San Benedetto Giuseppe Labre visse la sua breve esistenza di "pellegrino della Madonna" nella seconda metà del Settecento (1748-1783).
Il seguente testo, che arricchisce la storia del nostro santuario di S. Maria dei Miracoli di
alcune esemplari vicende poco conosciute accadute a questo
Santo nel 1771,
mentre in Andria pellegrino soggiornava, mi è stato suggerito e fornito da Nicola Montepulciano,
studioso e appassionato di storia locale e dell'ambiente; il libro originale appartiene alla biblioteca della Basilica di S. Maria de' Miracoli di Andria,
gentilmente prestato per una ricerca storica sul santuario.
Anche il primo piano dell'immagine del Santo è una originale litografia posseduta dallo stesso prof. Nicola Montepulciano,
prestatami per qui riprodurla; la stampa originale, escluso il bordo non stampato e la sottostante scritta,
misura cm 46,3 x 32,8 (in un foglio ampio cm 78,5 x 55,5); le macchie sono dovute
al fatto che nel tempo è stata esposta in modo irregolare alla luce e all'umidità.
La pregevole incisione è così firmata: a sinistra, "And:a Bley Lugdunensis ad Vivum depinxit anno 1771.";
al centro, "Proprietas Postulationis Causae";
a destra, "Dominicus Cunego sculp. Romae 1783".
Da Fabriano S. Benedetto Giuseppe fuggendo dagli onori e dalla stima del popolo, con orrore maggiore dell’amore col quale i mondani ne godono e ne vanno in cerca, si diresse celermente a Loreto a diffondere gli affetti suoi in quella santa Casa, ed a piè dell’Immagine veneranda e taumaturgica della divina Madre. Alquanti giorni ivi si trattenne e quasi anche inosservato, onde nulla ci lascia ridirne, per opprimerci poscia di abbondanza nei susseguenti altri nove pellegrinaggi a quel mondiale Santuario.
Da Loreto mossosi per le coste dell’Adriatico, si recò sul Gargano alla celebre Grotta dove si manifestò il principe dei celesti Cori S. Michele Arcangelo, e di là discendendo si recò a Barletta, dove per tre o quattro giorni edificò quel Popolo visitando la Chiesa di Nazaret, dove il Vescovo titolare di Nazaret teneva fissa la sua cattedra, dopo che Nazaret venne in dominio dei Turchi. Fu per lui quasi un visitare novellamente Loreto, perché se in Loreto vi era la Casa dove aveva abitata Maria, Nazaret era la Patria della Vergine benedetta tra tutte le donne. Qui fu conservata la memoria del suo passaggio. Il Capitolo di quella Cattedrale nel 1786, esponeva alla Santa Sede un vivo desiderio per la sua beatificazione, a ragione della conoscenza che si aveva da tutti del vicinato della sua persona, delle sue virtù e de’ meriti suoi.
Da Barletta passò nella vicina Città di Andria, dove la sua dimora fu più lunga a ragione del celebre Santuario di Maria SS. chiamata dal Pontefice Gregorio XIII S. Maria de’ Miracoli di Andria, causa dei grandi miracoli in qualità e numero che Maria SS. operava a decoro di quella sua Immagine, dipinta da epoca immemorabile nel fondo di una spelonca, e rinvenuta prodigiosamente ai 10 marzo del 1576. Ivi tra la magnificenza del Tempio nuovo poco fa compiuto, e le ombre venerande della Grotta, e tra la moltiplicità de’ voti che cuoprivano lo pareti all’interno, e le lampadi numerose che scintillavano ne’ sacri recinti, esultante con l’anima sua in Colei che è la tesoriera delle grazie e la sorgente della salute, dall’alba a notte vi passava i giorni a suo modo, con un atteggiamento divoto ed un affetto sempre ardente. Dai PP. Benedettini ivi allora stanziati, riceveva la minestra del ristoro, ed i Portici del Tempio gli fornivano l’asilo del riposo. Siccome era suo costume visitare anche le Cappelle, ed i Cimiteri della Città e dei luoghi, per i quali passava, più volte entrò nella Città a tale scopo e vi si rese spettacolo di pietà, di mansuetudine, di umiltà, di pazienza e di carità sorprendente.
In Andria, nella sua storia, si vede, per la prima volta esposto alle irrisioni ed agli insulti dei monelli della strada ineducati e temerarî. Questi al mirarlo così miseramente vestito, mezzo lacero e nudo, e nel suo atteggiamento di braccia, e gravità e modestia non solite a mirarsi, lo accolsero prima con fischi e grida da forsennati, e poi con pietre una delle quali ben grande lanciata da un manipolo di fabbricatore, lo percosse alla gamba e la ruppe a sangue. In questo mentre uscendo di bottega Luigi Ricciardi maestro calzolajo per osservare la causa dello schiamazzo, al mirare quel povero sanguinante che si raccoglieva con volto tranquillo e gioioso la pietra, e la baciava, e conservava come un fiore o gemma cadutagli dal Cielo, arse di sdegno contro quei malnati e li pose in fuga, indi invitò in sua bottega il ferito, il quale con pace e sorriso gli diceva «È niente, è niente: Maestro, non vi date pena!» Ne lavò e fasciò la ferita, e gli fornì qualche ristoro. Dio lo premiò di tanta carità concedendogli una vita quasi secolare, e fino agli anni ultimi encomiava la mansuetudine e l’umiltà di Benedetto, mantenendone tra i Cittadini viva la tradizione di sua venuta. Per l’opposto il giovinetto sconsigliato che menò la pietra non sfuggì dalla divina punizione. Dopo pochi giorni cadde da su la fabbrica e miseramente morì. Stando Benedetto in Città, dopo passato il giorno in orazione nella Cattedrale o in altra Chiesa, si fermava la notte sotto un arco detto di Marchese.
Visitando la Chiesa Collegiale di S. Nicola in questa Città medesima, il Sagrestano, al mirarlo così lacero e consunto, anziché muoversi a compassione, lo scacciò villanamente, e dandogli uno schiaffo, gli disse: «Va a faticare vagabondo infelice, perché sei giovane». In questo mentre passando il Canonico della Collegiata medesima D. Andrea della pia e ricca famiglia Jannuzzi, sdegnato contro del Sagrestano lo rimproverò di empietà, qual nuovo Malco oltraggiando Gesù Cristo in persona del poverello; poi si accostò a questo e gli fece varie domande. Apprese che era francese e che andava Pellegrino visitando i Santuari in espiazione de’ suoi peccati, si persuase alla calma e modestia del volto essere un Servo di Dio, lo volle seco e lo condusse al maestro di famiglia Domenico Garbetti, acciò gli facesse un paio di scarpe acconcie alla condizione di viaggiatore, stante che delle scarpe recate dai Sette Fonti non gli rimanevano che pure reliquie.
Dopo due giorni andò Benedetto a prendersi le scarpe, se 1e pose, ringraziando il benefattore, nel sacchetto del suo equipaggio. Egli però, nell’abbracciare la povertà volontaria si era prefisso di mai indossare cose nuove come contrarie a questa virtù. Per lo chè, cammin facendo per la via detta di S. Bartolomeo, s’incontrò con una donna scalza, se ne mosse a compassione, e fermatala le disse: «Sorella, tu hai più bisogno di me, mettiti queste scarpe.» Questa Donna» stupita nel mirarsi così regalata da un pezzente, e nel tempo stesso rallegrata a vista del bello acquisto, pensò subito farne danaro, e perché Dio così dispose per rivelare la carità esimia del suo Servo, si recò per venderle allo stesso Artefice che le aveva lavorato. Questi, al vedere le scarpe esclamò: Ecco che vuol, dire far del bene a questi vagabondi? non è mezz’ora che gliele ho date, fatte fare dal Canonico Jannuzzi, ed or subito se le vende! La donna arrossì, e schiettamente disse: «No, non è lui che vende; l’ha date a me per carità, dicendomi che io ne aveva più bisogno di lui, e col fatto me le vendo per altre necessità più urgenti.
Domenico ne restò sorpreso, o corse a narrare l’avvenimento al Canonico, il quale, all’udirlo dandosi la mano sulla fronte ripeteva:
«Io lo diceva, che questo giovane era un Santo! Il volto lo annunziava chiaramente.» Datosi a ricercarlo, lo rinvenne per sua ventura,
lo condusse in sua casa, ed ordinò alla sorella trattarlo con buoni brodi finché si tratteneva in Andria, acciò si ristorasse,
dall’emaciazione e debolezza in che si trovava. Ma nel mezzodì seguente Benedetto non comparve.
Questa città che gli era divenuta cara per avervi incontrato gl’improperii di Gesù Cristo, gli diveniva fatale, dal ché cominciava
a tributargli onori e venerazione. Il fatto delle scarpe divenuto comune in poche ore, aveva richiamato su de’ suoi cenci
la maraviglia e la stima universale.
Egli era passato a Trani, dove per tre giorni s’intrattenne su la tomba di S. Nicola Pellegrino tanto a lui conforme nella vocazione. Viva è ancora la memoria dell’arco o atrio della Chiesa del Purgatorio dove pernottava, ed i discendenti della famiglia si gloriano averlo per mezzo degli antenati con le loro largizioni pasciuto con sommo loro contento.
Dal primo giorno in cui vi apparve orando tutto il mattino, e poi dal vespro a sera prostrato nel suo devoto atteggiamento innanzi l’altare del SS. Sacramento, e del Santo Protettore, incominciossi a spargere la voce esservi in Trani un poverello Santo. Andavasi a vedere in Chiesa con ammirazione, e fuvvi ancora chi si adoperò ad averne un ritratto, che fu eseguito a maraviglia da buon pennello. Una copia se ne serbava con grande venerazione nella Casa de’ Signori Lavecchia fin dal finire del passato secolo. Venerato da tutti ed amato come santo ed amico di Dio. Personaggi distinti lo pregarono ed indussero, a visitare D. Nicola Termine Canonico della cattedrale gravemente infermo, ed a tutti caro per i suoi immacolati costumi. Benedetto al mirare il sacerdote infermo, si fece ad esortarlo con tenere ed amorevoli parole a sostenere rassegnato e lieto le sue pene, perché, conchiudeva: Da qui ad otto giorni sarete in casa vostra. Difatto, all’ottavo giorno passava a vita migliore.
Bastava qualche giorno di permanenza per questo Apostolo insigne della pietà, per lasciare i popoli impressionati dai buoni esempi delle sue virtù. Lo videro, Bisceglie, sulla tomba de’ suoi martiri, Molfetta alla sua Madonna de’ Martiri, Giovinazzo alla sua Vergine di Cursignano, e vantano di averlo avuto per qualche giorno a concittadino. Finalmente giunse in Bari punto precipuo di sua peregrinazione. Il suo nome si trova registrato nel catalogo dell’ospizio de’ Pellegzini, dove venne accolto sotto il dì 31 Ottobre, vi si trattenne per i soliti tre giorni. Ascoltiamo l’Attore della relazione presentata alla sacra Congregazione dei Riti in occasione delle informazioni giuridiche.
«Quest’anima grande, egli dice, assorta continuamente in Dio sorgente eterna di santità, benché fosse imprigionata tra i vincoli della mortalità umana, santificò con la sua presenza la nostra patria fortunata, coma permanenza di alcune settimane. Altro Antonio e nuovo Pacomio, non si nutriva che dopo l’occaso di pane ed acqua; si coricava su la nuda terra; ed il suo corpo estenuato dai digiuni ed altre astinenze, veniva martoriato dalle punture di un cilizio di nuova invenzione. Tutti i cittadini lo preconizzarono per un Santo, che viveva di pura orazione estatica. Dall’aprirsi la Chiesa finché non si chiudeva, onde ne usciva con dolore, innanzi all’Altare della Vergine di Costantinopoli, o del grande Vescovo di Mira S. Nicola rassomigliava a quegli Angeli di marmo posti in atto di adorazione ai lati del Tabernacolo, tali essendo la sua compostezza ed immobilità. Non si riscuoteva neppure al frastuono delle moltitudini che accorrevano a mirarlo. Non solo con la pietà spargeva luce sì bella, ma con la carità e la pazienza aggiunse maraviglia e stupore.
Nell’uscire dalla Basilica di S. Nicola, passando sotto le prigioni dei colpevoli restò intenerito ai lamenti coi quali quegli infelici assordavano coloro che passavano, chiedendo la limosina. Egli non avendo che dare, seguendo l’ispirazione del sacro fuoco che gli bruciava il cuore, si pose genuflesso in un angolo della strada pose il cappello a terra, collocò sopra di esso il crocefisso del suo petto, e dopo breve orazione cominciò il canto delle Litanie Lauretane. La sua voce sonora, le inflessioni soavi della medesima, la dolcezza dell’accento francese e la novità dell’aria musicale, gli raccolsero intorno una moltitudine di popolo, del quale ognuno versò la sua moneta nel suo cappello. Finito quel canto, baciò la moneta raccolta come per ringraziare i pietosi offerenti e pieno di giubilo, volò a ripartirla nei canestrini, che i detenuti mediante cordelline tenevano sospesi dai cancelli della loro prigione, senza riserbarne neppure una per sé. Un atto cotando generoso ed eroico di carità gli conciliò la stima e l’ammirazione universale. Prendendo coraggio da questo primo fatto, rinnovò più volte la sua funzione innanzi alle Chiese con molto più di ricolto, dal chè quel buon popolo con simpatia e devozione largiva a lui, per mirarlo poi lieto ripartire quel tesoretto ai poverelli presenti.
Non mancò però chi ne formasse di tanta virtù argomento di scherno e dilegio; ma di ciò permise Dio per dare lustro novello alla santità del suo servo. Un tal Michele, soprannominato Malarazza, giovane sfrenatamente audace, e corrotto di costumi a segno, che non potendo essere più tollerato nella sua patria andava vagabondo per i casali vicini, a quei giorni ritrovandosi in Bari, con contorsioni e sconcezze, facevasi a schernire imitando Benedetto per metterlo in ridicolo. Un dì che questi reduce dalla Chiesa passava pel luogo dove il tristo era solito affrontarlo, ne ricevè molti insulti e dopo, un colpo sì violento di selce che gli ruppe a sangue la clavicola. Un grido d’indignazione si levò in tutti gli astanti, dai quali il malvagio si sottrasse con la fuga. Rivolgendosi il santo Pellegrino ai presenti con dolce calma disse: «Niente, niente per me: pregate per quell’infelice che ne ha molto bisogno.» Difatto non sfuggì la giustizia di Dio. Dopo qualche tempo fu ritrovato morto per un colpo ricevuto da altro suo pari nei sito stesso dove aveva ferito Benedetto, e quantunque la ferita per se non fosse né mortale né pericolosa, pure per la cancrena che vi sopraggiunse, miseramente finì. Allora Benedetto appariva, non solo un prodigio di pazienza, ma anche un maraviglioso Profeta.»
Il relatore Barese aggiunge un accaduto nella propria famiglia, dicendo, che passando Benedetto innanzi la casa di suo Nonno uomo retto e di buon cuore, lo chiamò con premura e lo invitò alla sua mensa volendo che sedesse con la sua famiglia. Ma l’uomo della penitenza si contentò di stendere la mano su gli alimenti poi l’avvicinò sul labbro quasi per baciare i doni della Provvidenza, e non volle gustare cosa alcuna. Nel partirsi il buon uomo gli cercò un ricordo. Siccome suonava l’orologio, il Santo gli disse: «Ogni volta che sentirete questa campana, ricordatevi che non siete punto padrone dell’ora che siegue, e pensate un poco alla passione che nostro Signore volle soffrire per darci il possesso della eternità.» Era questo un avviso che si fosse ben preparato alla morte che poco dopo seguì.
Tutti i numerosi, casali del Barese vantano la gloria di averlo avuto ad ospite. Né potrebbe spiegarsi come fosse stato da lui impiegato il tempo lungo di tre mesi, non essendosi trattenuto in Bari che poco più di due settimane. Tutti hanno le loro tradizioni che abbiamo avuto l’interesse di raccogliere. Ma a non dilungare di troppo il capo presente ci limitiamo accennare, che i RR. PP. Cappuccini di Rutigliano, nella di cui Chiesa si venera un Crocefisso miracoloso, edificati della di lui pietà e come confratello Francescano lo alloggiarono, ed al partire che fece il Servo di Dio chiusero la stanza per serbarla come monumento.
Da Rutigliano passò alla Città di Conversano a venerarvi nostra Signora fonte di pietà, immagine prodigiosa ivi onorata quale speranza e protettrice del popolo. Il Sacerdote D. Domenico Iacobellis, medico di molta riputazione, edificatosi nel mirarlo innanzi all’altare della divina Madre con lunga perseveranza e fervore, vedendolo poscia adagiato sui gradini della Cattedrale in uno stato di prostrazione profonda, lo avvicinò ed interrogò di varie cose.
Il Santo era febbricitante, per cui lo condusse in sua casa e lo raccomandò alla madre acciò lo avesse ristorato. Si diede cura procurargli una stanza da albergarlo, e le Suore Cistercensi senza conoscere che era loro confratello, gli fornirono il letto, e tutto ciò che si domandava per ristabilirlo in salute e rimetterlo nelle forze smarrite. Durante la malattia volle ricevere i sacramenti della penitenza e della Eucaristia. Il Rev. Iacobellis che ne curava il corpo ne ascoltò pure la confessione con grande sua edificazione, trovando in lui un’anima tutta celeste, e di un fondo di purezza angelica.
Appena ristaurato nelle forze mostrò premura di proseguire il pellegrinaggio, visitando i santuari del Leccese per quindi tragittarsi nella Palestina ai santi luoghi di Gerusalemme. Ma il pio Medico che lo curò, fecegli conoscere non essere per la sua salute il viaggiare per mare, e gl’impose a responsabilità di coscienza di rinunziare a quel santo desiderio. Obbedientissimo qual’era, ne ascoltò il consiglio come suo medico, confessore e benefattore, e non passò più oltre.
[l'immagine del Santo, dipinta dal vivo, nell'originale litografia
posseduta dal prof. Nicola Montepulciano]
Era circa il terminare del Gennajo del 1772, e Benedetto dopo la malattia sofferta con rassegnazione, lasciando in Conversano l’aria e le menti de’ cittadini imbalsamate col buon odore di Gesù Cristo con nuovo spirito e nuove forze fece ritorno in Bari a salutare il grande Taumaturgo S. Nicola, e proseguendo il suo cammino venerò la Tomba del B. Giacomo di Bitetto, e quindi passò al Santuario dell’Immacolata di Bitonto.
Qui avvenne un prodigio che l’obbligò a rapidamente partirne. Passato a suo modo tutto il giorno a conversare con la purissima delle creature, a sera che doveva chiudersi il Santuario, fu obbligato ad uscirne con suo dolore. Ma la Regina de’ Santi seppe consolarlo, dal chè, mirando egli su l’Obelisco nella piazza del Tempio la sacra immagine della senza macchia, nel prostrarsi a piè di esso per salutarla, rapito in estasi soave vi rimase tutta la notte, esposto ai venti ed al gelo di quella rigida stagione. La notte cadde un nembo di neve, e la mattina fu trovato il Servo di Dio come vi fu lasciato la sera precedente, con uno spazio circolare all’intorno di sua persona e del sacro obelisco, senza che di neve ve ne fosse caduto neppure un fiocco. A vista del portento, si cominciò a raccogliere il popolo ad acclamarlo ed onorarlo come santo, onde priachè la calca crescesse trovò modo d’involarsi da tutti, e parti per Napoli.
A Terlizzi fece un giorno di sosta per onorarvi l’Immagine portentosa di N. S. di Sovereto, indi per Ruvo e Corato altre Città in quella linea, rivide la Signora de’ Miracoli di Andria, visitò i Santuarî che incontrò per via, ed il 13 Febbraio entrò nella Città di Napoli, per venerarvi le reliquie del Martire insigne S. Gennaro, e le Immagini tutte numerose e cospicue tenute in pregio di grazie e prodigi da quella devota e fedele popolazione. Fu alloggiato nell’ospizio de’ pellegrini, e ne partì lasciandola edificala delle sue care virtù, devota pietà, e singolare mortificazione, dopo un mese e quattro giorni di permanenza.
… … …
[tratto da,“Vita virtù doni e miracoli di S. Benedetto Giuseppe Labre – pellegrino francese”, di P. Antonino Maria Di Jorio, Napoli, tip. S. Marchese, 1881, pp. 51-56]