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STELLA VI del Segno dello Scorpione
S.Maria de' Miracoli nel Territorio della Città di Andria.
di F. Serafino Montorio dell’Ordine de’
Predicatori
(stralcio)
Andria, che dal volgo comunemente vien detta Andri,
si allontana dal mare otto miglia trà Ruvo, e Trani. Parlãdo della sua origine
le persone più erudite, benche non ne facciano menzione gli antichi Scrittori,
la vogliono edificata da Diomede; quasi che avendo traspiantato dalla Grecia
un nuovo Regno in Puglia, le dasse il nome di un’Isola del mare Egeo, oggi Arcipelago:
ma, non avendo appoggio di autorità dagli antichi, si rende assai dubbiosa la loro opinione.
Par che con più fondamento ne parli Goffredo Malatesta nella Cronica de’ Normanni,
dicendola fondata da Pietro Conte di Trani, che diede molto credito alla nazione,
mentre egli visse. Ma dagli atti di S.Riccardo suo primo Vescovo,
destinatovi da Papa Gelasio I. l’anno 492. si fa conoscere più antica,
benche la oscurità di tanti suoi prelati decorsi per lo spazio di sei,
ò settecento anni obblighi i più prudenti à discorrene con distinzione.
Riferisce nulladimeno D.Giovanni di Franco la oppinione d’uno storico Religioso Crocifero,
e dice, che quella Città fù edificata da’ Greci nel tempo, che Diomede regnava in Puglia,
dandole un nome simile ad Andro Isola dell’Arcipelago, siccome appunto
la stessa Provincia di Puglia fù detta Etolia, tolto il nome da un’altra Regione
della Grecia, detta similmente Etolia.
Ma sia come si voglia, ella è una Città quanto all’apparenza molto grata, ed allegra;
il suo territorio è pieno di Giardini, vigne, e boschi per la Caccia.
Fù antichissimo Feudo della Famiglia del Balzo, qual ramo si estinse in Pietro Prencipe
anche di Altamura; oggi non però riconosce con titolo di Duca la famiglia Carrafa.
Il Duomo, che stà attaccato al Palazzo Ducale, non è molto grande, ed è più divoto,
che magnifico; è dedicato alla Vergine Assunta, ed à S. Andrea Apostolo;
e vi si conservano molte Reliquie, frà le quali il Corpo del soddetto Vescovo S. Riccardo,
come suo principal Tutelare. Rimane ancora in piedi la Cappella, ed Altare venerabili
alli paesani, perche vi celebrò S. Pietro Apostolo, quando avendo piantata
la Sede Pontificia in Roma, girò per varj luoghi per illustrarla, ed ampliarla.
Fuora le mura in un magnifico Tempio si adora la Immagine di nostra Signora,
detta delli Miracoli, della quale qui distintamente raccontaremo l’origine, ed i miracoli.
Un miglio in circa lungi da Andria verso Ponente si distende una non meno dilettevole,
che fruttifera valle, detta anticamente Lama di S. Margarita, e ciò per una Grotta
quasi nel mezzo di quella verso Levante, dentro della quale vi si trovarono
molte sedie laterali à guisa di Coro, ed à fondo della Grotta verso Ponente era inalzato un’Altare,
ed in una tribunetta dietro à quello era dipinta la Immagine di S. Margarita Vergine,
e Martire con molti miracoli attorno, li quali ad intercessione di detta Sãta
avea oparati la divina bõtà; a’ piedi di quella Immagine erano registrate le seguenti parole:
Memento Domine famuli tui Joannis, & Uxoris ejus Gemmæ, dal che si venne in cognizione,
che ambedue l’avessero fatta scavare, e dedicare in onore della predetta Santa.
Vi si trovò dentro verso Tramontana un’altra Grotta alquanto più piccola,
incavata anch’essa nel tufo, e vi si entrava per un Arco tramezato.
Vedevasi in cima di quella seconda Grotta verso Ponente un’apertura in forma sferica,
ma piccola, quanto potevano girare due braccia, che come ragionevolmēte giudicossi,
serviva per dare lume à chi in quella entrava, benche poi ripiena di terra, e da sterpi oscurata,
rendeva la piccola Grotta più oscura, e più orrida. Alla mancanza non però della luce del Sole,
che con suoi raggi per tale impedimento ivi entrar non poteva, supplivano i splendori,
benche invisibili, di colei, che fù detta più bella della Luna, ed eletta à risplendere più che il Sole.
Imperciocche nel fondo della Grotta all’incontro di detta finestra era fabbricato un piccolo Altare,
dietro del quale, come anche oggi si vede, era incavata una tribuna di altezza dal suolo
della Grotta, fino alla cima della medesima ventidue palmi, e larga diece,
ed in mezo di quella da dotta mano dipinta alla Greca la Immagine della sempre Vergine Madre di Dio MARIA,
che tiene frà le braccia, e nel suo grembo assiso il Salvatore del mondo,
e suo unigenito Figlio; posa ella i suoi piedi su l’Altare,
ed il Bambino à proporzione su le sue ginocchia.
Avvenne tal scoprimento l’anno 1576. della nostra Redenzione con modo molto prodigioso,
e pieno di Divini misteri. Ed acciocche possiamo darne una chiara notizia al divoto Lettore,
sarà necessario farci d’un passo addietro. È cosa indubbitata (e ne fanno testimonianza le antiche storie,
e tradizioni della detta Città) che l’Apostolo S. Pietro avesse ivi introdotta la Fede,
abbattendo la Idolatria; tanto più che, come si disse, stà in piedi ancora l’Altare,
in cui egli celebrò il Santo Sagrificio della Messa. Ma la Fede da lui ivi piantata,
ò per mancanza di Ministri Evangelici, che la dovevano inaffiare con le dottrine,
ò per altra ignota cagione, restò in progresso di tempo inaridita, ritornando
quei Popoli alla prima infedeltà. L’anno sopraccēnato 492., ò come vuole
il Padre de Franco 474., essendo l’Italia oppressa, e signoreggiata da’ Goti,
apparve S. Pietro à S. Riccardo Sacerdote Inglese di esemplarissima vita,
ordinandogli di trasferirsi ad Andria, ed ivi si affaticasse à ripiantare la Fede cattolica,
essendo così il volere di Dio. Ubbidì il Santo, e portandosi à piedi del sommo Pontefice Gelasio,
che allora occupava la sede Pontificia di Roma, questo consagrandolo Vescovo,
colà inviollo. Gionto ivi il fervoroso Prelato, colla sua zelante predicazione,
e cõ prodigiosi miracoli tolse da quei Popoli le tenebre della infedeltà,
facendo ivi comparire di nuovo la bella luce della Cristiana Fede. In tal tempo dunque,
ò poco di poi, credesi fossero state dipinte le sopraddette Immagini di MARIA,
e di S. Margarita, e di altri Santi del Paradiso.
Per questa cagione divenuta quella Valle venerabile à quei primi allievi della Fede,
si vidde popolata di molti Santi Romiti, che facendo penitenza nell’accennata Grotta,
ed in altre simili, che ivi attorno si veggono, divenne un vero Santoario di Anacoreti.
Ma l’inimico infernale, come avea seminata nel principio la zizania dell’Infedeltà
trà il frumento della credenza, così poi per distornare quelle anime dalla pietà
verso quel Santo luogo svegliò alcuni ladroni, ed assassini, i quali servendosi
di quelle Grotte per loro ricovero, sforzarono quei solitarj à fuggirne,
e distornarono per timore della vita gli altri fedeli dal frequentarle,
in modocche da valle di Santità, divenne un’asilo di ladronecci.
In questo stato trovavasi quella Valle, quando quindici giorni prima di scoprirsi
la miracolosa Effigie di MARIA, venuto à morte in Bitonto, Città di questa Provincia,
un tal Frat’Angiolo de Lellis Religioso Conventuale di gran dottrina, e bontà di vita,
trà quei libri, ch’egli lasciò nel suo Convento di Bitonto, dal Padre Commissario Generale,
ò Provinciale in quel tempo Frà Cristoforo Palmiero da Montepiluso fù trovata
dentro un quinterno una cartolina antichissima, nella quale in lingua latina erano scritte
le seguenti parole: Ibis Andriam, & inde versus Occidentem ibis ad Ecclesiam antiquam
dictam de Sancta Margarita in lamis, ibi invenies duas portas, unam Austrum,
alteram versus Aquilonem. Ingredere portam versus Austrum, & quære sinistrorsum,
& invenies magnum thesaurum.
Ingannato dalle ultime parole il buon Padre, credendo, ch’elleno accennassero
qualche tesoro temporale, consegnò detta cartolina à Frà Donato de Magistris,
acciocche procurasse trovare detto tesoro. Confidò questo il segreto
à D. Prospero Ricca Sacerdote della Chiesa maggiore d’Andria, ed à molti altri Religiosi,
e secolari, li quali ne ferono poi un’attestato pubblico avanti
Monsignor Luca Antonio Resta Vescovo di quella Città, sotto li 7. di Luglio 1592.,
e si conserva nell’Archivio del Monistero edificato poi in detto luogo, come dirassi.
Risoluto finalmente detto Frà Donato di trovare l’accennato tesoro,
mandò un suo fratello detto Natale de Magistris alla detta Grotta per detto effetto.
Vi andò egli, e vedendola così alpestre, ed orrida al di fuori, e dentro così venerabile,
e divota, spaventato ritornossene addietro senza far altro. Di là à pochi giorni
il detto Frate insieme con Maestro Riccardo Sgarri, ed un altro secolare,
al quale si accoppiò Frà Diaspro Guindola Agostiniano, tutti e quattro nativi d’Andria,
entrarono nella Grotta, e volendo scvare per trovar detto tesoro, ne sentirono tutti la pena,
essendo da mano invisibile malamente bastonati: acciocche forse imparassero,
che la scrittura accennata non parlava di tesori terreni, ma celesti,
e quella non era se non una profezia, che animava quelli abitanti
à ritrovare il vero tesoro di quella Immagine Sagrosanta.
E perche la Vergine voleva, che quel Santo luogo fosse venerato cõforme era decente,
per disingannar tutti, volle farlo palese con nuovi prodigj, ed apparizioni.
Vivea in Andria un’uomo di vita esemplare, detto Mastro Gianantonio di Tucchio
d’anni settanta in circa, dell’arte da far Carri, il quale soleva talvolta
andare alla Grotta à fare le sue orazioni. A questo pochi giorni prima dell’invenzione
di quella Immagine trà veglia e sonno più volte comparve una Dama vestita di bianco,
che ogni volta dicevagli, che andasse ad accendere una lampana (ciò che mai era accaduto)
nella Grotticella accanto all’altra di S. Margarita in onor suo.
Alla prima dubbitando egli di qualche diabolico inganno, e di patire qualche discgrazia
simile alla già sopraccennata, come egli avea inteso raccontare, nulla curossi di tali apparizioni,
come appare negli atti della Corte Vescovile d’Andria, essendo Vescovo allora
D. Luca Fieschi, e fù l’anno 1576. registrato al foglio 79.
Finalmente stando egli la notte precedente al fatto nel letto dormendo,
udì picchiare l’uscio della sua Casa, e così gagliardamente,
che destatosi andò ad aprire, e vidde ad occhi aperti la stessa Signora col medesimo abito,
che illustrando l’aria co’ raggi di celeste splendore, senza parlare,
facevagli cenno verso la strada, che conduceva alla stessa valle, e disparve.
Restò fuor di se stesso il buon uomo per lo stupore, e ruminando le passate apparizioni,
passò il restante della notte senza dormire. Fatto appena giorno,
andò a trovare un suo amico, e confidente, detto Annibale Palombino,
raccontandogli quanto gli era avvenuto: né per ciò risolvendosi ad ubbidire
alli comandi della Vergine, questa con più chiara, ed ammirabile sembianza,
eccitò detto Annibale ad operare secondo ella desiderava; imperciocche
(così appare dalla informazione, che se ne prese dal suddetto Vescovo a’ 15 Giugno 1576)
verso la fine del mese di Febbraio del poco fà citato anno, al detto Annibale
una notte dormēdo parve di vedere, che stendo dentro la Grotta avanti la Sagra Immagine,
la Vergine così gli dicesse: Qual grazia vuoi tù da me? In questo destatosi dal sonno,
trovossi tutto bagnato di lagrime: anzi al farsi del giorno gli fù domandato
dalle donne di casa, qual accidente eragli accaduto, mentre tutta la notte
avea pianto dirottamente? A tale domanda non potè celare l’uomo dabbene ciò,
che avea veduto, ed udito, apportando à tutti una eccessiva maraviglia, e divozione.
Portossi egli subito à ritrovare l’amico Gianantonio manifestandogli la sua visione,
e riscontrando trà di loro quanto ad ambedue era avvenuto, risolsero di eseguire
quanto Iddio degnavasi comandare per mezo della sua Santissima Madre. Alli 10.
dunque del seguente mese di Marzo, che fu giorno di Sabbato, accomodata una lampana,
e conducendo seco un piccolo fanciullo di anni sette, detto Giulio di Turrito,
che serviva il detto Annibale, andarono alla sagra Grotta. Entrati in quella
di S. Margarita, trovarono quasi del tutto atterrato quell’arco, per lo quale
entravasi nell’altra Grotta più piccola, e ciò proveniva dalla terra, sassi,
e sterpi rovinati dalla sommità della medesima spelonca. Mà adoperandosi
tutti e trè per togliere quell’impedimenti, ben presto aprirono capace la strada
per introdursi nell’altra, dove avendo trovata la santa Immagine della Vergine,
piegando le ginocchia pieni di celeste consolazione, accesero avanti di quella
la lampana, che aveano già portata, collocandola sul piccolo Altare inalzato
avanti la detta Effigie di MARIA, seguitando poi ad accenderla ogni Sabbato:
mà non potendo ciò fare il detto Gianantonio per la sua povertà, ne restò
l’incombenza al detto Annibale meno bisognoso, e più sfacendato;
onde seguitò egli fino al Sabbato, che fù il giorno 19. di Maggio.
Ma perche si manifestasse con nuovo miracolo il volere di Dio, permise
la divina Provvidenza, che il detto Annibale si scordasse di accendere detta lampana
il Sabbato seguente, cioè alli 26. del detto mese, perche essendo egli
per alcuno urgente bisogno andato alla Terra, detta Curato, sette miglia di là discosta,
non avvertì lasciarne la cura ad altri. Ritornato quindì il martedì,
fugli domandato dall’amico se l’avea accesa come al solito; ed egli
arrossitosi del suo mancamento, rispose, che il Sabbato venturo infallibilmente
averebbe fatto il suo officio. Venuto dunque quel fortunato giorno alli 2. di Giugno 1576.
sedendo su la sede di S. Pietro Gregorio XIII., l’anno quarto del suo Pontificato;
(imperando nell’Occidente Ferdinando d’Austria, secondo di questo nome,
e regnando nelle Spagne Filippo II., Duca d’Andria Don Fabrizio Carrafa,
e Vescovo di quella D. Luca Fieschi), i suddetti due amici, e Compari
andarono unitamente à buon’ora per accendere la detta lampana.
Mà volendo entrare nella seconda Grotta, si avvidero, che dentro era lume,
ed accostandosi al sagro Altare, osservarono, non senza eccessivo stupore,
che la lampana ardeva ancora, tuttocchè per lo spazio di quindici giorni
non vi avessero posto olio. La meraviglia cangiossi immediatamente in tenerezza tale,
che prostrati di faccia à terra, liquefacevansi in lagrime, gridando misericordia
da quella Imperatrice del Cielo, che con prodigio sì manifesto dimostrava
quanto le fosse à cuore quel santo luogo; quindi, avendo sfogati
i loro teneri affetti verso la Vergine, si ricondussero alla Città,
dove à quanti con esso loro incontravansi, palesarono il celeste prodigio,
il che fù motivo di accendere ne’ cuori di quelli abitanti un’ardente divozione verso MARIA.
Accrebbesi questa per un miracolo avvenuto il Mercoledì doppo il Sabbato suddetto,
che avvenne in questo modo. Il predetto Annibale (come egli stesso per atto pubblico
testificò alli 16. di Giugno dello stesso anno) avea un cavallo di pelo bajo,
nella gãba del quale apparve quel male, che dagli esperti vien detto del verme,
né trovãdovi alcun rimedio, avea determinato andare alla Chiesa della Incoronata,
trenta miglia in circa distante da Andria, ove la Beatissima Vergine concedeva
simili grazie con evidenti miracoli. Mà avendo osservato, che la Madre di Dio
nella ritrovata Grotta cominciava à farsi conoscere prodigiosa, presago
del futuro avvenimento, andò con viva fede alla Grotta, e prendendo un poco dell’olio
della lampana già ritrovata accesa, come si disse, ne unse il male del cavallo,
da dove immediatamente uscirono molti vermi, onde in breve restò sano, e senza alcun segno:
quindi egli per gratitudine donò detto cavallo alla Vergine, acciocche servisse alla sua Chiesa.
Ciò avendo inteso il detto Vescovo, ordinò che nell’antica Chiesa si celebrassero le Messe in onore di MARIA.
La fama di questo prodigio non solo si udì in Andria, mà, quel che fù di maggior maraviglia,
si sparse, quasi da voci celesti, per tutto il Regno di Napoli; in modocche
doppo trè giorni comparvero moltissime persone pubblicando diverse grazie ricevute
da quella eccelsa Signora, alla quale per gratitudine portarono molti voti d’argento,
di cera, e tavolette dipinte, come anche apparatri di Chiesa, candele, vesti,
animali, denari in grandissima quantità, e gemme di gran valore, conservandosi
il tutto per ordine del detto Vescovo, quali oggi fan ricca pompa nella nuova Chiesa,
e fan tacita testimonianza quanto sia stata, e sia prodigiosa la Vergine
verso i suoi divoti, e quanto questi liberali nell’arricchirla.
Quindi è, che si diede principio alla fabbrica del maestoso Tempio,
quale oggi si vede descritto distintamente dal P. D. Giovanni di Franco
nella Storia di quella Grotta sagrata, ed io per brevità la tralascio:
come anche lascio di narrare altri miracoli fatti dal Signore ad intercessione
della Vergine in quel santo luogo, avendone il detto Padre dato à luce
una quantità così grande, che se ne potrebbe formare un volume à parte.
Vedendo dunque il sopraddetto Prelato crescere ogni giorno la divozione
de’ Popoli verso quella prodigiosa Effigie, pensò ivi fondare, come eseguì,
una compagnia, ò Confraternita di cinquanta Fratelli, la metà Sacerdoti,
e l’altra Laici, i primi eletti dal Vescovo, ed i secondi dal Magistrato della Città,
mà tutti nobili, e di prima civiltà, acciocche avessero pensiero di custodire,
ampliare, e servire la detta Chiesa, e Grotta, dando loro alcune Regole da osservarsi,
come ne appare pubblico istrumento rogato dal Notajo Federico de Colutiis
nel primo di Gennaio, e confermato dalla felice memoria di Gregorio XIII.
Mà vivendo in quei tempi D. Fabrizio Carrafa terzo di questo nome Duca d’Andria,
e Conte di Ruvo, sotto il di cui governo fù trovata la miracolosa Immagine;
ed essendo egli fino dalla fanciullezza molto affezzionato all’antichissima,
nobilissima, e santissima Religione de’ Padri Cassinensi, frequentando spesso
il loro Monistero di S. Severino in Napoli, pochi passi discosto dal suo Palazzo,
pensò egli consegnare quel luogo à detti Padri, conoscendone il zelo, e la bontà.
Era dignissimo Abbate di quel Venerabile Monistero il P. D. Pietro Paolo da Senesio,
uomo di sperimentata dottrina, ed esemplarità; del che ben informato il Duca,
con esso lui cominciò discorrere del modo da tenersi, per prendere possesso
del santo luogo; come in fatti, superati tutti gli ostacoli, l’anno 1579.
si venne à patti col Vescovo, col Clero, e colla Città per unire detta Chiesa,
e Confraternita al Monistero da fabbricarsi da quei Reverendi Padri, che poi
fù loro confermato dal suddetto Pontefice il mese di Gennaio 1580., il di cui Breve
è stato trascritto, e registrato dal citato Padre di Franco nel luogo sopraccennato;
onde finalmente ne presero possesso pacifico, essendone dichiarato
primo Abbate il P. D. Severino di Montella.
E qui voglio terminare questo racconto con un fatto, quanto temerario,
e sacrilego rispetto alla persona, che lo commise, altrettanto maraviglioso per la Vergine,
contro la quale fu pratticato. La mattina, nella quale principiava
la sollennità del glorioso Apostolo S. Andrea dell’anno 1604., calati
i Padri Sagristani per adornare la Chiesa di Basso, secondo il loro costume,
trovarono la banca, dove scrivevansi le Messe, e si conservavano li denari di quelle,
fracassata, e quelli rubbati. Afflitti per tale accidente, sollecitamente ne diedero parte
al Padre Abbate, il quale facendo chiudere tutte le porte del Monistero, fè venire
avanti di se tutti li serventi per osservare se ne mancava alcuno; ma trovando,
che erano tutti, calò cogli altri Padri alla Grotta, ed aperta la Cappella della Madre di Dio,
nello scoprirsi la cortina, che velava quella sagratissima Immagine, trovarono rubbate
tutte le piastre d’argento, e di oro, e gioje, e quanto avea di prezioso fino al valore
di quattromila scudi. Quanto restassero addolorati quei buoni Religiosi allo scoprimento
di simile sacrilegio, non può la penna esplicarlo; anzi pubblicatosi il furto,
tutta la Città ne restò attonita, e spaventata. Vi accorsero subito il Vicario Generale del Vescovo,
il Governatore, l’Erario del Duca, e molto Popolo, che piagnendo dirottamente,
mostrarono con chiari segni qual fosse la pena de’ loro cuori per tanta perdita.
Datane dunque parte al foro Ecclesiastico, e secolare, il prudentissimo Abbate
fulminò le solite Censure rispetto alli suoi sudditi, come fè anche quel zelantissimo Prelato
in tutta la Diocesi. Né ciò bastando, se ne diede avviso al Signor Duca d’Andria,
allora abitante in Napoli, e questo ne fè subito consapevole il Vicerè,
il quale mandò ordini rigorosi per tutto il Regno, imponendo gravissime pene al reo
di un delitto sì enorme, e premio à chi l’avesse scoperto. Dati questi ordini opportuni
quanto al temporale, il Religiosissimo Padre Abbate, sapendo che solo Dio è scrutatore
de’ cuori umani, à lui ricorse, ed alla sua Santissima Madre, ordinando che si cantasse
ogni mattina la Messa à vicenda di tutte le sollennità della Vergine,
distribuendo à ciascheduno de’ suoi sudditi Sacerdoti il giorno prefisso,
con aggiungervi le Litanie della stessa Vergine, con altre simili preghiere,
non tanto per ricuperare il perduto, quanto per salute dell’Anima del sacrilego ladro.
Anzi alcuni Religiosi mortificarono se stessi con digiuni, ed altre penitenze
per impetrare la divina misericordia. Il medesimo pratticò Monsignor Vescovo,
ordinando si celebrassero messe, si recitassero Litanie, e si pratticassero
altre simili divozioni, il che eseguì volentieri tutto quel Popolo,
vedendo spogliata de’ suoi adornamenti la loro Santissima Madre MARIA,
potendo giustamente piagnere, e dire col Profeta Geremia(ξ.)
Cecidit Corona Capitis nostri, væ nobis, quia peccavimus, propterea mæstum factum est cor nostrum.
Continuarono queste opere pie per lo spazio di giorni diciassette,
né perciò mancava ne’ loro cuori una viva speranza, che la Vergine averebbe finalmente
non solo scoperto il ladro, ma anche ricuperato il tutto, non potendo credere,
che essendo ella prodigiosa co’ suoi divoti, non fosse per essere miracolosa
per se medesima. E così appunto avvenne, avendo ciò permesso la divina Provvidenza,
acciocchè si dilatasse per tutto la fama di quella miracolosissima Immagine,
e si svegliasse in chi non ne avea notizia maggiore l’affetto verso la sua Carissima Madre.
La notte dunque, che siegue alla nascita del Redentore del Mondo, si compiacque il Signore,
che siccome aveano gli Angioli la notte antecedente annunciato alli Pastori
il suo glorioso nascimento in terra, così fosse la notte seguente palesato
à quei Reverendi Padri, che erasi trovato il ladro, e con esso tutte le gioje;
imperciocche alle cinque ore di detta notte giunse al Monistero un Gentiluomo Napoletano,
detto il Dottor Giambattista di Stefano, Giudice allora nella Città di Barletta,
e tuttocchè in quella notte diluviassero dal Cielo nevi cõ freddi intēsissimi,
fec’egli quel disastroso viaggio con dodici soldati per guardia, e servizio della sua persona,
come Commissario sopra tutti li delinquenti di quella Provincia.
Riscaldato, e ristorato dal gran freddo riferì il detto Giudice avere appresso di se
le Gioje della Madre di Dio, e quello, che l’avea rubbate. E spiegãdone il modo disse,
che avēdo egli ricevuta una singolarissima grazia dalla Vergine, avea disposto,
cessate le intēperie della stagione, venire a rēderle li dovuti ringraziamenti;
ma che la sera antecedēte gli era stata fatta istanza da un’uomo di Barletta,
acciocche facesse catturare un certo omicida, che però, tralasciando ogni altro affare,
avea subito inviato un Caporale per questo effetto con molti soldati.
Trovavasi allora l’ignoto ladro vicino al mare, proccurando l’imbarco per Bari,
da dove pensava portarsi à Venezia, e salvarsi; ma in vedere à se vicini i detti soldati,
senza che altri lo interrogasse, mosso dalla propria sinderesi, disse:
Signori hò fatto errore, perdonatemi, il che replicò egli più volte, forte perche coloro,
cercando altri, poco badavano alle sue parole. Ma finalmente uno di quei soldati,
rispose: Quale errore hai tu commesso? e ciò dicendo, vidde, che pendevano
dalle saccocce de’ suoi calzoni alcuni veli con merletti d’oro, che appunto erano
due sopraccalici di detta Chiesa; onde ponendogli le mani addosso, gli disse:
Ah scellerato, queste son cose di Chiesa; al che egli tremando, soggiunse:
Io son quello, che hò rubbate le gioje alla Vergine d’Andria.
Condottolo quindi ligato all’osteria del Procaccio, consegnò egli alcune bisaccie,
dove stavano nascoste le dette robbe preziose, e denari, quali furono consegnate
al Governatore di Barletta, allora D. Rodrigo di Messia di sangue illustre.
Questo, come divotissimo di MARIA de’ Miracoli, pieno d’inesplicabile allegrezza,
fatto cavare dalle bisaccie quanto eravi di prezioso, fè dare alcuni tormenti
al sacrilego reo, non perche rivelasse il furto, già spontaneamente confessato,
ma perche palesasse i complici del suo delitto. Io (rispose) sono stato solo,
né mi ha fatta compagnia altro, che il Diavolo, che mi ha spinto à commettere
questa scelleragine, ed in segno di ciò vedete, che qui stà tutto, il che
non sarebbe avvenuto, se avessi avuto compagni, pretendendone essi la parte.
Osservato, ch’egli diceva la verità, il Governatore interrogollo,
come avesse racchiuso nel cuore tanto ardire di salire su l’Altare,
calpestando co’ piedi quel Sagro luogo, dove ogni mattina calava dal Cielo
il Figlio di Dio Sagramentato? Ripigliò, che per far ciò erasi scalzato,
e genoflesso avanti la Vergine, aveale demandato perdono del furto,
che commetteva, e che con quello non intendeva offenderla in conto alcuno.
Tutto ciò riferì il detto Giudice: e rendute le grazie alla Vergine,
tornossene al far del giorno à Barletta, dove stendendo il Processo dell’enorme delitto,
fù quello condannato ad essere strascinato, indi appiccato, e poi diviso
in quarti ad esempio degli altri. Ma mentre stavasi eseguendo la giustissima sentenza,
lo scellerato palesò esser’egli Religioso Laico professo d’una Religione assai cospicua,
che per modestia si tace; perlocchè fattane giuridica istanza da Superiori Ecclesiastici
per la remissione del Reo al loro foro, fù sospesa la esecuzione della meritata sua morte.
Era egli giovane di circa trent’anni, detto Marco Finò Anconitano,
benche si facesse chiamare Marco da Montella, ed avendo apostatato quattro anni prima,
quattro mesi avanti del commesso delitto cõ fedi supposte di alcuni Religiosi Mendicanti,
venuto al detto Monistero, si offerì à servire la Madre di Dio in quel sagro luogo.
E perche era di aspetto assai modesto, fù dal Padre Abbate accettato per servo,
finche si sperimentassero i suoi buoni portamenti. Seppe l’iniquo Ippocrita
talmente simulare la bontà in quel tempo, che stiede nel Monistero, che ingannati
dall’apparenza quei Padri, lo ammisero all’abito, e l’applicarono al servizio
di quella Santa Casa; che però è verisimile, che in tutto quel tempo egli non facesse altro,
che osservare il luogo, e ruminasse il modo di machinare quell’enorme misfatto, ch’eseguì in questo modo.
Pose egli la sera avanti un grosso sasso trà le due porte di legno,
che chiudevano l’entrata maggiore alla nuova Chiesa verso Tramontana,
lasciandole così socchiuse: indì andò a dormire al forno come soleva.
Alle cinque ore della notte calò per una bassa finestra fuori la strada pubblica,
ed entrando per la suddetta porta, calò per la scala a man destra;
entrò nel tugurio della passione del Signore, ch’era aperto; levò la gelosia,
che chiudeva la finestra à quella dirittura, e con una corda, che seco avea,
calossi alla Chiesa sotterranea; cavò due ferri, torcendoli per forza dalla Ferrata
avanti la Cappella della Madonna, e per quello spazio introdottosi in essa,
salì su l’Altare, e spogliò la Beatissima Vergine dell’accennato tesoro.
Andò indi alla banca delle Messe, e ne tolse tutti i denari alla somma di 200. scudi.
Ciò fatto, cavata la serratura della porta piccola della Chiesa verso Ponente,
uscì fuori, ed andò à nascondere il furto, sotterrandolo in un’altra Grotta
vicina all’Osteria del Monistero; quindi per la stessa finestra tornò
nel forno seguitando à dormire fino al far del giorno. In tutto lo spazio
di 17 giorni figneva di piagnere, e rammaricarsi cogli altri per tale eccesso,
e per far conoscere al mondo dove arriva la malizia d’un’uomo perduto nella coscienza,
ardì nel giorno della Concezzione di MARIA sempre Vergine senza confessarsi,
ricevere insieme cogli altri la Santa Comunione, benche incapace
di assoluzione per la già fulminata scomunica, oltre il delitto
non ancora purgato colla restituzione, come anche dell’Apostasia.
Finalmente doppo alcuni giorni, apportando una scusa leggiera, partì dal Monistero,
portando seco le nascoste robbe fino à Barletta, dove, come si è detto,
permise il giustissimo Dio, ch’egli da se stesso palesasse la commessa scelleraggine.
Ed acciocche ogni uno impari à spese di quello scellerato,
quanto importa à non farsi ingannare dall’inimico infernale,
notaremo qui alcune sue parole, che proferì mentre era rattenuto nelle carceri,
doppo sospesa la sentenza della sua morte. Disse egli primieramente, ch’essendo Apostata,
e per conseguenza in stato di eterna dannazione, gli diede ad intendere il Dimonio,
che non poteva in conto alcuno salvarsi, se non commetteva qualche enorme delitto,
per qualche cagione condannato à morte dalla Giustizia del Mondo,
veniva à salvarsi dalla divina, e perciò disse, che mentre dimorò nel Monistero
di continuo era istigato à tal furto per conseguire tal vana, e fallace salute;
anzi, che la notte stessa più volte si sentì svegliare dal sonno,
e quasi da una voce sensibile udì dirsi: Và eseguisci il furto premeditato.
Di più al Giudice, che interrogollo, come da se solo avesse potuto in sì breve tempo
far tanto? rispose, che era solo, ma sentivasi ingagliardire senza sapere da chi;
potendosi da ciò congetturare, che il dimonio possedendolo, come un altro Giuda,
gli somministrasse forza, e prontezza. E per fine confesso, che avendo tolte le gioje,
e gli argenti d’attorno alla Sagra Immagine, volendo rubbare anche le Corone della Madre,
e del Figlio, parvegli, che l’una, e l’altro acconsentissero al suo furto, chinando la testa;
il che non potè esser vero, solamente fù una falsa apparenza, essendo allucinato dal diavolo,
che lo spronava all’ultima rovina. Furono quindi le dette gioje, argenti,
e denari alli 6. di Gennaio 1605. dallo stesso Dottor Giambattista di Stefano riportate
al Monistero, e da’ Padri con gran giubilo collocate nel loro primo luogo,
cantando in rendimento di grazie il Te Deum laudamus, & c., e una Messa sollenne
à gloria della Vergine de’ Miracoli. Indi il detto Giudice lasciò appeso
ad un pilastro della Chiesa un gran Quadro, in cui vedevasi espressa
una singolarissima grazia ricevuta dalla Vergine, e sotto di esse in un Epitaffio
fù registrato quanto fin ora si è detto à perpetua memoria, ed à gloria di MARIA;
onde conchiuderò col divotissimo Blosio (cimiliar. Endol. I. ad Mar.)
Quis enim Te non amet? quis non colat? Tu enim in rebus dubiis es clarum lumen,
in mæroribus solatium, in angustiis revelamen, in periculis, & tentationibus refugium;
Tu post Unigenitum tuum certa fidelium salus.
Estratta dalla Stora del citato P. di Franco.
[dal “Zodiaco di Maria” – di S. Montorio, per Paolo Severini, Napoli, 1715, pagg. 557-567]