Candidata: Maria Di Corato
Relatori: Prof. L. Bernardi e A. Galluzzi
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Si tratta di due grandi Tavole che in origine dovevano ornare l’altare di San Riccardo, patrono di Andria, o addirittura l’altare maggiore della Cattedrale. Furono ritrovate poco prima del 1964, nella cappella stessa, una sull’altra, che chiudevano un armadio zeppo di reliquiari vari [18]. Era visibile soltanto la Tavola col Cristo, ma dovevano essere state lì collocate di recente, poiché nel 1918 sono descritte come “opposte valve” di un imponente armadio a tre ante. Tale armadio era completamente dorato, in coerenza con il gusto corrente tardo bizantino, e in effetti lo stesso Borsella [19] descrive le Tavole come “pregevoli dipinti di gusto greco”.
Occorre, in questo senso, fare una precisazione: non risulta alcuna testimonianza scritta in proposito, si può quindi supporre che il Borsella si rifaccia ad una tradizione orale; il D’Elia ne è convinto, affermando che l’armadio fu distrutto nel sacco di Andria del 1799. Ciò che appare strano è proprio il fatto che si siano salvate le Tavole, in questo caso; in ogni modo, è sicuro che durante quel saccheggio i francesi entrarono anche nella Cattedrale e depredarono, fra l’altro, la statua d’argento di San Riccardo e la Sacra Spina, che presumibilmente era conservata nell’armadio [20]. La trasformazione delle Tavole in reliquiari si ebbe non prima del 1586, poiché in quell’anno il vescovo Luca A. Resta stampa una “Messa di San Riccardo”, con un elenco delle reliquie allora presenti. Oggi i dipinti sono conservati nel Museo Diocesano di Andria.
Chi ne siano l’autore e il committente è tuttora motivo di discussione; riferiamo, per solo dovere di cronaca, che l’attribuzione certa a Tuccio d’Andria non proviene da profondi conoscitori delle opere del Quattrocento, ma soltanto da Loconte, lo scrittore andriese che ha pubblicato testi scolastici sulla storia patria. L’equivoco nasce indubbiamente dal fatto che le Tavole furono esposte nella mostra di Bari del 1964, sotto il nome di Tuccio d’Andria, ad opera principalmente del D’Elia [21]. In realtà, l’azzardata attribuzione derivava dal recentissimo ritrovamento, tanto che furono presentate in fase di restauro, ancora parzialmente coperte di vernici e dorature che ne alteravano la lettura. Al momento del loro pieno recupero, perlomeno nella componente determinante, fu finalmente chiaro che la qualità dei dipinti era molto alta: essi rappresentavano il maggiore esempio di pittura rinascimentale in Puglia, e dare un nome all’autore appariva impresa molto più complessa che in precedenza. Il D’Elia, stoicamente, rianalizza l’opera e ci riprova [22]: le due Tavole formavano un dittico, “eseguito per Andria e in Andria”, dichiara lo studioso, poiché l’abitato ai piedi del Cristo è “delineato con minuzia e precisione, senza la consueta convenzionalità, con lo spirito di una ripresa dal vero;”. Infatti ben si nota la Cattedrale, accanto alle dimore fortificate dei Del Balzo, che è punto di convergenza di tutto il dipinto. Verso di essa le case sembrano salire, su per la collina andriese, protette dalle fortificazioni. Altri storici dell’arte hanno paragonato questa veduta di Andria alla Avignone di Charonton, ma il D’Elia preferisce accostarla alla veduta di Arezzo di Piero della Francesca. Sembra, dai frammenti superstiti, che l’immagine ai piedi della Vergine mostrasse le campagne andriesi oltre l’abitato.
La componente franco-provenzale, che si nota soprattutto nel Redentore, e di cui il D’Elia aveva parlato in precedenti suoi scritti, non appare più così spiccata, dopo il restauro; l’accostamento a Fouquet, quindi, non è del tutto preferibile a quello con Jaime Huguet o al primo Antonello, e mentre più di un motivo spinge a pensare che la realizzazione dell’opera si avvicini molto alla data dell’esecuzione, da parte del Laurana, del busto di Francesco II del Balzo (1472-74), lo stile e la cultura dell’autore ancor più riconducono al grande scultore, suggerendo lo stesso committente. Tale ipotesi è accettata in pieno da Monsignor Lanave [23], che indica, oltre al Duca, anche il vescovo Florio come patrocinatore. Infatti, da un lato c’era Francesco II che vantava una sorta di patronanza sulla Cattedrale, specie dopo il suo rinvenimento delle ossa di San Riccardo; dall’altro il vescovo Florio che dette il via ai lavori di ampliamento e di sistemazione del Cappellone di San Riccardo, a partire dal 1477; è verosimile, quindi, avvicinare l’opera a questo momento importante della vita della Cattedrale.
In ogni modo, al fine di ben interpretare lo stile e lo spirito dell’autore, è sufficiente collegarsi all’ambiente napoletano tra il ‘70 e 1’80, decisamente armonizzato alla comunione di modi e cultura che caratterizzava tutti i paesi europei affacciati sul Mediterraneo occidentale nella seconda metà del ‘400. Occorre cioè inserirlo nella corrente dei “Primitifs méditerranéens”, e non come comparsa, ma a pieno titolo protagonista ai livelli più alti. Il D’Elia, nella veduta d’insieme del Rinascimento meridionale, lo pone accanto al Laurana, subito dopo Antonello.
L’appartenenza dell’artista al pensiero dei “primitivi”, non la si nota solamente nei tratti e nelle immagini di contorno, ma fa parte dell’opera stessa: le due figure, il Redentore e la Vergine, racchiuse ognuna in una mandorla d’oro, sospese come in un sogno, eppure pienamente consapevoli dello spazio e del volume come ormai imponeva la nuova tendenza di origine toscana. La Vergine addita Andria e, con gesto materno, invita il Cristo a benedire la città; il Redentore accoglie l’invito. Il segno sottile che accenna i contorni del Cristo, il suo irrigidirsi nella benedizione, riportano forse alle miniature franco-provenzali; la risolutezza e maestosità della Vergine ricordano affreschi tosco-romani, e le teste dei cherubini che circondano le mandorle, completamente diversi dai due personaggi, secondo il D’Elia riconducono a strade che incrociano Filippo Lippi e il giovane Mantegna.
Lo storico d’arte, nel suo catalogo del 1964, attribuiva alla stessa mano l’esecuzione del trittico della Visitazione di San Bernardino a Molfetta. Nelle “Miscellanee” ripropone l’accostamento, confermandolo in pieno, e ridiscute la datazione, anticipandola intorno o poco dopo al 1480. A sostegno di ciò, fa notare che la Vergine di Molfetta è identica, come tipo fisionomico, al Redentore, e che, come nelle Tavole, anche nel trittico i personaggi sono “isolati ognuno nel proprio scomparto, legati solo dalla rispondenza ritmica dei gesti”, sebbene il colore si sia fatto più sostanza, almeno nelle ante laterali, più orientate verso Melozzo e Antoniazzo Romano che verso Piero Della Francesca; mentre il pannello centrale ci riporta ai retabli franco-catalani di Napoli, col manto della Vergine ricamato a fiori d’oro e le palpebre socchiuse nel volto delicato. Nella predella con Cristo e gli Apostoli e nei Santini in alto, sopra i pannelli, il colore torna a farsi più prezioso e impalpabile, quasi antonellesco. Facendo una sorta di paragoni, a partire dal segno “inciso più che tracciato”, “le stesse mani”, “lo stesso modo di disporre i personaggi, accostandoli a coppie e tuttavia lasciando ogni gruppo e ogni componente dei gruppi indipendente dall’altro”, “il braccio quasi piatto, stranamente attaccato basso alla spalla”, il D’Elia conclude l’esame dell’opera, allontanando definitivamente 1’ ‘ipotesi Tuccio’ e stabilendo l’impronta napoletana non riconducibile ad altri che al Maestro dei Santi Severino e Sossio.
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[stralcio tratto da “Tuccio da Andria”, tesi di Storia dell’ARTE di Maria Di Corato, Accademia di Belle Arti di Firenze, relatori L. Bernardi e A. Galluzzi, anno accademico 1992-93, pagg. 19-21]
[18] Michele D’ELIA, op. cit., p. 12.
[19] Ibidem, p. 12, n. 4: G. BORSELLA, Andria Sacra, ANDRIA, 1918, p. 96.
[20] P. PETRAROLO, op. cit., p. 108; R. LOCONTE, op. cit., p. 45.
[21] M. DELIA, Catalogo della Mostra dell’Arte in Puglia dal Tardo Antico al Rococò, ROMA, 1964, p. 70.
[22] M. D’ELIA. Miscellanee..., da p. 12 a p. 21.
[23] G. LANAVE (a cura di), San Riccardo protettore di Andria, graf. Guglielmi ANDRIA, 1989, p. 137.