Un interessante studio critico tratto da:
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Notava nel 1892 il primo e più autorevole storico e descrittore della cripta di S. Croce, R. O. Spagnoletti: «Il tufo dové cominciare ad essere scavato dalla strada e dal sito più agevole, cioè il più basso: e quindi di là si procede da mezzogiorno a settentrione. Scavando, si ebbe in animo di non offendere l’oratorio di Santa Croce: e così gli fu lasciata intorno, per sua sicurezza, abbondante spessezza di masso calcareo. Ed è perciò potuto sopravvivere fin oggi, non ostante l’azione nemica del tempo, la noncuranza, l’abbandono e la manìa sciagurata di distruggere o difformare quanto ci sia d’antico e di considerevole fra noi. La cripta dové dunque essere scavata nel seno della collina dalla parte occidentale di essa fra le roccie del carparo, discosta dalla strada e nascosta fra le piante» (I lagnoni e Santa Croce, Stab. Tip. del Meridionale, Bari 1892, p. 14).
Anticamente, «nelle terre di Andria, oltre al fiume Aveldio, v’era il ruscello del Monaco, che dopo le piogge d’autunno si cangiava in torrente, e che seguendo il corso delle alluvioni d’oggidì, per andare a scaricarsi nell’Aveldio, passava a destra di lato ai Lagnoni di Santacroce. Un altro, se non forse ruscello, certamente torrente, passava a sinistra degli stessi Lagnoni. [ … ] Così è spiegato pienamente il nome antico, dato a quella contrada («scoscendimenti», «fossi», «letti artificiali per deviazione d’acque paludose», da Landea, vel Landia, vox in palustribus nota regionibus: a Land, terra, at Eia, aqua; et aquam terrestrem suscipiens: Du Cange). Le acque scorrenti di mezzogiorno formavano una palude, il cui letto si vede dopo tanto volgere di secoli» (R. O. Spagnoletti, op. cit., pp. 5-12). Analogamente, e pur più suggestivamente, a proposito di Massafra e Mottola nella sezione In cerca delle cripte basiliane, Cesare Brandi: «Quelle gravine, sono letti di fiume abbandonati, tombe violate d’un’acqua scomparsa; geologiche e preistoriche, da non riuscire mai a combaciare col nostro usuale calendario» (Pellegrino di Puglia (1960), Bari 1977, p. 163).
L’oratorio-cripta è «di forma basilicale, a tre navatine sorrette da quattro pilastri naturali e terminate da una quarta navatina trasversale. L’altare sorgeva nel mezzo di questa e dietro ad esso si prolungava la navatina longitudinale mediana con un’abside semicircolare; al basso delle cui pareti si vedeano fino al 1888 i segni degli stalli del coro, ricacciati dal masso [ … ] C’indicavano che codesto tempietto non poteva esere anteriore al secolo VIII dell’era cristiana. Si sa nell’archeologia dell’arte cristiana che i cori non furono anteriori a quel tempo [ … ] Da chi dunque doveano, i basiliani, fuggire? dal secolo IX fino alla conquista normanna, cioè ai principii del secolo XI, era frequente l’invasione de’ saraceni in Calabria e Puglia. I monaci, snidati dai loro sotterranei, perivano fra atroci tormenti. Ondeché fuggivano dal litorale e riparavano in siti più solitarii e selvaggi [ … ] Tenuto il debito conto di tutto ciò, si può desumere, che la laura de’ Lagnoni sia stata scavata tra il secolo IX ed i principii del secolo Xl» (R. O. Spagnoletti, cit., passim in pp. 18-25).
Gli affreschi, già in cattivo stato nell’Ottocento, versano oggi in pessime condizioni. Come per la più parte dei dipinti nelle cripte basiliane, i danni dell’umidità e dell’incuria si sono dimostrati enormi: e questo «valga – notava polemicamente il Brandi, certo a questo particolare riguardo – per chi vuole conservare ad ogni costo le cose dove stanno, per i romantici dei ragnateli e del letame» (Pellegrino di Puglia, p. 198).
Quel che ancora si può scorgere e apprezzare e salvare sono, ora, i resti frammentari di una Annunciazione, sulla parete sovrastante l’arco dell’atrio, con angelo, a sinistra, la cui veste, i biondi capelli e le ali gialle sono su fondo rosso, e la Vergine, a destra, dalle braccia incrociate, e il manto il cui colore originario poteva essere azzurro, nella positura inginocchiata sotto un’edicola bianca profilata di nero.
Poi, sul fianco sinistro dell’arco longitudinale destro (il più vicino all’abside) è raffigurato un Santo Eremita, e sul fianco destro dello stesso S. Antonio Abate; mentre sul fianco sinistro dell’arco longitudinale sinistro è effigiato Cristo Risorto e sul fianco destro dello stesso S. Basilio [ndr 1]. «È un santo, vestito di tonaca bianca, con la testa tutta chiusa in un nero cappuccio, dal quale scende fino ai piedi un largo e nero scapolare. Nella sinistra ha un libro, chiuso da lacci di cuoio e con la destra levata benedice a coloro, ch’entrano nell’oratorio. Benedice con la forma liturgica orientale, protendendo l’indice e il medio e piegando il pollice sull’anulare e il mignolo abbassati. Questa figura si disegna severa e triste, come l’anima dei cenobiti: essa pare, che ti sospinga dalle malinconie del tempo ai terrori dell’eternità» (R. O. Spagnoletti, cit., p. 21). Anche se sfregiato da firme, come nella cripta di Gravina, «un po’ di laceri affreschi, ed assai più firme e tanti cuori trafitti» (C. Brandi, op. cit., p. 190).
La tipologia è bizantina, meno che nell’Annunciazione, con qualche citazione o influenza o suggestione trecentesca. Quasi come a Massafra, nelle cripte di S. Maria della Scala («con mediocri affreschi trecenteschi: e io invece cercavo quelli, in genere assai più brutti, più rozzi, più elementari, ma bizantini») e della Candelora («La Madonna porta a spasso il Bambino»: C. Brandi, cit., pp. 165-167).
L’influenza bizantina, con qualche timida novazione prospettica, si avverte anche nel Cristo in maestà fra S. Pietro e S. Paolo, sulla parete di fondo dell’abside sinistro, a volte protetto da una impalcatura lignea: là dove il Cristo, con nimbo e crucifero, siede in un trono decorato con fiori, indossa una veste rossa con manto giallo, in atto ieratico di benedizione, e reggendo con la sinistra un libro posato sulle ginocchia secondo il tradizionale schema bizantino. «Le figure sono, è vero, senza risalto pittorico e su fondo duro e monotono; - osserva ancora lo Spagnoletti per la più parte di codesti dipinti - ma il disegno è corretto e le tinte sono assai vive e tali da avere sfidati i secoli. Non possono dirsi senza pregio ed una certa loro propria venustà quelle figure di santi dagli occhi molto oblunghi, dalla fronte austera, dal profilo secco e sottile, dall’aspetto rivelante pietà, rigidezza e misticismo» (op. cit., pp. 20-21). Della Santa Dorotea, a lato dell’ingresso, nel fianco dell’arco, non resta che la testa graziosa dai capelli biondi ricadenti in ciocche inanellate, con veste rossa, e due cesti di fiori tra le mani, pressocché invisibili. Ci ricorda l’impressione del moderno viaggiatore, nel tempo oltre che nello spazio, a Gravina, nella chiesa rupestre di San Michele dei Grotti: «È codesta cripta, a cinque navate tutte scavate nella roccia, fredda e nera, illuminata come una prigione. Gli affreschi, che dovettero essere notevoli, sono ridotti alle tre teste di una Deesis: per caso raro, ovvero per l’umidità ascendente, è perito il resto e sono rimaste le teste. E in quel buio e in quell’umido, quasi sembra che galleggino» (Pellegrino di Puglia, op. cit., p. 185).
Sulla parete sinistra della navata destra è effigiato il B. Urbano V, nimbato con triregno e seduto su un ricco trono in prospettiva, benedicente con la destra e reggente con la sinistra un calice a navicella, adorno di tre gigli angioini e contenente le teste mozze di S. Pietro e S. Paolo: non privo di vivacità coloristica, per le pennellate azzurre che accennano il panneggio della tunica bianca, mentre altre rosa sottolineano con finezza il ritmo delle pieghe.
Una tipologia bizantina più mossa e addolcita, non priva di una calda e parlante sensitività popolaresca, si nota nella Crocifissione dell’archivolto dell’atrio, e maggiormente nel Compianto del Cristo in croce, con le Marie a sinistra S. Giovanni a destra e la Maddalena ai piedi di Gesù stillante copioso sangue da ogni parte del corpo: in un impianto prospettico già dinamico e ruotante, mercè i gesti trepidi delle figure, la vivacità intensa delle espressioni e degli sguardi che correggono in una tonalità più naturalistica la rigida frontalità dell’iconografia bizantina (sulla parete di fondo delle navata destra). «Anzi nel più di questi dipinti si è costretti a presentire non lontana l’alba che precedé allo splendido giorno del rinascimento dell’arte», eloquentemente vedeva e voleva lo Spagnoletti (p. 23). E chi ricordi il pathos eloquente della masaccesca Crocifissione, dal polittico già al Carmine di Pisa (1426) poi a Capodimonte di Napoli, può anche indursi audacemente a sospettare nell’accoratezza del ductus lineare e dinamico del compianto andriese la mano di un artista colto o non ignaro d’arte rinata, o partecipe e comunque coevo delle sue prime prove, che abbia ritradotto sermo illustris in sermo cotidianus: negli stessi anni, allora, di Francesco II Del Balzo, riformatore di molteplici altri usi civili e religiosi e «reiventore» - con operazione culturale non dissimile - della leggenda di S. Riccardo, patrono locale.
Ancora più importante, anche se ora illeggibile, la Creazione di Eva, sull’altro lato dell’abside: dalla costola di Adamo, disteso lungo per terra, un caldo nudo femminile inginocchiato dalle lunghe chiome nere con seni e capezzoli ben torniti in evidenza, di fronte a un trono solennemente trapunto di fine decorazione geometrica, nel quale è assisa la SS. Trinità, Padre e Figlio come due teste di una unica figura ieraticamente ammantata in un peplo diviso in doppia lista sul petto e sollecitante il levarsi di Eva, e la colomba simboleggiante lo Spirito Santo stretta alle immagini delle tue teste. Quasi inserto esemplare di principii bizantini e sensualità popolaresca, astrazione e concretezza, simbolismo e naturalismo, rigidità e movimento.
Allarghiamo ancora un poco, audacemente ma non pretestuosamente, gli orizzonti.
Sempre Cesare Brandi, descrivendo il suo viaggio a Mottola, in cerca della chiesa di S. Nicola, inattesa dietro ulivi e macigni, scriveva nel ‘60:
«Queste rocce con le cripte poi nascono all’improvviso: pochi passi prima non si direbbe neanche ci fossero le rocce,
nonché le cripte. Sono gli ulivi che le dissimulano, è l’anatomia stessa del paese che intuitivamente si assimila:
il fatto sta che anche qui, ad un tratto, dalla uliveta irregolare dove ci si trovava,
si giunse a dei bei massi arrotondati che facevano come un largo ingresso a una corta valletta.
- Di colpo mi sentii in Anatolia. Ritrovai l’ingresso del tempio ittita di Jazilikaia a Bogazkoï,
dove i rilievi furono scolpiti direttamente sulla roccia grigia marezzata di licheni.
La somiglianza era insolita … » (Pellegrino di Puglia, p. 169).
Ma all’oriente, non pur bizantino né anatolico, bensì indiano, si riconduceva nel ‘77 lo stesso Brandi, certo per suo conto, ma sul filo di un «taccuino di viaggio» che, per analogie paesistiche temporali iconiche, finisce per proiettarsi retrospettivamente sul «pellegrinaggio di Puglia», crogiuolo di civiltà che attrae tanto più lo studioso che dell’accattivarsi e mescersi reciproco delle più disparate esperienze formali si sia reso maggiormente ghiotto: «Ajanta non è solo le sue pitture, famose, famosissime e in uno stato così precario, ma il luogo stesso è impressionante, questo enorme burrone lapideo, con le pareti quasi a picco, a andamento curvo, nel cui fondo dovrebbe scorrere un torrente, e dove, quando l’ho visto io, non c’era che una frantumata pozzanghera azzurra [ … ] L’impressione di queste pitture, purtroppo malconcie, fu quasi subito notevole e non ha fatto che ingrandire con gli ultimi tempi. La cosa che più le rende importanti e quasi misteriose, è che né prima né dopo si trova pittura in Italia, e, in quello scorcio di tempo, fra il primo secolo avanti Cristo e il sesto secolo dopo, c’è di pittura tanto poco ovunque che la testimonianza che recano, se è più preziosa, è anche più problematica [ … ] Di colpo ci troviamo di fronte a queste pitture di Ajanta la cui flessione plastica è estremamente unitaria e omogenea, pur nelle differenze di mano e nei salti dei secoli. Prendiamo il famoso Bodhisattva della misericordia, raffigurato nella prima grotta di Ajanta con il fiore azzurro di loto: non è la pittura più antica, ma la più sintomatica. Il contorno è deciso ma senza rigidezza e manca di un riferimento rigoroso al piano, è piuttosto un’immagine schiacciata, ma densa, non laminare. La contrapposizione di figura a fondo risulta quindi graduata e non esasperata. La larga superficie del corpo nudo si condensa luminosamente entro il limite dei contorni come se si rassegasse: non si solleva, non emerge, ma neanche si colloca a livello del fondo. Quindi, senza nessuna sostanziale asserzione di volume, il corpo nudo è corpo e non è lamina [ … ] In una concezione plastica simile è inutile e dannoso sovrapporre una visione occidentale della spazialità: in nessun senso c’è una ricerca prospettica, perché non c’è mai uno scaglionamento di piani, c’è solo un rapporto di figura a fondo, in cui né il fondo né la figura sono geometricamente ridotti a superficie . Le differenze di proporzioni fra le figure hanno una ragione di importanza narrativa non spaziale, come del resto avviene anche nell’arte occidentale del Medio Evo. Se dalla grotta I si passa alla XVII, la più ricca, senza dubbio troviamo dei cambiamenti importanti, ma bisogna vedere quali. Prendiamo un’altra figura famosa, quella della dama quasi nuda, con i seni esposti, la mano sinistra sotto il mento e quella destra che si appoggia al piede. Qui la delineazione è ancora più incisiva, il tratto è inflessibile come una xilografìa, ma non è rigido: la bellezza formale di quel braccio nudo, quasi lussato, con la mano che tocca il calcagno, fa ricorrere il pensiero addirittura alla pittura giapponese: il risparmio, la precisione c l’innaturalezza di quel braccio è incomparabile. Qui il chiaroscuro è come scomparso, riassorbito nella tonalità scura del corpo, ed è la linea a tenere a galla il volume senza che si schiacci sul fondo [ … ]. Non credo che si possa invocare qualche influsso bizantino, ma come anche l’arte bizantina è una confluenza di tendenze figurative che si producevano ai margini dell’arte classica ufficiale, così è lecito pensare che alcune di quelle tendenze siano pervenute anche in India, magari restando in sospensione» (Budda sorride, Torino 1973 e Il mistero delle pitture indiane. Dal taccuino di viaggio di Cesare Brandi, «Corriere della Sera», 11 maggio 1977, p. 3).
A parte il problema della reciproca interferenza tra pittura bizantina e pittura indiana, che implica, più probabilmente e precisamente, nel nostro caso, una mediazione e un passaggio tra iconologia indiana e iconologia bizantina, - e oltre le notevoli e ovvie differenze di epoca civiltà figurazione - la precedente ed estesa citazione giova a consentire un opportuno richiamo tra la positura della figura femminile nella grotta XVII di Ajanta, pittura al par dell’altre «famosissima» e oggi in stato precario, e quella di Eva suscitata dal costato di Adamo nell’affresco della cripta pugliese, di almeno sette secoli posteriore. Positura identica nell’orientamento del corpo, nell’esposizione decisa del seno nudo qui parzialmente protetto dall’arco ben diversamente modulato delle braccia levate, nel profilarsi consimile - per quanto attestano le riproduzioni - del volto naso labbro. Dall’antico Oriente indiano alla cultura basiliana e bizantina, alla Puglia medioevale dunque: le «pitture famosissime», nella loro evidente impronta iconica e figurazione complessiva, poterono ben percorrere codesto articolato e non del tutto insospettato tragitto ideale.
Ma che non si tratti di una deduzione congetturale bensì, ma puramente chimerica e astratta, sollecitata vuoi dal «tempo» interiore dell’odierno critico e viaggiatore vuoi da una pur legittima ricognizione formale di tipo particolare, lo dimostra già l’analisi del primo storico citato, allorché, descrivendo l’escavazione nella massa tufacea della cripta pugliese, opportunamente di questa forma rammentava: «È uno dei quei tempii, che il cristianesimo inadulto avea nelle forme materiali imitato ai tempii a grotta, detti wiswakarma, dei buddisti, osservati specialmente sui monti Ghat» (R.O. Spagnaletti, op. cit., p. 14: 1892). E citava a sostegno il vecchio manuale di Hugler, Storia dell’arte, p. 112 a proposito di codesta civiltà delle grotte («scavate a mezza costa lungo una stretta cornice con vari dislivelli», per esempio in Ajanta vista da Brandi, o sparse per la campagna «intorno e per non breve circonferenza, le più messe in fila e di poco lontane l’una dall’altra» in Andria medioevale: Spagnoletti, idib.), comunque care ai monaci che in occidente portarono la loro «civiltà», adeguandola al sito e alle difensive esigenze vitali.
[L’autore, il Brescia, in calce a questo studio pone una corposa “Bibliografia essenziale”]
[tratto da Giuseppe Brescia, “Una politica per i beni culturali di Andria”, in “Andria Fidelis”, quaderni di storia andriese, tip. Domenico Guglielmi, Andria, gennaio 1982, pp. 7-28.]