dunque, conclude il Ceci nel suo interessantissimo studio, durante il secolo quintuplicata.
Il quadro della popolazione di Andria dice il
progresso della città e il benessere sempre crescente dei cittadini. La storia
ricorda pure però grandi sciagure.
Terremoti come quelli del 1627 e del 1698, guerre
come quella del 1799 nella quale il valore degli andriesi rifulse
meravigliosamente; ma non poté impedire, come già dicemmo, che la città fosse
messa a ferro e fuoco.
Alla causa italiana Andria dette numerosi martiri e
come da essa, nei primi secoli della religione cristiana, passò per tutta la
Puglia il soffio della nuova era, così da essa, negli anni del risorgimento, si
ebbero fulgidi esempi di amor patrio.
La cripta del Duomo servì negli antichi tempi alla
propaganda cristiana e forse non è del tutto errata la tradizione, secondo la
quale, in essa officiò S. Pietro.
Una cappella del Duomo raccolse i tredici italiani
della Disfida, e li vide giurare sulla vita per la vittoria del nome italico; la
stessa chiesa raccolse certamente le preghiere perché i fati della patria si
compissero e la libertà conquistata a prezzo di sangue salutasse le belle terre
d’Italia.
È di Andria quel Don Nicola De Giorgi che, implicato
nella Setta degli Spettri o Tomba centrale (liberali insurrezionisti) condannato
alla morte col laccio sulla forca, fermo ed ardito disse ai carnefici : - Voi
siete degli infami.
La sua fedina penale, in una copia del 16 luglio
1877, riportando la condanna ne cita anche la imputazione: «Imputato di riunioni
settarie commesse nel 1725 nei comuni di Andria, Trani e Barletta nelle quali
esso fece da dignitario».
Centonove sono stati i perseguitati e condannati
politici andriesi per i morti del 48, 56, 59 e 60.
Contro di essi furono imbastiti sei processati
raccolti diligentemente dagli studiosi di carte giudiziarie e le cui
intestazioni sono le seguenti, così come le ha desunte lo Sgarra dell’Archivio
di Trani.
1º. Associazione illecita con vincolo di segreto
costituendo la denominazione Giovane Italia, e di liberali progressisti, il di
cui scopo mirava a cambiare la forma del Real Governo e di eccitare gli abitanti
del Regno ad armarsi contro l’autorità.
2º. Concessione sciente delle proprie case e locali
ai settari.
3º. Vie di fatto e minacce, per impedire lo esercizio
dei propri diritti garantiti dalle leggi e violenze usate contro pubblici
ufficiali ed incaricati di pubbliche amministrazioni, facendo loro cessare degli
atti dipendenti dei rispettivi uffici.
4º. Discorsi e fatti pubblici diretti a persone per
eccitare il malcontento contro il Real Governo. Infrangimento usato per
disprezzo delle statue del Re e della Regina situate in luoghi pubblici. Ingiure
proferite contro la sacra persona del Re.
5º. Minacce verbali con ordine di arruolarsi alla
setta della Giovine Italia.
6º. Altro processo di minacce verbali di arruolarsi
alla setta della Giovine Italia e dei liberali.
Ma la figura più fulgida e più romantica del
patriottismo andriese è quella di Federico Priorelli, complice nello scoppio del
Volturno nel porto di Napoli, capitano della terza compagnia nella
spedizione di Sapri, evaso dall’ergastolo nel 1860, garibaldino, ribelle sempre,
fino a quando l’Italia ebbe la sua libertà di nazione e di popolo.
Con compagnie raccolte nella Puglia disarmò il
castello di Taranto, incettò nel Salento armi e munizioni, ristabilì l’ordine
nel Gargano dove si annidavano armate schiere di reazionari.
Di Niccolò Montenegro, altro garibaldino eroico,
traduttore delle opere di Edgardo Quinet, Niccolò Vaccina ricorda che fu
cittadino per nitezza di animo e nobiltà di cuore ammirevolissimo, ardente di
amor patrio, dedito agli studi politici, seguace delle idee naziste. Carattere
adamantino, non ambì, non mercanteggiò cariche, contento della pace domestica, e
di essere utile in suo potere ai bisogni degli infelici.
Aurelio Saffi dettò
per lui la seguente epigrafe :
Fama europea acquistò Michele Troja, padre di Carlo lo storico profondo che fu presidente del Parlamento napoletano nel 1848, anatomo, patologo e medico tra i maggiori della sua epoca.
Di Vito e Raffaele Sgarra abbiamo riportato le dotte
indagini storiche. Vito con originalità di vedute., ha sostenuto contro il
Mommsen, l’origine romana del Castel del Monte. Raffaele, con appassionata cura,
va illustrando cose, uomini ed eventi della sua città.
Tipi di vecchi signori, di sentimento e di cultura,
che delle memorie patrie fanno materia di studio e di amore.
Attualmente Andria dà alla Puglia e alla nazione la
fertilità magnifica dei suoi campi e l’attività prodigiosa dei suoi cittadini.
Come centro rurale è il più importante ed il più
popoloso del Barese. Le migliaia di contadini e di agricoltori che formano la
maggioranza della sua popolazione si irradiano per i campi: ma hanno il loro
centro di vita e la loro casa in città. Andria così può rappresentare veramente
la borgata rurale tipo della quale parla con conosciuta competenza Carmelo
Colamonico.
Con una popolazione data in massima parte
all’agricoltura questi centri abitati di Puglia, sono spesso delle enormi
borgate rurali nelle quali si raccoglie di notte la massa di contadini che nelle
ore di giorno si disperde entro i confini di un territorio immenso a distanze
dal centro superiori perfino a 15 chilometri.
Il legame tra le borgate e le più lontane campagne è
stabilito da strade rotabili che in terreno prevalentemente piano, si irradiano
dal centro e formano una raggiera, diventando meno fitte così come si
approssimano alla periferia del territorio comunale.
I terreni sono coltivati da questa immensa
popolazione rurale ed in prevalenza col sistema del bracciantato. Un piccolo
esercizio di diretti coltivatori ottiene dalla terra maggiore fecondità per la
cura e la passione con cui lavora i campi fertili: un tipo speciale di mezzadria
sviluppatosi specialmente durante e dopo la guerra, da anche ottimi risultati e
l’affitto di grandi e piccoli lotti di terreno a contadini benestanti sviluppa
le colture.
Recentemente – il 13 agosto 1929 – il Governo
fascista con ardito provvedimento ha espropriato duemila ettari di terreno per
distribuirli a 400 famiglie di ex combattenti.
Su questo suolo a qualche chilometro da Andria,
sorgerà il villaggio Montegrosso, che la paziente e geniale fatica dei contadini
andriesi farà rigoglioso di piante e ricco di fabbricati.
Nulla di quanto richiedono le esigenze moderne,
mancherà alla nuova borgata rurale e l’esercito dei «giornalieri di Andria» sarà
sensibilmente diminuito. Molti di essi avranno casa e terra, riconosceranno nel
lavoro dei campi il loro valore di combattenti e benediranno il fascismo che ha
saputo compiere questo miracolo arditamente, superando non pochi ostacoli.
La proprietà che ad Andria aveva ancora qualche
esempio di latifondismo, sarà ancora spezzata, e dalla terra resa feconda
cresceranno più abbondanti messi e più rigogliosi frutti. La maggior parte della
campagna andriese piantata a vite così che il suo agro dà una media di
produzione di 8859 ettolitri di vino. L’ulivo e il mandorlo coprono estese
superfici e qua e là spuntano campi di grano e giardini di ortaggi.
L’industria enologica ed olearia è perciò molto
sviluppata: la casearia dà ottimi prodotti e l’allevamento di cavalli è curato
con molta passione ed Andria è l’unica città del Barese che organizza ogni anno
magnifiche corse di cavalli.
In questo ambiente era logico che sorgesse un centro
di cultura agricola quale è quella della Colonia Agricola Umberto I, che vanta
la sua fondazione nel 1877 e che, intitolata all’Ospizio di Giovinazzo, raccolse
14 alunni di questa benemerita istruzione.
Nel programma era fissato che dovesse raccogliere gli
orfani, essere scuola di agricoltura ed avere campi sperimentali.
Visse, invece, povera vita tra le bizze dei
partiti e dei suoi direttori non sempre all’altezza delle necessità. Cambiato
nome in quello che ancora porta di Colonia Agricola, vide crescere i suoi alunni
a 64, si arricchì di un corso di insegnamento di agricoltura parificato a quelli
delle scuole governative.
Ora vanta Scuole elementari di Agricoltura, Gabinetti
scientifici, una Biblioteca, un Osservatorio tecnico idromatico, uno
Stabilimento enotecnico, ma la Colonia Agricola di Andria è ancora ben lontana
da poter essere indicata come scuola tipo.
Roccaforte di Andria è Castel del Monte, belvedere di
Puglia; dalla forma ottagonale, che si eleva sulle colline delle Murge, a
aspirare sulle terre e sul mare, dal baluardo dell’aspro Gargano fino
all’azzurra marina di Brindisi.
Vi è uno scrittore, il Merra, che, a scusare la
necessità di esaltare Andria esaltando Castel del Monte, afferma che attorno
all’importante vetusto monumento si raggruppano mirabilmente tali e tanti
avvenimenti di Andria da potersi a buon diritto appellare la sintesi storica di
essi.
Ed infatti, senza Castel del Monte non si
spiegherebbero molti episodi della storia andriese, senza il castello
turrito, reggia, prigione, covo di malandrini a seconda dell’epoca e degli
avvenimenti politici, la storia di Andria avrebbe avuto altro colore ed altro
significato.
Ora è deserto Castel del Monte : possente ancora con
le otto torri ritte e massicce ma con gli occhi delle sue porte e delle sue
finestre aperti e vuoti, con le sue mura interne devastate e prive dei bei marmi
di che si ornava ai tempi del suo splendore.
Ora è una devastazione nei suoi soffitti, nelle
pareti, nei pavimenti, nelle finestre e nelle colonne, così che occorre
abbandonarsi alla fantasia per ricostruirlo come lo volle e lo abitò Federico,
come lo videro e lo godettero le allegre brigate di dame e cavallieri, che dalle
sue porte cavalcavano a liete cacce.
Chi ne disegnò la miracolosa struttura e ne diresse i lavori?
La storia politica non lo ricorda e la storia dell’arte inutilmente studia, esamina e raffronta le architetture dei castelli, vicini nel tempo. Scrittori francesi insistono nel dare la paternità del castello a Filippo Cinardo, che avrebbe seguita l’architettura francese del XIII secolo: scrittori tedeschi trovano che la costruzione è miracolo degli architetti tedeschi che solevano seguire Federico II.. Qualche scrittore sostiene che il Castello già esisteva al tempo dello Svevo, l’andriese Vito Sgarra il quale, con argomentazioni speciose, vorrebbe far risalire la costruzione all’epoca romana e propriamente al tempo di Augusto.
Egli ricorda che le affermazioni secondo le quali la
torre ottagonale sia dovuta all’arte ed alla passione di Federico, sono della
critica tedesca la quale giunge a falsare la storia pur di attribuire le opere
d’arte ai suoi connazionali.
Lo Sgarra trova che già nel 1009 (cronaca di S.
Sofia) il castello era indicato come Castrum Netii, nel 1092 (cronaca cavese)
Castrumonte, mentre nell’epoca sveva lo si chiamò Castrum Sanctae Mariae, nome
che rimane fino a Federico d’Aragona (1463). Solo dopo quest’epoca fu chiamato
Castel del Monte. Fu il Gregorovius ad assegnarsi la data sveva del 1240
prendendo a documento una lettera dell’imperatore, datata da Gubbio e nella
quale si sollecitano i lavori del lastrico che doveva essere composto con «calce
pietre e le altre cose opportune».
Dal contesto della lettera lo Sgarra trova che non si
parla di nuova costruzione e che anche in essa può benissimo trattarsi di
restauri. Ma in quale epoca fu edificato?
Lo Sgarra insiste nella sua tesi e trova argomenti su
argomenti finendo con un interrogativo che potrebbe essere un amenità. È molto
probabile, egli dice, che Castel del Monte sia stato costruito nel tempo di
Augusto sotto la direzione di Vitruvio.
Nel racconto che Orazio fa del suo viaggio
Roma-Brindisi, si apprende che uno della comitiva si stacco da questa, a Canosa.
Fu Varo.
Dove andò Varo mentre gli amici proseguivano per
Ruvo?
A Castel del Monte, dice lo Sgarra, per costruire la
torre magnifica.
I poeti infine ed il popolo in maniera più spiccia e
più poetica lo cantano sorto dalla bacchetta di Pietro Abelardo, mago portentoso
e stregone potentissimo.
Il Regaldi, in una ottava improvvisata nel 1845,
consacrò in versi questa leggenda :
Fra le macerie dell’antico fasto
Io venni in loco d’ogni luce muto.
Cercai al cener ch’era ivi rimasto
Per qual mano il castel fosse venuto:
La bocca sollevò dal fiero pasto
Degli anni il Tempo e scosse il crin canuto
E disse: Costruì il castel gagliardo
Con la magica verga, il gran Bailardo.
Se intanto si vuol attribuire una epoca ed un ideatore al castello avvicinandosi quanto più è possibile alla verosimiglianza, occorre seguire la tesi del Gregorovius, illustrata con nuovi documenti dall’andriese Merra, il quale dimostra che la torre ottagonale non poteva essere che il disegno di uno solo e di una sola epoca e che quindi «Federico stesso che ne era capacissimo avrà disegnato questa meraviglia architettonica». come riconoscimento della importanza della costruzione non v’è chi non l’esalta. Artisti e scienziati poeti e scrittori.
Valga per tutte l’affermazione un po’ enfatica del
Settembrini.
«Ci sono due monumenti di cui non si trovano i simili
in tutta Europa in quel secolo e nel seguente: la reggia di Federico: Castel del
Monte presso Andria, di stupenda architettura; e l’Augustale, moneta d’oro fatta
con arte stupenda. Bisogna vederli e poi parlare della bambineria degli altri
architetti e scultori e pittori di quel tempo. Sì, bambinerie, paragonate a
Castel del Monte e all’Augustale».
Il concetto architettonico del castello, minutamente
esposto dal Gregorovius, nel suo volume sulla Puglia, voleva intorno ad una
corte centrale formare un ottagono appoggiando a torri rotonde e costruire
quindi due piani di otto sale l’uno.
La costruzione fu eseguita e sviluppata secondo
questo concetto e ad essa si interessò vivamente l’imperatore svevo il quale
nella lettera del 29 gennaio 1240 al giustiziere di Capitana, Riccardo da
Montefuscolo, insisté per il proseguimento e la rapidità della esecuzione dei
lavori.
Il castello ebbe quindi le sue otto torri ed i due
piani : i lati del grande ottagono esterno fra gli assi della torre, furono
costruiti di metri 16,30, i lati esterni di ciascuna torre di m. 3,10 e la
larghezza totale, presa in diagonale, misurò i 56 metri. I muri furono larghi m.
2,40 gli esterni e 2,30 quelli delle torri. Il cortile anch’esso di forma
ottagonale regolare, misurò m. 8,65 per lato.
In ogni lato tra torre e torre fu aperta una finestra
gotica. La porta principale del castello sul lato orientale, prospiciente al
mare, fu anch’essa aperta tra due torri con arco gotico e marmi di una
meravigliosa magnificenza. Sulla porta principale si aprì una finestra trifora
mentre le altre finestre intorno intorno, sempre tra due torri, furono aperte
bifore.
Ma anche le colonnette in marmo pario bianco non
esistono più. Le due della finestra trifora della facciata principale furono nel
1757 asportate e donate a Re Carlo III di Borbone che le fece collocare nei
giardini della reggia di Caserta.
Dalla porta (descrive uno studioso) del castello, si
entra nel pianterreno che a otto sale comunicanti.
Le sale, lunghe venti passi e larghe dodici, sono
sostenute nei quattro angoli da grosse mezze colonne di breccia rossa con
capitelli che ricordano lo stile corintio. Sulle colonne scendono gli architravi
delle volte. Originariamente intorno intorno alle superbe sale correva uno
zoccolo di marmo a forma di muricciolo e di marmo bianco e rosa erano rivestite
anche le pareti. Le volte erano lavorate a mosaico. Le porte delle sale erano
inquadrate in marmo rosso.
Grandi finestre affacciantisi sulla corte ottagona
davano aria e luce. Dal pianterreno, mediante scale a chiocciola, di pietra,
praticate nelle torri si accedeva nelle scale superiori dove era la dimora
dell’Imperatore. Quanto a spazio ed a disposizioni, le sale superiori erano
identiche a quelle sottostanti, ma da queste si distinguevano per maggior lusso
nei fregi ornamentali e per maggior magnificenza di addobbi. Agli angoli non
mezze colonne di breccia rossa, v’erano, ma fasci di tre colonne di marmo bianco
con capitelli compositi.
Il castello fu costruito con pietra delle Murge,
arricchito di marmi preziosi, di suppellettili meravigliose. Federico, amante
del fasto, lo volle veramente dimora regale, non maniero di assalto o fortezza
di difesa, ma luogo di odio e di riposo per pochi ospiti, certamente i più
graditi al principe e i più galanti.
Poiché d’intorno intorno al castello si stendevano
folte boscaglie, le cacce organizzate in questo castello furon, certo,
magnifiche e movimentate.
Il Merra con poetica fantasia così se le immagina :
« Lungo quelle incantate foreste, non è a dire quante
volte, il monarca svevo, vestito con un giustacuore foderato di vajo, in abito
corto verde, con cintura di cuoio d’Irlanda, con uose strette; con coltello da
caccia, arco e frecce e corno di avorio sospeso ad una catena d’oro, abbia
cacciato coi suoi falconi, coi girifaldi dell’Irlanda e della Norvegia, coi
falconetti della Scania, coi lanieri di Tunisi e con gli aleti di Egitto. Non è
a dire quante volte abbia corse quelle campagne in mezzo ad ansanti bracchi e
levrieri e segugi, seguito dai grandi del regno, da paggi e sottopaggi e
valletti e governatori di valletti ».
Della dimora regale e magnifica resta poco: più dei
palazzi dello Svevo in Foggia, Capua e Lucera, più dei castelli di
Castelfiorentino e Lago Pesole : ma molto meno di quanto si poteva sperare.
I marmi sono stati rubati, le porte abbattute, i
pavimenti delle lastre di marmo, divelti e tutto il casello è restato nudo nelle
pareti, per quanto ancora ritto e magnifico nella sua poderosa costruzione.
Nel centro della corte si apriva una cisterna
immensa, nel giro della quale correvano sedili di marmo : ora non c’è che un
fossato pieno di macerie ed a ricordo, una leggenda ricordata da miss Janet
Ross.
Federico mandò un suo cortigiano a darsi conto di
persona come fossero riusciti i lavori di Castel del Monte, ma pesando costui
che una visita imperiale al castello non sarebbe stata così prossima,
pensò di darsi bel tempo in Melfi. All’Imperatore quindi inviò un rapporto nel
quale riferì che la costruzione del castello era un pieno e grande insuccesso.
Federico, avuto questo rapporto, grandemente
irritato, dette ordine che gli fosse trascinato innanzi l’architetto, il quale
anzichè affrontare l’ira dell’imperatore e dare giustificazioni, sedutosi nella
vasca si svenò.
Pure, la vasca ottagonale di marmo bianco, si poteva
ancora ammirare nella seconda metà del secolo passato. La completa distruzione è
quindi relativamente recente. Nessuna meraviglia del resto, perché fino a
qualche tempo fa, una delle sale terrene serviva da stalla per il cavallo del
custode di Castel del Monte, monumento nazionale.
In rime ed in prosa, in proteste di cittadini e di visitatori, in ordini del giorno di associazioni ed in telegrammi di autorità, è stato protestato contro l’abbandono di così insigne monumento; ma purtroppo si può ancora ripetere quanto nel 1845, il poeta Giuseppe Regaldi in un sonetto in rime strambe, improvvisato nell’Accademia del seminario di Andria già aveva da deplorare:
Ora è fatto macerie, è fatto zero
Il castel che costruisse il Mago Matto - ;
Quel che fu di dovizie aureo maniero
Ora è fatto di fogne atro pignatto -,
Ove rinasce il cardo e la cipolla
E il contadin vi stende arida stoppa.
Eppure la grazia orientale, dice il Bertaux, di cui si ornava questo castello, non consisteva solo nelle acque risonanti nel cortile, ma anche nel colore dei materiali, i quali vanno annoverati fra i più rari e più ricchi che si sono incontrati mai in Occidente.
Le vicende di Castel del Monte meritano pure un breve cenno.
Con Federico II fu, come abbiamo già accennato, luogo di riposo e di piacere. Addobbato con un lusso orientale, raccolse nelle sue sale quanto gli ambasciatori portavano in dono al potente Imperatore : tappeti preziosi, drappi di seta, vestimenta magnifiche. Non mancavano le vaghe etere delle quali Federico si circondava e i nobili cavalieri sempre pronti agli amori ed alle cacce.
Morto Federico, il castello passò in eredità a suo figlio Corrado anzi la tradizione vuole che Corrado fosse nato proprio a Castel del Monte, dove pare morì sua madre Iolanda. Passò quindi a Manfredi e caduto Manfredi a Benevento e morta sua moglie Elena nel 1271, fu prigione di tre figli di Manfredi: Federico, Enzo e Corrado, nonché Don Arrigo, conte di Caserta, figlio di una figlia di Enrico II e di Enrico di Pastiglia.
Carlo d’Angiò lo trasformò in fortezza e Federico di Aragona l’abitò per almeno un mese nel 1459.
Dopo il saccheggio di Andria, il castello fu soggiorno dei Carafa nel 1636. poi fu completamente abbandonato. I francesi iniziarono la serie di saccheggi, che solo ebbero termine quando dell’antico splendore e delle antiche ricchezze, non restarono che le poderose torri e le nude mura e finestre e porte aperte alle intemperie.
Già sede di un potente imperatore, poi prigione di Stato, asilo di pastori e masnadieri è ora monumento nazionale e domina ancora, coi suoi ricordi e le sue torri, la Puglia pianeggiante infino al mare.
Castel del Monte non ospitò soltanto le gioconde brigate, ma uomini di corte e di studi, resi famosi dalla storia e dalla leggenda. Pier delle Vigne vi fu certamente, e, dopo Federico, il biondo e di gentil aspetto, Re Manfredi, prima della tragica battaglia di Benevento, l’ebbe come luogo di divertimento e di riposo.
Il portolano Raiel saraceno, vi stette prigioniero
per aver ferito alla guancia in Barletta il giustiziere Lionello Faiella. Fu di
ricovero a Francesco Loffredo, giustiziere di Terra di Bari, il quale vi si
rifugiò con Matteo Spinelli da Giovinazzo, il celebre autore dei Diurnali.
Forse, Re Carlo d’Angio vi si recò il 9 febbraio 1274 in occasione della sua
andata ad Andria, se non per altro, osserva uno scrittore, che per aver la
malvagia gioia di vedere in catene i figli di Manfredi.
Don Arrigo di Pastiglia, già prigioniero nel castello
di Canosa dal 1269 passo nel 1277 nel Castel del Monte dove rimane, sotto
stretta guardia fino al 1291, quando dopo 24 anni di prigionia venne liberato e
potè rivedere la sua terra casigliana.
Un finto Manfredi da Castel dell’Uovo di Napoli,
passò al Castello di Santa Maria del Monte, dove fu compagno di carcere e di
patimenti di Ruggero della Marra e di Roberto di Camisiaco genero di Riccardo di
Castromediano.
Ma lungo e noioso sarebbe l’elenco completo.
Passata la proprietà del castello alla Regina
Giovanna di Napoli vi troviamo prigionieri Pietro e Giacomo Rogadeo di Bitonto,
a proposito dei quali è degno di nota un atto di pronta giustizia della
regina Giovanna. Così lo racconta il già citato Merra:
«con un mandato diretto al giustiziere di Terra di
Bari ed in sua vece al capitano di Bitonto, Giovanna fa sapere di essersi
dinanzi alla sua Real Maestà presentato Pietro Rogadeo di Bitonto, con una
commovente supplica in cui le esponeva come, per innata malizia e scaltra
astuzia del giudice Giacomo De Ferrarsi di Bitonto, il quale non voleva pagare
ai suoi creditori Baucio de Buczanis e Bartolomeo di Bardis, la somma di
centotrentatré oncie che loro doveva; egli era stato arrestato dal milite
Giacomo dei Cavalcanti, allora ufficiale in dette parti, e dalla sua gente che
cercava di recuperare il detto debito era stato percosso a morte nell’atto
dell’arresto, e per comando di esso milite era stato per più giorni carcerato.
Però se era stato liberato dal carcere aveva rimasto per suo ostaggio e per suo
cambio prigioniero al castello di Santa Maria del Monte il suo fratello Giacomo
con grave pregiudizio di entrambi. Per la qual cosa umilmente supplicava la sua
Real Maestà a farli indennizzare sopra dei beni mobili ed immobili di esso
giudice di venti e più oncie che essi fratelli avevano consumate nel tempo della
loro carcerazione, e per varie altre spese portate dopo. In vista di tale
supplica Giovanna I ordinò al giustiziere di Terra di Bari che immediatamente,
senza presentazione di libello, senza strepito forense, ma sommariamente si
facesse giustizia ai fratelli Rogadeo. In tal modo Giacomo poté uscire subito
dal carcere di Castel del Monte».
Venduto ai Carafa nel 1552 assieme ad Andria per la somma di centomila ducati, Castel del Monte accuratamente restaurato, divenne luogo di villeggiatura della nobile famiglia. Nel 1656, anzi, servì, come luogo di isolamento e donna Costanza Orsini col suo figlioletto ed altri nobili, vi si rifugiò e vi rimase per sei mesi; tutto il periodo cioè che durò la grave pestilenza che tante vittime fece nella città di Andria.
È l’ultimo periodo di vita in Castel del Monte. Dopo
è abbandonato alle intemperie del cielo ed alla rapina degli uomini.
Tutto è saccheggiato, tutto è distrutto fino a che la
turrita costruzione sveva, meraviglia di architettura, di marmi, di
suppellettili non diventa quale la trovò il Regaldi.
L’ammirazione della bellezza del Castello non è mai
venuta meno, però, ed interessante sarebbe stato conservare un libro dei
visitatori. Prima della guerra, da Bari dove era sbarcato, vi si recò in
automobile ad ammirarlo, Guglielmo, imperatore di Germania. Uomini di scienze e
di lettere, non appena in Puglia, accorrono a visitare il castello. Spesso
comitive numerose vi si recano ed una più bella delle altre occorre citare
perché volle far risentire nell’atrio del castello ancora la bellezza dei suoi
suoni e dei suoi canti.
La iniziativa fu presa dal Circolo Artistico di Bari
del quale chi scrive era il segretario: si riunirono quasi cento gitanti tra i
quali non mancavano gentili signore. Il professor Gervasio attualmente direttore
del Museo Provinciale di Bari ed altri dotti ricostruirono sul posto la storia
di Castel del Monte, mentre una orchestra di valorosi dilettanti accompagnava il
canto di dame cortesi.
Dopo secoli di storia e di vicissitudini, fu la prima
volta che dal Belvedere di Puglia fu lanciata la proposta che Castel del Monte
divenisse il museo regionale delle glorie dei tenaci pugliesi.
La proposta pare sarà accolta dalle supreme gerarchie
del fascismo e del governo. Per ora squadre di maestranze specializzate, tecnici
di valore, ed appassionati studiosi vanno restaurando il magnifico castello, che
ricco di storia, meraviglioso di leggende, sfida ancora con le sue otto torri i
secoli.
Monografia redatta dall’Avv. ALFREDO VIOLANTE