racconto di Vincenzo D’Avanzo
U bammnid cresceva sano e robusto, il che non era scontato nel dopoguerra.
Lo chiamavano u bammnidd perché una vigilia di Natale fu vestito sull’altare dalla carità della parrocchia.
Abitava nei pressi della chiesetta di Gesù di Misericordia (una laura basiliana poco conosciuta anche perché deformata
dai rifacimenti lungo i secoli, soprattutto l’ultimo per la facciata- osservare le due foto) dove cominciò
a servire messa a un parroco avaro di caramelle, anche se poi dimenticava spesso il sacchetto sul bancone della sacrestia.
Come tutti i ragazzi amava il gioco e quello preferito era pris i libr, favorito anche dall’ambiente naturale.
Infatti giù alla collinetta di Gesù di misericordia c’era un’altra laura basiliana ben più famosa: Santa Croce.
L’attuale chiesetta era allora circondata da altre grotte collegate tra loro: qui era facile nascondersi sia per il gioco
sia per sfuggire ai genitori quando ti rincorrevano con il battipanni. Era un labirinto che solo i ragazzi conoscevano bene.
[Cristo di Misericordia, anni "90]
Passò il tempo i Pppnidd diventò Pppein. Alle grotte cominciò a dare appuntamento alla morosa
che abitava proprio nella piazzetta di Gesù di misericordia: era facile per entrambi scendere attraverso nu strataun sgangherato
e con notevole pendenza. Si vedevano, si scambiavano due parole, rubacchiavano qualche bacio e via per non essere sorpresi.
Eppure un giorno capitò che mentre stavano abbracciati dietro un pilastro di tufo arrivò il padre della fidanzatina
pu scrscioit mmoin urlando come un invasato: qualcuno aveva fatto la mbamtoit.
Per fortuna i ragazzi conoscevano meglio il labirinto e non si fecero prendere.
Pppnidd provò anche a negare il giorno dopo quando incontrò il padre della ragazza che gli comunicò che la figlia non sarebbe uscita più da sola.
Alla fine dovette ammettere il “reato”, dichiarando, però, che aveva intenzioni serie.
Il sacrestano “avvisò” subito il padre di Pppein che se la cavò con il tradizionale:
‒ C s voln bein piaciair foic.
Il padre della ragazza era un tipo molto popolare nella zona. Faceva l’imbianchino ma anche il sacrestano sia nella piccola chiesetta,
dove però si celebrava solo la domenica, sia nella chiesa delle Croci, con qualche sorpresa tra le bizzoche perché costui era vangilist.
Ma il parroco lo difendeva spiegando alle pie donne che tutti devono poter mangiare.
Solo che un anno il sacrestano per poter arrotondare andava dicendo per le case che stava per arrivare la fine del mondo
invitando tutti a prepararsi, ottenendo in cambio per questo servizio informativo qualche uovo, un po’ di pasta e quant’altro.
Fu proprio Pppein, preoccupato della fine dell’amore con la fidanzatina a causa della fine del mondo,
che riferì la faccenda al parroco e costui convocò immediatamente il sacrestano che si presentò già piangendo:
‒ Ioie nan dceiv ca avva mnuie la fein du munn ma ca put mnouie.
Il parroco si fece promettere che non l’avrebbe fatto più. Il salario del sacrestano era il pagamento della sedia da parte di chi si sedeva in chiesa:
5 lire a persona. A questo si aggiungevano le regalie varie in occasione di matrimoni, battesimi, funerali ecc.
Per far vedere al parroco che si era pentito veramente la domenica successiva non raccolse le 5 lire dalle persone a cui aveva tolto l’uovo o la pasta.
Questo gesto di correttezza trovò l’approvazione di tutti, ma cacciò nel ridicolo quelli che erano caduti nel tranello burlati per l’ingenuità.
Pppein intanto era diventato venditore ambulante: era riuscito a trovare di seconda mano un camioncino dentro al quale aveva stipato un vero e proprio emporio e, siccome non gli mancava la parlantina ed essendo di bell’aspetto si era fatto una buona clientela: le donne lo aspettavano ogni mattina: tutte lo guardavano e, potendo, se lo accarezzavano, ma lui non le guardava, i suoi occhi erano solo per la fidanzata con la quale convolò a nozze appena finito di pagare il camioncino.
[Chiesa rupestre di Santa Croce, ante restauri]
Una mattina Pppein uscendo per il giro di lavoro passa davanti a Santa Croce e vede un sacco di gente.
Si ferma per capire cosa succedeva e apprende che si dovevano demolire le grotte.
Cercò di organizzare la protesta ma invano: un vigile gli spiegò che quelle grotte dovevano essere demolite perché erano diventate covo di ladri.
In realtà erano i proprietari interessati a costruire: era l’epoca del grande abusivismo edilizio,
quando l’impianto urbanistico coltivato per secoli fu sfigurato (nella foto in bianco e nero si nota
il taglio della collina mentre in quella a colori si vedono le case fin sopra la chiesetta).
Pppein si fermò quando gli dissero che la grotta più grande e affrescata sarebbe stata salvata.
Infatti rimase ma snaturata: non più una grotta scavata ma all’apparenza sembrava costruita sebbene in tufo.
L’intera collina fu eliminata tutto intorno alla chiesa senza che alcuno muovesse un dito.
Arrivò Padre Civerra, un giovane prete dehoniano, che provò a riportare all’antico splendore la chiesa, facendo piccoli lavori per pulire intorno e rendere la chiesa accogliente per la messa della domenica. Il tre maggio di ogni anno cominciò a celebrare la festa della Croce. La gente accorreva da tutta la città, anche per ascoltare la calda oratoria di quel prete forestiero. Poi cedette le armi: furti, discarica di immondizie ecc. rendevano la vita difficile.
Pppein intanto si era affermato nel lavoro, abitava sempre nei pressi della chiesa di Gesù di misericordia e quando passava davanti a Santa Croce aveva un sussulto: molti erano i ricordi che gli tornavano a mente.
Un giorno il parroco lo informò che il nuovo vescovo sarebbe venuto a visitare la chiesa di santa Croce.
Pppein pensò bene di andare a pulire intorno alla chiesa: con un gruppo di amici si presentò
il giorno prima per lavorare ma furono immediatamente fermati dai proprietari del terreno che non consentivano di entrare nella loro proprietà.
Il vescovo arrivò accompagnato dal parroco don Riccardo Losappio.
La visita durò a lungo: il vescovo si fermava davanti ad ogni affresco, guardava quei volti sgraziati dalla usura del tempo e dalla cattiveria degli uomini.
Di tutti quei volti raccontava una storia che Giuseppe ascoltava con attenzione.
Quando il vescovo fu informato che il terreno circostante era di proprietà privata esternò il suo dolore.
Chiese subito di conoscere i proprietari ai quali chiese di vendergli il terreno.
Lo pagò molto perché i proprietari si erano resi conto che lo avrebbe comprato ad ogni costo.
Mons. Giuseppe Lanave aveva appena ricevuto la liquidazione per il lavoro prestato a Roma e la investì tutta su quel terreno.
Fu il suo primo grande atto di amore per la città.
Mobilitò la Sovrintendenza alle belle Arti, dove già conoscevano la sua passione per l’arte.
Si fece un progetto di restauro, dal comune ottenne la realizzazione di una recinzione (i monconi che si vedono)
e la sistemazione della parte esterna.
Per dimostrare la sua volontà nominò don Vito Troia cappellano di Santa Croce.
Per don Vito era la prima chiesa di cui era stato nominato titolare.
La nomina sarebbe diventata effettiva appena terminati i restauri degli affreschi e la sistemazione dell’esterno.
Ci mise l’anima nel seguire i lavori, preparò persino un volumetto sulla storia di quella laura basiliana.
Il narratore non ricorda che don Vito Troia abbia preso effettivamente servizio anche se nel 1971
ebbe modo di intervistarlo per il giornale “L’Antenna” e apprendere il suo progetto:
“fare della chiesetta un centro di diffusione della cultura cristologica e un centro di divulgazione
della religiosità monastica oltre che celebrare messa almeno la domenica”.
Pppein, presente alla conversazione, fu molto contento di questo progetto e si mise a disposizione per ogni forma di collaborazione;
“piur a venn r fghiur”, disse con il suo spirito mercantile ma anche l’intuito di possibili sviluppi turistici.
Pppein tornava spesso a sedersi sulla scalinata esterna che portava alla chiesetta e in silenzio contemplava i danni del tempo. Qualche volta era con lui anche la moglie e lui scendeva in quella sterpaglia a strappare qualche fiore da dare alla signora che intanto gli aveva dato due figli. Ogni volta che si allontanava girava per l’ultima volta la testa mormorando: ci pccoit!
Per fortuna i restauri degli affreschi sono stati fatti, la sistemazione dei muri interni e del pavimento eseguiti,
per cui la chiesa è al sicuro.
Attualmente il parroco don Riccardo Agresti con la collaborazione delle guide della Pro Loco rende visitabile la chiesetta.
Ma la stessa non è inserita in un percorso turistico apprezzabile e, soprattutto, non è vissuta.
Abbiamo un tesoro e non se ne apprezza il valore. Ci pccoit!
[Pubblicato dall'autore, Vincenzo D’Avanzo, nel suo diario su facebook nonché sul giornale telematico “Andrialive.it” il 17 giugno 2018]
[Le chiese rupestri di Santa Croce, nel 2016, e di Cristo di Misericordia, nel 2012 - foto S. Di Tommaso]