Ceschi: restauri a Castel del Monte

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Gli ultimi restauri a Castel del Monte [*]

Carlo Ceschi (29/11/1904-10/07/1973)
(stralcio)
Il riferire di un fortunato periodo di restauri a Castel del Monte è strettamente doveroso, data la fondamentale importanza del monumento, anche se nessun lume nuovo questi restauri hanno portato per una maggiore conoscenza dell'edificio notissimo.
Non mi trattengo quindi a riepilogare dati storici anche ultimamente ripresi in eccellenti pubblicazioni[1] e passo senz'altro all'argomento restauro, tanto più che in questo campo è possibile invece fare qualche interessante constatazione anche di valore generale.
Ricorderò che, dopo lungo abbandono, il castello venne acquistato dal Governo Italiano nel 1876 e poco dopo, nel 1879 e nel 1884, ebbe a subire i primi lavori di restauro di cui troviamo notizia dettagliata nella relazione che l'ingegnere Sarlo pubblicò nel 1885[2].
Ho detto subire perchè furono veramente quei restauri condotti con così poca sensibilità artistica che ancor oggi, a distanza di quasi sessant'anni, creano un senso di disagio anche nel visitatore meno avvezzo a giudicare in materia.
Di tali opere restano ancora tracce nel cortile centrale dove porzioni di paramento rifatto contrastano in modo stridente con le corrose murature originarie (figg. 2 e 3) e nell' interno delle stanze al primo piano dove, al solo scopo di consolidare qualche tratto più cadente, vennero rifatti paramenti, stipiti di porte, sguinci di finestre, eccetera, sempre nella stessa pietra senza preoccupazione alcuna per il materiale originario ch'era breccia rossa corallina per gli stipiti delle porte e marmo per le incorniciature delle finestre, senza cura ed attenzione per le tracce più evidenti degli elementi ornamentali di cui venne persino talvolta distrutta la più sicura testimonianza.
I tratti mancanti della sagoma basamentale marmorea sopra i sedili di alcune sale vennero sostituiti con blocchi di pietra calcarea lavorata a pelle fina tale da trarre in inganno l'osservatore superficiale ed in qualche zona il paramento venne continuato tranquillamente anche sopra la traccia della sagoma tanto da rendere dubbiosi sulla sua originaria esistenza per quel tratto. Anche le interessantissime fasce di « opus reticolatum »[3] collocate nelle pareti al disopra delle cornici, vennero restaurate sostituendo le tessere mancanti con lastre di pietra alte quanto l'intera fascia e rigate a quarantacinque gradi nei due sensi a simulare l'opera originaria.
Fu allora provvidenziale invece l'applicazione di un masso di pozzolana e tegola pesta sulle sommità dei muri per garantirli dalle infiltrazioni delle piogge e la sistemazione, con analogo battuto, del piano dei cortile onde convogliare le acque nella cisterna centrale.
Il problema della copertura seguitò a preoccupare anche in seguito, perché le acque, impregnati i rinfianchi delle volte, piovevano nelle sale del piano superiore e nelle torri formando numerose incrostazioni e stalattiti calcaree, minando altresì le stesse condizioni statiche delle volte.
Così nel 1892 il Genio Civile di Bari affrontò una prima volta radicalmente il lavoro, pavimentando l'intera terrazza con lastroni di pietra calcarea, i quali, però, non resistettero al gelo e si sfaldarono rendendosi in brevi anni inutili, tanto che l'Ufficio per i Monumenti di Napoli provvide nel 1897 a rifare nuovamente la copertura in pietra eseguendola a due spioventi poco inclinati e provvedendo ad una canalizzazione perimetrale in modo da smaltire le acque nel cortile mediante doccioni angolari.
I mezzi finanziari troppo scarsi non permisero allora altre opere degne di menzione se si eccettuano i preziosi rilievi eseguiti dal Bernich ed i saggi che definirono le controverse questioni della cinta perimetrale esterna e dell'accesso al Castello, di cui l'Avena ha lasciata la migliore documentazione[4].
Di particolare importanza fu il saggio sulla scala che portò alla luce la sua ossatura di pietra e tracce di rivestimento marmoreo, in seguito scomparse, e stabilì che per accedere al Castello non si attraversavano fossati nè ponti levatoi.
La ricostruzione grafica della scala fatta dal Bernich, forse perchè lo scavo di saggio non fu allora completato, si dimostrò però in seguito errata.
Il problema fu risoluto definitivamente dal Quagliati che ebbe il grande merito di riportare alla ribalta il restauro dell'insigne castello dopo un ulteriore abbandono di tre lunghi decenni.
In tempi propizi egli riuscì a raccogliere e coordinare gli sforzi dell'esemplare Amministrazione della Provincia di Bari, del benemerito Ente Provinciale per i Monumenti e dei generosi Comuni di Andria e Corato, iniziando nel 1928 la prima vera valorizzazione del monumento.
La morte non permise all'insigne studioso di lasciare memoria della sua opera[5]. Ritengo perciò doveroso, in questa occasione, citare per sommi capi anche quei lavori che sotto la sua guida vennero condotti nel biennio 1928-30 per un importo complessivo di circa duecentomila lire.
Bisogna ricordare che ancora in quel tempo il castello giaceva immerso in un riempimento di oltre due metri che ne copriva tutto all'intorno l'intero zoccolo perimetrale. Questa rilevante massa di terra e pietrame venne completamente rimossa, costituendo un piazzale tutto intorno, poi collegato con la nuova più ampia strada provinciale, al piano originario dato dal primo gradino della scalinata principale. Dallo sterro era venuta infatti in luce, con l'intera zoccolatura delle torri, la struttura della scala con ancora in sito i primi due gradini e buona parte dei muretti delle rampe e del ripiano (fig. 4). La scalinata venne ricostruita in due rampe simmetriche sicuramente giustificate dalle abbondanti tracce ritrovate.
Questa ricostruzione sollevò le recriminazioni di coloro che si erano convinti della soluzione, indicata dal Bernich, di una scalea completa e frontale ed ancor più di coloro che avevano fantasticato di romantici ponti levatoi e di trionfali ingressi di principi a cavallo.
Ma il restauro Quagliati é rigidamente ortodosso e non può lasciare alcun dubbio.
L'ipotesi del Bernich che la scala fosse rivestita di marmi è possibile, ma non è suffragata da alcun elemento, mentre il frammento di transenna ritrovato in quel punto e dall'Avena supposto appartenente al ballatoio interno del cortile[6], potrebbe aver fatto parte di un parapetto della scala la cui esistenza in origine è assai probabile.
Opere da ricordarsi per la loro grande utilità furono la revisione e la definitiva sistemazione della copertura della terrazza e la collocazione di numerosi infissi a vetri nelle maggiori aperture del castello.
Ma il laborioso e lungo rifacimento della zoccolatura delle otto torri, fino alla geniale cornice di sagoma gotica che risolve il passaggio di piano, costituì il grosso del lavoro eseguito in questo periodo.
Le condizioni del paramento delle zoccolature, come di quasi tutte le pareti esterne del castello, erano assai gravi. L'azione degli agenti atmosferici per la particolare situazione topografica di Castel del Monte, per la sua posizione elevata ed isolata di fronte al mare aperto ed ai monti della Lucania, è stata nei secoli fortemente deleteria per le sue spesse muraglie. Quest'azione della pioggia e del gelo, ma particolarmente del vento, non si è verificata con uguale intensità nelle varie parti dell'edificio dove le pareti più efficacemente battute si presentano smangiatissime mentre qualcuna più riparata è invece quasi perfettamente conservata. Queste parti conservate ci hanno documentato che le cortine di Castel del Monte erano state, in origine edificate con la tecnica consueta delle maestranze pugliesi del tempo, a corsi, cioè, di pietra calcarea locale, squadrata, perfettamente connessa ed a faccia vista lavorata a pelle fina o levigata.
Se Castel del Monte non avesse subìto gli oltraggi prepotenti delle intemperie sarebbe quindi giunto a noi col carattere abituale dei coevi monumenti pugliesi e le sue cortine conserverebbero quell'intonazione calda e quell'aspetto di levigatezza che abbiamo, per esempio, nelle facciate delle vicine cattedrali di Trani, Ruvo, Bitonto, eccetera.
Il Soprintendente Quagliati, archeologo, di fronte a queste testimonianze sicure non esitò a procedere al restauro delle zoccolature usando la stessa tecnica originale. Riaprì una cava abbandonata poche centinaia di passi sotto il castello, ritenendo di aver ritrovata la stessa cava del tempo Federiciano e fece sostituire i blocchi corrosi con analoghi blocchi nuovi lavorati allo stesso modo degli antichi e terminò zoccolatura e quattrini lasciando i posteri alquanto perplessi di fronte all'opera eseguita.
Ci trovavamo di fronte ad uno dei più ardui problemi di restauro, di quei problemi che richiedono un'estrema ponderazione in chi è chiamato ad affrontarli e che restano poi sempre aperti alla discussione, assommando differenti teorie la cui dosatura può variare da monumento a monumento e secondo i criteri dei restauratori.
Tra l'estremo del ricostruire un edificio sulla base del « come doveva essere » e quello del rinunciatario « rispetto del rudero » vi sono oggi infinite sfumature che alla scuola di Gustavo Giovannoni gli studiosi italiani del restauro hanno imparato a distinguere ed a portare dalla teoria al campo pratico sperimentale con nuovi concetti e soprattutto con maggior scrupolo e senso di responsabilità.
Nel caso di Castel del Monte, dopo l'esperienza dei restauri fatti nel secolo scorso, non si doveva cadere almeno in errori pressochè analoghi. Abbiamo detto come, a differenza delle cortine in pietra che nella maggior parte dei monumenti pugliesi ci sono giunte conservatissime, quelle di Castel del Monte hanno subito il maggior oltraggio del tempo (vedi figg. 5 e precedenti); non è quindi necessario insistere per far notare che se l'aspetto esterno dei primi ci è arrivato pressochè integro, con in più la bella patina dell'antichità, l'aspetto esterno di Castel del Monte ha subito, dall'origine ad oggi, una grande metamorfosi.
Questa nuova fisonomia raggiunta dal monumento in sette secoli di vita costituisce uno di quei caratteristici e particolari imponderabili elementi che devono pesare sul criterio del restauro.
In Castel del Monte l'aspetto architettonico non veniva più a trovarsi in piano predominante, ma ad esso si era fuso quello pittorico in dose uguale, ed il restauratore, per non fare opera stonata, doveva sentirli ambedue.
E come per ciascun malato anche della medesima malattia non può adottarsi la medesima cura, perchè va tenuto sommo conto delle sempre mutate condizioni fisiche generali che rendono talvolta inadatta ad un organismo la cura che può aver avuto in altri successo, così ogni monumento va trattato secondo le sue complesse esigenze generali.
Il medesimo concetto che aveva guidato il restauro, per esempio, della basilica di S. Nicola di Bari, dove il paramento originario era conservatissimo e la sua reintegrazione non poteva farsi altrimenti che seguendo la stessa tecnica, non doveva essere adottato per la ricostruzione del paramento di Castel del Monte, le cui parti originarie rimaste integre erano minime e non avevano ormai altro valore che di preziosa testimonianza.
Su di una traccia sicura è possibile ricostruire una finestra, un pilastro, una cornice, comunque una parte secondaria di un edificio, differenziando anche con appositi accorgimenti il nuovo dal vecchio, specie quando trattisi di parti decorative; ma il restauratore deve trattenersi dal fare un'opera di completamento sproporzionata all'elemento originario rinvenuto in sito.
Se i restauri condotti tra il 1928 ed il 1930 fossero stati continuati con lo stesso sistema questa sproporzione sarebbe divenuta stridente e sommamente pericolosa per il monumento.
Basta considerare un momento la gelida freddezza delle pareti del cortile restaurate nel 1884 (fig. 6) dove nemmeno mezzo secolo di intemperie è riuscito a portare un soffio di vita, e basta osservare un esempio della zoccolatura eseguita in tutte le torri nel 1928-30 (fig. 7) dove la superficie nuova è tripla di quella originaria e costituisce uno stridente contrasto con l'aspetto dell'intero, castello, per immaginare lo squallore che vi avrebbe raggiunto l'insigne monumento se il restauro fosse stato interamente compiuto col medesimo troppo teorico criterio.
Castel del Monte avrebbe avuta in breve una veste, architettonicamente ortodossa e rigorosamente uguale nel taglio a quella originaria, ma nuova come una copia, fedelissima, ma inevitabilmente falsa. Inoltre la pietra impiegata, a distanza di appena tre anni, si dimostrava eccessivamente gelida sfaldandosi qua e là in maniera anche notevole.
La responsabilità di chi ebbe il compito di seguitare i lavori, è stata, come può ben immaginarsi, grandissima.
Quando nel 1933, mentre la Puglia era rimasta sei mesi senza Soprintendenza ai Monumenti, venne stanziata la somma di L. 320.000 per la prosecuzione dei restauri, l'importanza del monumento e la necessità di una maggiore ponderazione fecero sì che il Consiglio Superiore delle Belle Arti si assumesse lo studio della questione ed affidasse poi l'incarico dei primi esperimenti pratici all'allora Soprintendente per la Campania, Prof. Gino Chierici.
Alla perizia tecnica ed alla sensibilità artistica di Gino Chierici è dovuta la soluzione del difficile problema del ripristino del paramento di Castel del Monte.
La comoda cava a cui si era attinto negli anni precedenti fu senz'altro abbandonata e ne vennero saggiate altre, sempre nei dintorni, sottoponendo i rispettivi campioni di pietra agli esami di laboratorio presso la scuola d'ingegneria di Napoli.
Venne preferita una cava lontana dodici chilometri dal Castello la cui pietra aveva però fornito ottime prove di laboratorio e si presentava di colorazione più prossima a quella generale raggiunta per l'azione del tempo dall'edificio.
In più la cava era disposta a strati di breve spessore, il che offriva il duplice vantaggio di una più agevole estrazione e di una maggiore frequenza di superfici ossidate.
Infatti è noto che nella formazione rocciosa a strati distinti questi si appoggiano uno sull'altro in modo non perfetto e le superfici di combaciamento, offrendosi ai processi di ossidazione del sottosuolo, si differenziano dal nucleo anche come colorazione.
Il Soprintendente Chierici sfruttò genialmente anche questo vantaggio e lasciando glabra la faccia del letto di cava la impiegò così come veniva estratta, usando come faccia vista quella patinata naturalmente dall'ossidazione.
Quando nel settembre dello stesso anno 1933, costituitasi a Bari la nuova Soprintendenza per la Puglia, prendemmo in consegna il lavoro, seguitammo lo stesso sistema di restauro che si era rivelato il più opportuno ed il più rispondente al carattere del Monumento.
In tal modo vennero seguitate la terza torre a destra dell'ingresso principale (fig. 8) e tre lati del cortile (fig. 9) nonchè qualche tratto qua e là dov'era più necessario, ottenendo un complesso cromaticamente armonico insieme al più rigoroso ripristino architettonico.
Purtroppo la somma a disposizione non poteva venire impiegata soltanto nella reintegrazione dei paramenti esterni poiché ben altre cure esigeva il castello in ogni sua parte assai detoriorato ed in grande disordine anche nell'interno.
Le finestre del castéllo erano rimaste qualche secolo senza alcuna chiusura ed il gran vento di quei luoghi aveva turbinato liberamente all'interno delle sale unendo la sua corrodente azione a quella non meno insidiosa delle infiltrazioni delle acque dalle coperture.
Gli infissi un po' sommari ch'erano stati collocati nel 1928 nelle maggiori aperture non avevano resistito alla forza del vento ed erano stati in buona parte divelti.
La necessità di risolvere durevolmente il problema delle chiusure si presentò inderogabile e venne affrontato malgrado la forte spesa, munendo di solidi infissi i due portali, le undici grandi finestre, le ventisei monofore e le più di sessanta feritoie.
Lo studio dei nuovi infissi non fu scevro di difficoltà. Dopo la prova dei precedenti si dovette tener conto principalmente della solidità, conciliando questa esigenza con le non meno importanti necessità artistiche.
Si rinunziò a qualunque rievocazione di quelle che potevano essere state le chiusure originarie di cui, del resto, non rimaneva altra traccia oltre ai fori ai lati delle mazzette che ospitavano le estremità della trave orizzontale di sicurezza.
Era necessario che la chiusura, per essere efficace, fosse ermetica e, date le irregolari slabbrature delle mazzette e dei davanzali, risultò necessario legare le ante mobili ad un telaio fisso indeformabile solidamente fermato alle murature.
Il telaio, legato anche in basso da un sopradavanzale in legno, permise di eliminare il montante intermedio in modo che, a finestra spalancata, nessun ostacolo impedisse la visuale.
La parte superiore, corrispondente ai trilobi, fu mantenuta nelle misure minime onde consentire il maggior godimento delle parti marmoree sagomate ed ornate.
Protetto così l'interno del castello provvedemmo alle opere più importanti di riordino nelle sale dei due piani.
L'impressione di maggiore abbandono era data, all'interno, dalla mancanza di pavimentazione. Si camminava sul terreno e sul polveroso rinfianco delle volte, tra avvallamenti che fino a poco tempo prima divenivano pozzanghere ad ogni pioggia. Non era possibile però provvedere a questa sistemazione senza aver prima compiuto il restauro delle volte che, per essere costruite in blocchetti di tufo anzichè di pietra, avevano maggiormente sofferta l'azione del tempo.
La figura 10, meglio di una descrizione, può dare un'idea dello stato di deperimento cui erano giunte le volte del piano terreno, le quali si reggevano per la forza di coesione del masso di grande spessore che ne formava il rinfianco.
La sezione cuneiforme dei blocchetti di tufo e la forma stessa della volta gotica a crociera hanno richiesto che la sostituzione delle file guaste venisse compiuta dal di sopra. Dovemmo perciò svuotare, dopo averle convenientemente armate, tutte le volte nella loro parte superiore, procedendo quindi pazientemente all'accurata sostituzione dei conci deteriorati (figg. 11 e 12).
Il rinfianco fu ricostituito con pietre e malta di pozzolana in modo da offrire anche la maggiore garanzia di stabilità. Esso venne poi livellato con un battuto di coccio pesto (calce, pozzolana, cemento, tegola pesta e qualche scheggia di pietra), che fu mantenuto quattro centimetri più basso dell'antico pavimento allo scopo di conservarne le tracce e non rendere impossibile una sua ricomposizione.
 
La superficie del battuto che prende, dopo la messa in opera, un brutto colore di biacca cementizia, è stata lavata e spazzolata prima della presa completa facendo in tal modo affiorare i frammenti di cotto e le pietruzze che hanno data una colorazione rossastra, sul tono della breccia corallina, di gradevole effetto.
Al piano terreno, prima di procedere a questa pavimentazione, abbiamo saggiato il suolo di più sale senza trovare traccia di murature onde poter affermare una volta per sempre l'inesistenza di un qualunque sotterraneo.
L'aspetto ordinato assunto dalle sale in seguito alla regolarizzazione del pavimento, venne reso ancora più evidente con la ripresa dei sedili disposti lungo le pareti e nei profondi sguinci delle finestre (fig. 13). Lavoro questo senza difficoltà poiché i sedili erano ovunque parzialmente conservati e sempre evidenti oltre che di forma e sagoma invariabile.
Altre opere di qualche importanza vennero qua e là eseguite in questo periodo e tra esse ricorderò l'impermeabilizzazione delle cisterne pensili, il ripristino degli stipiti di alcune porte di passaggio tra le sale ed i camerini delle torri, il restauro del portale (fig. 14) dove fu possibile impiegare blocchi di breccia rossa corallina dello stesso tipo di quella adoperata nella costruzione del castello, estratta nelle vicinanze da una piccola cava anche da noi ritrovata. Preferimmo però conservare al suo posto l'architrave originario, anche se spezzato in mezzeria, rinforzandolo internamente con un poderoso ferro a L mascherato dal telaio del nuovo infisso.
Il complesso di opere che ho brevemente descritto e giustificato non è stato in fondo che un brillante inizio del grande restauro del monumento illustre, ed è un vero peccato che il lavoro abbia dovuto interrompersi per l'inevitabile esaurimento dei fondi a disposizione.
Per il compimento del restauro occorrerebbe un altro decennio di operosità al ritmo di centomilalire l'anno.
Esiste ancora la parola impossibile nel nostro tempo?

Carlo Ceschi, "Gli ultimi restauri a Castel del Monte, nella rivista “Japigia, Ed. Alfredo Cressati, Bari, 1938, Anno IX, fasc.unico, pagg.3-22

NOTE
[*] Le foto sono di A.U.F.Po.M.P. - CdM. 1934, Bari (Archivio Ufficio Fotografico della Direzione regionale Musei Puglia sez. per il patrimonio Storico-Artistico ed Etnoantropologico delle province di Bari e Foggia)
[1] G. CHIERICI, Castel del Monte, fasc. I de « I Monumenti Italiani », a cura della R. Accademia d'Italia, Roma, 1934.
B. MOLAJOLI, Guida di Castel del Monte, della R. Soprintendenza alle opere di antichità e d'arte della Puglia, Fabriano, 1934.
[2] FRANCESCO SARLO, II Castello del Monte in Paglia e le riparazioni ora fatte, in « Arte e Storia », IV, n: 13-15, Firenze, 1885.
[3] È questa forse la prima riapparizione dell'opus reticolatum in costruzioni d'età medioevale e, si noti, a puro scopo decorativo.
[4] A. AVENA, Monumenti dell'Italia Meridionale, Roma, 1902.
[5] Quintino Quagliati, Soprintendente alle Opere di Antichità e d'Arte della Puglia, colpito da febbre perniciosa durante una esplorazione sul Gargano, morì a Taranto il 29 dicembre 1932.
[6] A. AVENA, op. cit., p. 2.