Nicola Montepulciano, amico ambientalista, il 1° novembre 2020 ha pubblicato su “Andriaviva” la prima parte della seguente ricerca su “La Tessitura Sterlicchio, un’antica fabbrica non più esistente”, importante per l’approfondimento storico degli aspetti socio-economici della nostra Città.
Si riporta in questa pagina tale interessante ricerca, completa dei dati sulla famiglia che nei due secoli scorsi, XIX e XX, ha “animato” l’attività tessile cittadina, onde poter eventualmente attingere nuove informazioni e così ampliare l’orizzonte di questa conoscenza e tradizione storica [1].
di Nicola Montepulciano, ambientalista
Nella nostra città, sino alla fine degli ultimi anni Sessanta del Novecento, vi era una fiorente industria tessile creata dal sig. Vincenzo Sterlicchio.
Nato in Andria il 30 agosto 1892 da Giuseppe (1859 – 1941) e Nicoletta Bartolomeo (1865 – 1915), lavorò probabilmente sin da giovane nella piccola attività tessile paterna, che poi ereditò e ampliò fino a realizzare un vero e proprio opificio. Sposò Grazia Sgaramella, che, nell’ambito dell’opificio, divenne solerte e fattiva collaboratrice. È molto probabile che il padre di Vincenzo, Giuseppe, abbia iniziato la sua attività tessile come filatore o tessitore, poiché in quell’epoca in Andria, come in buona parte della Puglia, si coltivava il cotone.
[I due fondatori dell'opificio: Vincenzo Sterlicchio e Grazia Sgaramella]Da ricerche archivistiche sappiamo che nella nostra città molte persone, prevalentemente donne, si dedicavano alla filatura del cotone.
Che in Andria si coltivasse cotone lo si deduce dal libro “Briganti di Corato. Cronache dal 1806 al 1865” (Pasquale Tandoi – Dic 1994), dove a pag. 142 si legge: «Quella gente andò via sulla strada che mena alle murge ed io invitai il contadino Salvatore Balducci, che stava raccogliendo bombacia (cotone) lì vicino (masseria Rivera, Andria) a venire … (8 ago 1863)».
Vi sono comunque vari testi che ci dicono che in Puglia si coltivava, sin da epoche antiche, cotone.
Nel libro di Scipione Mazzella “Descrittione del Regno di Napoli …”, capitolo “Terra di Bari, ottava provincia del Regno di Napoli”, a pag. 206 dell’edizione pubblicata nel 1597, si legge: “La fertilità e bontà di questa Provincia è molto grande, percioché produce grano, vino, olio, fave, ceci … bombace (cotone)”.
Anche nel libro “Nel Regno di Napoli: viaggi attraverso varie province nel 1789” del conte svizzero Carlo Ulisse de Salis Marschlins, da pag. 117 si descrive la coltivazione del cotone in Puglia e precisamente in tutta la provincia di Taranto, dalla semina fino alla maturazione, settembre, quando si formano le “capsule” «… il primo procedimento dopo il raccolto consiste nel separare il cotone dal seme, e viene praticato per mezzo di una macchinetta [sgranatrice] chiamata “manganella” o “scanella”», che riporta in disegno a pag. 120.
[Il disegno della sgranatrice di cotone nel libro e la stessa macchina de Nicola Montepulciano]Anch’io, che descrivo questa ricerca, possiedo questa “macchinetta” (spero che non sia un esemplare rarissimo) e ve la mostro in fotografia. Questa, insieme alle ricerche archivistiche relative alle donne filatrici e alle fabbriche tessili del cotone, dimostra che in Andria si svolgeva il processo completo che riguarda il cotone (semina, coltivazione, produzione, estrazione, filatura e lavorazione successiva sino alla formazione dei vari manufatti tessili).
La coltivazione del cotone dalla fine del 1800 cominciò a diminuire fino a cessare man mano del tutto e questo per vari motivi, fra cui “spaventose siccità” che cominciarono a verificarsi proprio a partire dalla fine del 1800, a causa dei pazzeschi abbattimenti di boschi, avvenuti fra il 1860 e 1880, che nel territorio di Andria comportò la distruzione di 6000 ettari di bosco, nella provincia di Bari ne causò la perdita di oltre 30.000 ettari. Verosimilmente in tutta la Puglia andarono distrutti circa 100.000 ettari fra boschi e macchie boschive. Il cotone ha bisogno di acqua nel periodo primaverile per poi maturare nel periodo estivo. Ma “le prolungate siccità”, allora come adesso, non portavano acqua né in primavera, né in estate. Vi è poi da aggiungere l’invenzione delle fibre tessili artificiali che sconvolse il secolare mercato.
L’opificio “Tessitura Sterlicchio” fu costruito nel 1912 in Viale Trentino n° 21 ed esiste, come struttura muraria, ancora oggi. Aveva una superficie di circa 700 mq su piano terra, dove c’erano un orditoio ed una ventina di telai meccanici (attrezzature comprate in Svizzera dalla madre di Vincenzo Sterlicchio, Nicoletta Bartolomeo) per la tessitura, onde ricavarne stoffa.
[La palazzina dell'opificio al giorno d'oggi (03/12/2020)]Inoltre, comprendeva un’ala destinata alla tintoria dove un tintore (Giuseppe Sterlicchio, fratello di Vincenzo) tingeva le matasse di puro cotone grezzo, importato anche dall’Egitto, in balle, uno dei migliori al mondo. Sempre a piano terra vi era anche un grande reparto per la vendita della stoffa al dettaglio e all’ingrosso. Nel reparto tintoria le matasse di cotone grezzo venivano “cotte”, sbiancate e poi tinte con vari colori naturali in grandi vasche di cemento, appositamente costruite. Successivamente le matasse venivano trasportate su un ampio terrazzo dove, su apposite travi di legno, erano messe ad asciugare all’aria aperta.
Una volta asciugate le matasse passavano al reparto filatura, che consisteva nell’accoppiare e ritorcere diversi fili di cotone al fine di ottenere, sotto forma di fusi e rocchetti, i fili necessari per la tessitura.
La tessitura vera e propria consisteva nell’incrociare una serie di fili tutti uguali disposti in senso longitudinale, che costituivano l’ordito, con fili trasversali che venivano inseriti nell’ordito per mezzo delle navette e che costituivano la trama. Questa operazione veniva effettuata mediante telai meccanici, detti Jacquard, dove una scheda perforata comandava il movimento dei licci permettendo l’esecuzione di disegni vari. Man mano che il lavoro procedeva c’era lo srotolamento dell’ordito e l’arrotolamento del tessuto realizzato. L’ultima operazione era la finitura del tessuto con l’eliminazione di fili superflui. La stoffa veniva poi arrotolata per essere messa in vendita.
Si producevano stoffe per confezionare i materassi con una vasta gamma di colori e disegni; il tessuto era molto resistente. Inoltre si tessevano tovaglie rustiche, copertine, strofinacci e un tessuto chiamato “rigatino”, di colore blu, molto resistente (simile alla tela “blue jeans”), che serviva per confezionare pantaloni da lavoro, molto richiesto da contadini e operai meccanici. Una signora dell’alta borghesia di Andria, nei primi anni Cinquanta del secolo scorso acquistò questa tela per confezionare pantaloni per i propri figli, destando molta sorpresa nel sig. Vincenzo, che, evidentemente, non sapeva che era da poco nata la moda dei pantaloni blue jeans. Forse i figli della signora furono fra i primi a seguire la moda jeans nella nostra città.
L’opificio comprendeva anche un’officina meccanica per la manutenzione ed eventuale riparazione dei macchinari in caso di guasti, affidata al sig. Giuseppe, fratello di Vincenzo titolare della fabbrica. Insieme al capo meccanico lavorava un aiuto meccanico di nome Riccardo. Il sig. Giuseppe realizzava anche i disegni e controllava che le varie schede permettessero di ottenere i diversi tipi di stoffa progettati; gestiva inoltre la contabilità dell’officina e del reparto tessitura. Le stoffe venivano inviate in diverse città italiane, compresa Genova. Il sig. Vincenzo si occupava della contabilità finanziaria e la moglie Grazia della vendita commerciale.
In questa industria tessile lavoravano circa 50 operaie, alle quali non era richiesta l’istruzione ma la precisione e l’impegno. Svolgevano otto ore di lavoro al giorno, distribuito fra mattina e pomeriggio, dal lunedì al sabato. Erano retribuite a dovere con versamenti di contributi (che all’epoca venivano chiamate marchette). Quando decidevano di sposarsi, si licenziavano e veniva versata la “buonuscita” (oggi chiamata “Trattamento di Fine Rapporto”) ed in più avevano in regalo la stoffa per realizzare quattro materassi.
[Vincenzo Sterlicchio con le figlie Angela e Giuseppina]Nel mese di maggio le operaie smettevano di lavorare mezz’ora prima per la recita del Rosario, davanti ad un altarino con la statua della Madonna, guidato (come ci riferisce la signora Susanna Del Monaco) da sua nonna Grazia, che tanto collaborava alla conduzione dell’industria.
Negli stessi anni, oltre alla tessitura di Vincenzo Sterlicchio, operava, sempre in Andria, la tessitura di Domenico Sterlicchio (fratello di Vincenzo) con la collaborazione della moglie Giovina Antolini; la sede era in via Torquato Tasso.
La tessitura di Vincenzo Sterlicchio, che molto incrementò l’economia andriese dando lavoro ai cittadini andriesi sia direttamente che indirettamente (oggi si direbbe “indotto”, es.: venditori delle lane per materassi e cuscini, materassaie, etc.), fu chiusa alla fine degli anni sessanta, non essendoci eredi maschi che potessero continuare l’attività. I macchinari furono tutti rottamati, non se ne salvò uno. Questo ha determinato la perdita della memoria di questa benemerita industria locale; non vi sono, purtroppo, neanche fotografie dei macchinari e delle maestranze dell’opificio intenti al lavoro.
Termina così la generazione degli Sterlicchio tessitori che ha impegnato la sua vita nel lavoro onesto. Tuttavia, questa ricerca costituisce una vera e propria testimonianza, sia pure essenzialmente verbale, poiché è stata possibile grazie al minuto e preciso resoconto della gentilissima signora Susanna Del Monaco, figlia di Nicoletta Sterlicchio. La signora Del Monaco, che ha ereditato una parte dello stabile in cui vi era l’azienda tessile, da giovanissima prestò la sua opera nella fabbrica del nonno. Un’altra preziosa testimonianza è stata offerta dall’amico gentilissimo signor Antonio Carlo Sterlicchio, figlio di Giuseppe, manutentore dei macchinari dell’opificio tessile.
A loro va il mio sentitissimo GRAZIE.
- Vincenzo Sterlicchio e Grazia Sgaramella ebbero quattro figlie: Nicoletta, Maria, Giuseppina, Angela;
- Nicoletta Sterlicchio andò sposa al Dott. Nicola Del Monaco, Farmacista;
- Maria Sterlicchio andò sposa al Dott. Francesco Vista, Avvocato;
- Giuseppina Sterlicchio andò sposa al Dott. Vincenzo Milano, Chimico;
- Angela Sterlicchio andò sposa al Dott. Giovanni Gammarrota, pure Chimico.
Come su detto, Vincenzo Sterlicchio cessò l’attività industriale poiché non aveva figli maschi. Decisione dettata dalla mentalità dell’epoca, prima metà del 1900, quando si riteneva che le donne, chissà perché, non potessero assumere ruoli imprenditoriali e decisionali. Si rischiava, così, di perdere la memoria di quella benemerita industria tessile locale.
Per vari motivi, però, il rischio è scongiurato. Due testimonianze dirette, già riportate, hanno permesso di descrivere il funzionamento e la conduzione, cioè la vita, dell’opificio. E la signora Grazia Milano, figlia di Giuseppina Sterlicchio e del Dott. Vincenzo Milano, ha rinvenuto, fortunatamente, in uno stanzino sul terrazzo della casa delle sorelle Sterlicchio in Viale Roma, due rocchetti presi dalla madre dall’opificio del padre Vincenzo fondatore. Ripuliti, li conserva per ricordo e sono qui mostrati in fotografia. Conserva pure tre foto del nonno Vincenzo, una delle quali lo ritrae con due delle sue figlie: alla sua destra è Angela, a sinistra Giuseppina.
[i due rocchetti della tessitura conservati a ricordo ed il Crocifisso degli avi donato alla Cattedrale]Si è detto anche che i coniugi Sterlicchio erano religiosi e nel mese di maggio facevano cessare mezz’ora prima il lavoro per recitare con le maestranze il Santo Rosario guidato dalla signora Grazia. Difficilmente, allora come oggi, si poteva osservare un simile comportamento. Nella camera da letto era tenuto un Crocifisso che la signora Grazia ereditò dallo zio canonico Francesco Sgaramella; la famiglia Milano ha donato il Crocifisso alla Chiesa di Andria ed attualmente si trova in Cattedrale nella cappella dedicata a Mons. Di Donna, per loro espressa volontà. Così la città di Andria, per un gesto munifico, è più ricca, probabilmente, di un’opera d’arte.
Ma per tornare alla memoria dell’attività tessile un aspetto, che ci consente di non perderla, ci è dato dal fabbricato dell’opificio ancora esistente in viale Trentino, 21, che ha attratto la mia curiosità sin da ragazzino per due motivi, da grande per altri. Mi attraeva l’indicazione dell’attività produttiva rappresentata dalla scritta “TESSITURA STERLICCHIO”, ora non più esistente, e il continuo rumore che percepivo distintamente dall’esterno e che mi piace riprodurre onomatopeicamente: zumzum-zumzum-zumzum … .
L’edificio, a mio parere, ha alcune caratteristiche dello “Stile Liberty”, che si sviluppò fra la fine dell’Ottocento e nelle prime decadi del Novecento. Era applicato non soltanto alle abitazioni, ma anche agli opifici, alle strutture sanitarie come le terme, cinema e teatri. Talune costruzioni di questo stile hanno l’ingresso ad angolo e tale era l’ingresso dell’opificio, altre hanno forme tondeggianti di alcune strutture come i balconi semicircolari che possiamo vedere. Un’altra caratteristica “Liberty” è costituita da un bassorilievo scolpito sul marmo del balcone sull’ingresso angolare, ben visibile, indicante l’attività produttiva nell’opificio. Il “bassorilievo-simbolo” riporta un fuso con l’asse terminante a gancio e circondato da un nastro di stoffa. Vi si legge, inoltre, la parola latina “labor”, divisa nelle due sillabe, “LA” e “BOR”, dal fuso posto in mezzo. Il balcone con il bassorilievo scolpito in un fondo tondo è l’unico non semicircolare.
[Il balcone ad angolo con lo stemma dell'opificio e lo stemma dell'opificio in bassorilievo sul balcone]Sull’opificio vi è l’abitazione con ingresso laterale in viale Trentino dove, internamente, si può osservare la bellezza di questo Liberty. Non indugio sulla descrizione della casa, mi soffermo solo su ciò che si vede appena superato l’ingresso: nell’androne vi è una stupenda, bellissima scala, sinuosa, larga e tutta in pietra levigata di Trani, che porta alla abitazione altrettanto bella. L’androne, ora diviso due parti, lascia intuire la grande ampiezza originaria, e se l’altezza riferita alle persone è metà bellezza, pure l’ampiezza riferita alle cose è metà bellezza. È facile, allora, immaginare la bella veduta panoramica offerta dalla stupenda scala e dall’enorme spazio quando era ancora integro.
Ritengo infine che questa costruzione meriti di essere classificata come “storica” e come tutte quelle classificate in questo modo non potrebbe mai essere abbattuta o essere modificata neanche esternamente. Se si fosse conservato l’assetto originario avrebbe potuto ospitare mostre, convegni e manifestazioni simili.
[I due testi e le immagini mi sono stati forniti dall'autore Nicola Montepulciano nel novembre del 2020.]
Note
[1] Per inciso è da sapere che nella seconda metà degli anni Sessanta del Novecento era attiva una relativamente grande tessitura con telai Jacquard in un capannone sulla sinistra di Via Canosa, dopo l'incrocio con viale Ausonia.