La Porta di Sant’Andrea ...

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Andria

Escursione nella città dall’anno Mille al Milleseicento


La Porta di Sant’Andrea e gli esametri attribuiti a Federico II

Ing. Riccardo Ruotolo


Il medico e poeta Ferdinando Fellecchia, nel canto VI-6 della sua opera su San Riccardo, così si esprime a proposito della Porta di Sant’Andrea:

Perche vicina a picciol Tempio alzata
Del Apostol Andrea l’altra si guarda,
Porta di Sant’Andrea viene chiamata,
Che in Occidente il Cauro ancor risguarda.
Piccola questa pria fù fabricata,
Ampliossi poi, perche da un miglio sguarda
La Chiesa, per honor di quella eretta
Santa Maria, ch’è de Miracol detta.

Per il Fellecchia, in questa strofa, il guardare della Porta è verso l’interno della città e, quindi, verso la Chiesa di Sant’Andrea (demolita nel 1958), mentre, il risguardare è un guardare verso l’esterno della città, invero, la Porta di Sant’Andrea dall’esterno era investita dal vento chiamato Gauro che spira da Sud-SudOvest. La strofa sesta così continua:

Piccola questa pria fù fabricata,
Ampliossi poi, perche da un miglio sguarda
La Chiesa, per honor di quella eretta
Santa Maria, ch’è de Miracol detta.

In questa parte della strofa si dà notizia dell’allargamento fatto alla Porta di Sant’Andrea perché evidentemente il flusso verso il nuovo Santuario della Madonna dei Miracoli era notevole, e sappiamo che la Porta fu ingrandita (una volta abbattuta la primitiva costruzione) e ricostruita nello stile dell’epoca, cioè del sedicesimo secolo, ed è quella la costruzione che noi vediamo ora, almeno fino alla doppia trabeazione posta sulle quattro lesene, perché la parte superiore fu oggetto di un ulteriore rifacimento nell’epoca barocca.

Nella settima strofa del Poema il Fellecchia si sofferma a commentare l’esametro scritto sulla Porta di Sant’Andrea:

Su’l Ciel di questa Porta registrato
Un Esametro sol si mira, e legge,
Che fù da Barbarossa ivi intagliato,
Quando abborrito fù dal fedel Gregge.
Fù suo segno d’amor, perche inchinato
Dal Popol fù frà Imperiali segge:
E’l latino s’esprime in questa guisa,
Andria fedel nel nostro cuore assisa.

Il Barbarossa per il Fellecchia è Federico II di Svevia.

Come già detto, fu nell’anno 1593, in seguito all’Inventio della Madonna dei Miracoli (avvenuta nel 1576) e della quasi ininterrotta moltitudine dei fedeli che accorreva per visitare il Sacro speco, che gli andriesi, abbattuta la vecchia Porta, la ricostruirono più grande e sulle trabeazioni poste sulle quattro lesene furono incisi i due esametri:

Imperator Federicus ad Andrianos:
Andria fidelis nostris affixa medullis.

*

Gli storici andriesi ed anche gli eruditi, quando parlano di argomenti che hanno un qualche riferimento all’Imperatore Federico II di Svevia, si esprimono generalmente in modo enfatico ed esagerato perché ciò dà più lustro alla nostra città. La leggenda e la tradizione collegano la Porta di Sant’Andrea a Federico II, facendo diventare storia ciò che palesemente a volte non lo è.

Il ricercatore V. Zito, in riferimento alla Porta detta di Sant’Andrea dice che Essa si apre sul lato Ovest della città, nel letto della lama Ciappetta, in una posizione apparentemente inutile in quanto non è collegata con strade o con centri di interesse fatta eccezione per le fornaci … . Per questo motivo era anche detta delle fornaci.

È certamente vero che la Porta si trova quasi sul bordo destro del letto del Gran Canale Ciappetta-Camaggio, letto che fu formato dall’antico fiume Aveldium presente nella Tabula di Peutinger del III - IV secolo d.C., ritengo però che non fosse inutile ma era necessaria per tre motivi.

Come lo stesso Zito afferma, la Porta veniva anche chiamata delle Fornaci perché questa zona, ricca di grotte, era abitata prima che la città fosse murata, e i suoi abitanti per tradizione avevano nelle grotte del posto le loro botteghe in cui realizzavano ceramiche domestiche utili al vivere civile. Gli abitanti della zona Fornaci non si trasferirono nella città murata, perché in caso di pericolo potevano farlo con rapidità proprio tramite quella Porta; inoltre, poco lontano, a soli circa due chilometri verso Ovest, c’erano dei Villaggi abitati, tra cui quello di Cicaglia, i cui abitanti in caso di necessità potevano subito entrare in città da quella Porta.

Il secondo motivo da considerare è quello che la presenza del torrentello poteva soddisfare il bisogno di acqua degli abitanti in modo rapido e facile. Infine, i terreni coltivabili nella direzione Ovest della città si spingevano e si spingono fino all’agro di Canosa e di Barletta distanti quasi 15 chilometri, quindi, la presenza della Porta in quella direzione favoriva molto le uscite ed i rientri dei contadini e dei pastori.

Per la parte superiore della Porta l’architetto Zito afferma che in un appunto (privo di fonti) il Ceci (42) riferisce che nel 1721 la Porta sia stata restaurata per iniziativa del Sindaco Carlo Fasoli e che la parte più alta del coronamento della Porta, in stile barocco, fu realizzata successivamente al 1762, data della pianta attribuita al Murena (di cui si è parlato prima) e che la trasformazione della facciata di Porta S. Andrea in stile barocco si inserisce in una vasta campagna di lavori che interessò la città per tutto il XVIII secolo quando, con un ritardo di un secolo, il barocco divenne forma prevalente di espressione artistica.

*

Sulle date di costruzione e ricostruzione della Porta di Sant’Andrea, tenendo anche conto dei vari stili in essa presenti e degli eventi legati alla sua larghez- za, constatiamo che la maggior parte degli storici locali ritiene che essa sia stata realizzata nel 1230, come attesta la data su di essa riportata; successivamente la Porta fu poi allargata e ristrutturata completamente nel 1593, epoca in cui il fornice fu allargato e su di esso furono realizzate quattro lesene unite superiormente da due trabeazioni, il tutto in stile rinascimentale. Infine, nel 1762 fu realizzato in stile barocco il sovralzo delle trabeazioni, come afferma il Ceci.

Ma soffermiamoci su quello che oggi possiamo vedere.

Sulla facciata esterna della Porta, e precisamente sulle due trabeazioni lapidee sorrette dalle quattro lesene, sono incisi due esametri (versificazione usata dai latini e dai greci)

IMPERATOR FEDERICUS AD ANDRIANOS
ANDRIA FIDELIS NOSTRIS AFFIXA MEDULLIS

e sotto le trabeazioni ci sono tre date nella riquadratura centrale, e precisamente: 1230 in alto, 1593 in basso e 1891 data dell’ultimo restauro.

La storia della Porta è tutta in questi elementi: i due esametri e le tre date (Figura -25-).


Fig. -25- Antica immagine serigrafata della Porta di Sant’Andrea.

La storiografia locale collega i due esametri alla data 1230 e all’Imperatore Federico II, con la conclusione che la Porta fu realizzata nell’anno 1230 per segnare in modo indelebile la fedeltà della città all’Imperatore, per ringraziarlo dei favori ottenuti e, come ulteriore segno del legame, attribuisce i due esametri alla penna dello stesso Federico II.

Ritengo che tutto ciò non è storia ma tradizione, che sfiora la leggenda.

Che la Porta sia stata restaurata, anzi rifatta perché allargata, nel 1593 è storicamente accertato. Infatti, dopo l’”Inventio” dell’immagine della Madonna dei Miracoli avvenuta nel 1576 e delle numerose grazie che tanti continuavano a ricevere, numerosi erano i fedeli che giornalmente si recavano alla grotta miracolosa e alla nuova grandiosa Chiesa che i benedettini stavano costruendo. La città di Andria era quasi obbligata a garantire un transito più agevole attraverso quella Porta che portava proprio al luogo santo; pertanto, la data del 1593 per l’allargamento della Porta è da tutti accettata, anche perché documentata dalle cronache dell’epoca.

Anche la data del restauro del 1891 presente sulla porta è documentata ed è storia, ed è plausibile che nel Settecento sia stato realizzato il sovralzo barocco delle due trabeazioni per dare un coronamento alla Porta rendendola più importante e simile ad altre porte barocche di città viciniori.

Resta da ragionare sui due esametri e sulla data 1230, data certamente apposta non per indicare l’anno di costruzione della Porta ma, ne sono convinto, per giustificare la paternità dei due esametri, attribuiti alla penna dell’Imperatore Federico che li avrebbe scritti dopo il suo ritorno dalla crociata in Terra Santa nel 1229, per affermare la “fidelitas” degli andriesi alla “Casa Sveva” e, quindi, la loro onestà nel non tradire il sovrano come fecero le città vicine.

Però, non esiste alcun documento che attesti ciò in modo inequivocabile. Certamente i due esametri sono stati incisi sulle trabeazioni dopo il 1593 quando la Porta fu rifatta per ingrandirla, infatti occupano per intero le trabeazioni, ma non sappiamo se erano già presenti nella primitiva costruzione. Neppure si può affermare con certezza che furono incisi proprio nell’anno 1593 perché non ci sono documentazioni e, quindi, potrebbero anche essere stati incisi quando fu realizzata la sua parte finale in stile barocco, cioè nel Settecento.

Bisogna accettare ciò che dice la tradizione? Anche perché ciò dà prestigio alla nostra città?

Ho voluto approfondire le ricerche su quest’argomento, consultando biblioteche e libri antichi, perché quello che riportano gli storici locali del Settecento e dell’Ottocento mi sembrano piuttosto ricostruzioni fantasiose. Infatti, questi storici, che attribuiscono gli esametri alla penna dell’Imperatore, narrano che, quando Federico II tornò dalla crociata in Palestina e sbarcò a Brindisi nel 1229, trovò che la maggior parte della città della Puglia si erano staccate dalla sudditanza imperiale ed erano passate dalla parte del Papa: e questo è storia.

Il Prevosto Pastore non parla né degli esametri, né della venuta in Andria dell’Imperatore subito dopo la sesta crociata. Che l’Imperatore sia passato per Andria prima di partire per la crociata è riportato nelle cronache del tempo. Infatti dopo i contrasti tra l’Imperatore e il Papa Onorio, quando Federico fu scomunicato perché non onorava quanto promesso, e cioè che si sarebbe recato a Gerusalemme per liberare la città dal musulmano Saladino, finalmente nel 1228 si decise ad organizzare il viaggio in Terra Santa e, come riporta anche il Canonico Agresti nella sua storia “Il Capitolo Cattedrale ed i suoi tempi” – Vol. 1°, pag. 105, “convocò in Barletta i Grandi ufficiali dello Stato, molti Prelati e Baroni del Regno; ma passando per Andria, nel recarsi a Barletta, Iolanda, sua moglie, dette alla luce un figlio, che chiamò Corrado, lasciando sventuratamente la vita. … La sua salma fu tumulata nella nostra Cattedrale …”
Nella riunione di Barletta fu decisa e organizzata la spedizione in Palestina.

Nell’anno 1229, dopo l’accordo di Federico con il Sultano, l’Imperatore tornò in Italia e trovò “il Reame in rivolta”: molte città erano passate dalla parte del Papa. Ciò costrinse l’Imperatore ad usare le armi per riconquistare le sue città, ma Andria era rimasta a lui fedele e, come continua l’Agresti a pag. 107, “… aprì le porte della città a Federico, inviando cinque nobili giovani andriesi ad incontrarlo, recitando al suo indirizzo i seguenti esametri:

Rex felix, Federice, veni, dux noster amatus
Est tuus adventus nobis super omnia gratus
Obses quinque tene, nostri signamine amoris
Esse tecum volumus omnibus diebus et oris.

L’Imperatore, poeta, a sdebitarsi di questo attestato di fedeltà e di amore, … volle regalarla dei seguenti tre versi esametri, che furono poi scolpiti su d’una lapide, il primo dei quali, a perpetuare la memoria, fu fatto incidere su una delle porte della città, quella cioè, detta di S. Andrea:

Andria fidelis nostris affixa medullis,
Absit, quod Federicus sit tui muneris iners;
Andria vale felix, omnisque gravaminis expers.

Questo racconto, e soprattutto il testo degli esametri, sono completamente orfani di citazioni di autori e/o manoscritti da cui sono stati presi, nessuna fonte è riportata dall’Agresti. Inoltre, come si può sempre verificare, sulla Porta di Sant’Andrea sono due gli esametri incisi e non tre, e solo il secondo coincide con il primo citato dall’Agresti. Se è storico il secondo esametro inciso sulla Porta, allora il primo è stato composto a giustificazione che è stato lo stesso Federico a comporli? Da quale fonte proviene questo verso? Se è stato composto per giustificare la paternità di Federico, allora è un falso?

Prima dell’Agresti, dell’evento storico innanzi raccontato, se ne è occupato lo storico Riccardo D’Urso nella sua citata opera “Storia della città di Andria”, a pag. 67, e l’Agresti non ha fatto altro che riportare quanto dice il D’Urso, senza aggiungervi nulla.

Il prof. Pietro Petrarolo, nella sua opera “Andria dalle origini ai nostri tempi” - Edizioni SVEVA, Andria 1990, a pag. 40 così scrive: “Federico distrusse, in quella occasione, Lucera e Foggia; mentre Andria, secondo la tradizione, gli apriva le porte e in segno di obbedienza gli offriva le chiavi della città e cinque giovinetti appartenenti alle nobili famiglie Quarti, Marulli, Fanelli, Curtopassi e Conoscitore. A questa vicenda è legata la costruzione dell’Arco di S. Andrea, dove, ancora oggi, si legge l’espressione

Andria fidelis, nostris affixa medullis

Il Petrarolo riporta solo un esametro, forse anche lui era dell’avviso che il primo esametro inciso sulla Porta è una invenzione del tempo in cui è stato deciso di inciderli; però, a differenza del D’Urso e dell’Agresti, nel raccontare l’evento afferma con correttezza: secondo la tradizione, che sta a significare che non ha rintracciato né documenti né citazioni storiche conclamate. Tuttavia, a sua volta, come vedremo in seguito, crea di sana pianta un’altra leggenda.

In conclusione, gli esametri sono solo documenti della tradizione, cioè della memoria collettiva di un popolo, che può essere anche stata costruita sulle leggende e sul campanilismo? Oppure c’è qualcosa di vero? E se così fosse, chi è stato il primo che ha scritto quei versi?

Ho fatto ricerche su molti testi antichi che parlano di Federico II, ma non ho trovato riscontri apprezzabili, e le ricerche si son fatte sempre più complesse con risultati mai soddisfacenti.

Nell’anno 1988, la Casa Editrice Carlone di Salerno ha pubblicato l’opera di un giovane studioso della letteratura latina e di storia medievale, docente presso l’Università agli Studi della Basilicata, dal titolo “Città e Monarchia nel Regno svevo di Sicilia”; e nel 2012, la Casa Editrice Viella di Roma ha pubblicato, sempre dello stesso studioso e ricercatore prof. Fulvio Delle Donne (45), l’opera “Federico II: la condanna della memoria”. A queste due importanti e fondamentali opere si farà sempre riferimento nel prosieguo.

Il contenuto dei saggi del prof. Delle Donne riguarda soprattutto la figura di Federico II di ritorno dalla sua crociata in Terra Santa. Lo studioso, nelle sue ricerche meticolose e mirate, era riuscito a trovare presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, precisamente nel “Fondo Brancaccio” (46), un plico cartaceo contenente molti manoscritti di varie epoche, e, tra questi, uno composto da quattro cartelle, dal n. 78 al n. 81, che aveva un titolo accattivante: “Narratio qualiter imperator Federicus reaquisivit regnum sibi rebellatum quando accessit ad aquirendum Jerusalem et sepulcrum Christi”.

Si tratta del racconto degli spostamenti di Federico II, dopo il suo ritorno dalla crociata nel 1229, soprattutto nelle città della Puglia. Le cartelle riguardanti questi spostamenti sono denominate “Itinerario” e in passato erano conosciute dagli studiosi; poi caddero in oblio e se ne erano perdute le tracce, fino a quando sono state ritrovate dal prof. Delle Donne.

L’intero incartamento contiene 242 pagine, tutte manoscritte, per la maggior parte riguardanti avvenimenti del Seicento, ma non mancano quelli del Tre-Quattrocento. I più antichi racconti parlano, invece, di avvenimenti dei secoli XI-XII-XIII; l’Itinerario narra gli avvenimenti accaduti nell’anno 1229.

Come riferisce il Delle Donne nel suo saggio, la maggior parte dei documenti presenti nell’incartamento sono stati trascritti da Camillo Tutini (nato probabilmente a Napoli nel 1594 e deceduto a Roma probabilmente nel 1675, come riporta il Martini nella sua pubblicazione “La vita e le opere di Camillo Tutini”) e tutto il fascicolo fu donato dallo stesso alla biblioteca di Francesco Maria Brancaccio: tra quelli trascritti dal Tutini c’è appunto il documento chiamato l’Itinerario il cui autore, però, è anonimo.

Si pensa che l’autore dell’Itinerario sia stato un pugliese perché la maggior parte delle notizie contenute narrano gli spostamenti dell’Imperatore in Puglia; i fogli originali del manoscritto raccolti dal Tutini, che lui dichiara di avere e che sono stati da lui trascritti, non ci sono pervenuti e, di conseguenza, come afferma il Delle Donne: il dubbio sull’autenticità delle notizie è d’obbligo.

Però, questo incartamento manoscritto ebbe larga diffusione fino all’Ottocento quando, come prima abbiamo detto, fu dimenticato e se ne persero le tracce.

Le pagine costituenti l’Itinerario sono scritte in prosimetro, componimento misto di prosa e di versi, il tutto con una grafia minuscola gotica corsiva, a volte di difficile lettura.

Le quattro cartelle dell’Itinerario del Tutini, poiché parlavano di vicende riguardanti le città pugliesi, ebbero larga diffusione in Puglia nel Seicento e soprattutto nelle città di Andria, Troia, Foggia, Barletta, Taranto, Bari, Ordona, Siponto, Civitate e Brindisi. A Bari Antonio Beatillo (47) (Bari 1570 – Napoli 1642) conosceva questo Itinerario perché c’è traccia nella sua opera “Historia di Bari” che fu pubblicata nel 1637, anche se poi si riscontrano discordanze tra la narrazione del Beatillo con quella dell’Itinerario.

Anche Francesco Capecelatro (48) conosceva questo Itinerario, come si deduce dalle notizie riportate nella sua “Historia delle città del Regno di Napoli”.

Dal saggio del prof Delle Donne sappiamo che l’Itinerario comincia con l’approdo di Federico II nel Regno nell’estate del 1229, di ritorno dalla Crociata, e in esso si dice che “Federico aveva assediato Gerusalemme”, ed invece, questo non è vero, perché Federico, giunto in Palestina, cercò un accordo con il Sultano; ed inoltre, si dice che Federico rimase lontano dal Regno per tre anni, ed anche questo non è vero perché la sua assenza si protrasse solo per circa un anno: infatti, partì alla volta della Terra Santa il 28 giugno del 1228 (come si legge in J.L.A. Hullard Breholles nella sua opera “Breve chronicon de rebus Siculis”, pag, 898-902 della “Historia Diplomatica”) e fece ritorno nell’Italia meridionale alla fine di maggio o il 10 giugno dell’anno 1229.

Come sottolineate dal prof. Delle Donne, già da queste prime inesattezze, anche rilevanti, la credibilità di quanto asserisce il Tutini comincia a vacillare.

Racconta l’Itinerario che Federico, rientrato dalla Terra Santa, si recò, dopo Brindisi, direttamente a Barletta, anche se molte città affermano invece che l’Imperatore passò per esse, come ad esempio vantano Altamura, Noci, Bitonto, Gravina, Giovinazzo, Molfetta, Terlizzi, Ruvo, Corato, Trani e Canne, perché conservano versi, attribuiti a Federico, che sono nello stesso stile di quelli dell’Itinerario e di quelli della nostra Porta di Sant’Andrea.

Giunto a Barletta, la città non lo fece entrare; allora Federico si portò a Canosa e da lì si preparò per espugnare Barletta.

*

Afferma il Delle Donne che dal confronto con le altre fonti cronachistiche e documentarie, si ricava che l’Itinerario fornisce senz’altro notizie piuttosto attendibili e spesso nuove … . Certo le imprecisioni e le incongruenze non mancano.

Nella parte seconda del suo saggio il Delle Donne riporta l’intero testo dell’Itinerario che riguarda Andria, e che, come innanzi detto, è composto, come per le altre città, di una parte in prosa ed una in versi; la parte in prosa, ai paragrafi 10 e 11, afferma:

10. Deinde, cum vellet ulterius procedere, accessit Andriam et ibi cum palmis et gloria receptus est et ordinavit quomodo deberet expugnare Barolum. Et ut mandavit ita factum est et capta est terra vi et omnes qui inventi sunt capti fuerunt et de omnibns bonis ipsa terra expoliata est.

11. Deinde cum vellet ulterius procedere exivit Andria et, cum esset extra portas, Andriani omnes supplicaverunt ut Andrianis aliquam gratiam faceret. Quo fecit affigi cedulam in portis civitatis ipsius scriptam versibus istis et deinde mandavit scribi in litteris argenteis in lamina ferri semper duratura in portis ipsius civitatis et infigi:

Andria fidelis, nostris affixa medullis,
absit Federicus ut sit tui muneris iners.
Andria vale felix omnis gravaminis expers
”.

È questo il testo dell’Itinerario che interessa la città di Andria; da questo scritto, e forse anche dall’originale, se è mai esistito, è partita tutta la storia degli esametri che le varie città della Puglia si onorano di avere, anche se dannosi, perché supposti scritti dall’Imperatore Federico II, di suo pugno o dalla sua Cancelleria, negli anni 1229-1230.

Anche in un altro manoscritto redatto da un anonimo Monaco Cappuccino di Troia, che scrisse una cronaca di quella città che si spinge fino all’anno 1626, e che oggi si trova nell’Archivio Capitolare di Troia, è riportata la notizia che riguarda Federico II e la città di Andria. Infatti, nel paragrafo 10 di questo manoscritto si legge: Et così questo Federico se ritirò ad Andria sua fidelissima città, onde diede ordine alla espugnatione di Barletta, quale subito fu presa et tutti quelli che vi furno trovati dentro furno ammazzati et la terra saccheggiata et spogliata delle facoltà che vi erano. Ove fé tratenere li soldati tre settimane à godere le vittuaglie che vi trovorno, la qual terra poi Federico considerando ch’il sito era meritevole di non restare disolato, l’anno 1242 in più bellezza la fé refare et è uno delle quattro castelle del mondo, perché si dice Prato in Toscana, Barletta in Puglia, Crema in Lombardia et Mompoliaro in Francia.

Poi, nel paragrafo 11 si legge: L’Imperatore havendo rinfrescato li suoi soldati dentro Barletta, volendosi partire d’Andria li Andriani lo supplicorno d’alcuna immunità et gratia. Esso fé affiggere nella porta della città una cedola con questi versi et ordinò che in lame di ferro à lettere d’argento fossero scolpiti et affissi in perpetuo alla predetta porta, cioè:

Andria fidelis, nostris affixa medullis,
absit Federicus ut sit tui muneris iners.
Andria vale felix omnis gravaminis expers

E questi versi sono proprio quelli dell’Itinerario: così è nata la leggenda, tramandata poi dalla tradizione.

Anche gli storici andriesi Riccardo D’Urso e Michele Agresti come si è innanzi detto, riportano questi esametri, con la variante che al posto di “omnis” c’è “omnisque”.

Raffaele Corso (49) riporta i tre esametri con un’altra variante:

Imperator Federicus ad Andrianos:
Andria fidelis nostra affixa medullis,
absit ut Federicus sit tui muneris expers

in cui il primo esametro ed il secondo sono uguali a quelli incisi sulla Porta detta di Sant’Andrea, mentre il terzo è diverso sia da quello dell’Itinerario sia da quello riportato dal D’Urso e dall’Agresti. Questo storico è il primo a riportare il verso Imperator Federicus ad Andrianos, ma la fonte non è nota.

A quasi completare la ricerca, anche lo storico Francesco Babudri (50), nel suo saggio “Federico II nella tradizione culturale e popolare pugliese”, pubblicato nell’Archivio Storico Pugliese, anno XV – 1962, riporta i tre esametri attribuiti, secondo la tradizione, a Federico II, però con altre differenze:

Imperator Federicus ad Andrianos:
Andria fidelis nostris affixa medullis,
absit ut Federicus sit tui muneris expers

in cui il terzo esametro è diverso da quello dell’itinerario perché preso dall’opera del D’Urso e porta nostris al posto di nostra.

Nel trarre delle conclusioni, il Delle Donne afferma che risulta piuttosto improbabile che sia stato lo Svevo in persona a comporre i versi tramandati dall’ “Itinerario” e a maggior ragione non si dovrebbe accettare che i componimenti analoghi agli esametri, ma a carattere satirico e a volte blasfemo, che riguardano le città, siano da attribuire alla penna dell’Imperatore.

Per la città di Bitonto, il motto attribuito alla penna dell’Imperatore, si riferisce al fatto che la città si era ribellata e fu riconquistata da Federico II nel 1229 al ritorno dalla Terra Santa:

Gens Bitontina, tota bestia et asinina,

e questo motto è riportato anche nell’Itinerario.

Altro esempio: per la città di Corato, come riporta Saverio La Sorsa (51), il motto attribuito a Federico II è:

semper merdosa fuit

ed anche: Quarata magna che è di tono completamente diverso.

Per Molfetta, come si legge nell’opera “I Distici …”, il B. Paolillo (52) riporta il blasone (nel senso di frase che riassume un proposito di vita, una norma di comportamento, per lo più con intenzioni satiriche o addirittura ingiuriose, più frequenti nel caso di località vicine e tradizionalmente avverse, come recita il vocabolario Treccani):

Mophetica Melphicta, stercore plena et maledicta.

Per la città di Ruvo, sia il La Sorsa sia R. Corso sia F. Babudri, nelle loro opere precedentemente citate, riportano il blasone, anch’esso attribuito a Federico II, che così recita:

Gens inimica Cristi
Sunt Rubenses infidi et tristi

A pagina 77 della sua opera, Francesco Babudri riporta la notizia che anche per la città di Andria l’Imperatore scrisse un blasone come quello della città di Bitonto:

Gens Andrina, tota pessima et asinina

*

Ciò che sappiamo con certezza è che Federico II era un uomo colto ed anche un poeta e che la sua cultura oltre che essere occidentale era anche impregnata di tradizioni arabe; basta ricordare il suo trattato sulla falconeria, le poesie in volgare, i documenti e i trattati da lui redatti. E ciò basterebbe anche ad affermare, come dice il Delle Donne: che è del tutto improbabile che l’Imperatore Federico II abbia scritto questi versi ma, piuttosto, essi sono nati in ambienti diversi da quelli della corte, e sono stati sviluppati dalla tradizione popolare che li ha tramandati fino ad oggi: quelli elogiativi che vengono conservati gelosamente dalle città e quelli dispregiativi, che ugualmente sono conservati, perché il campanilismo è stato vivo fino a tutto il ventesimo secolo.

C’è anche da tener conto che l’esaltazione di Federico II non viene tanto dagli ambienti della sua corte quanto da studiosi e storici di epoche successive: il prestigio di una città era fortemente legato alla figura dell’Imperatore Federico II e i segni di benevolenza, anche se piccoli, sono stati per così dire ingigantiti dalla tradizione e le città se ne son fatto vanto.

Afferma il prof. Delle Donne: “I motti e gli esametri elogiativi, furono fatti incidere in luoghi simbolici e, poi, orgogliosamente custoditi in memoria della benevolenza imperiale, quelli fustiganti, ben presto venivano asportati e distrutti”.

Il Delle Donne conclude il suo saggio affermando che: “Insomma, è difficile stabilire se siano state le iscrizioni commemorative ad ispirare i motti satirici attribuiti allo Svevo, oppure se sia avvenuto il contrario”, quello che è certo, è che la tradizione popolare è la fonte più cospicua ed il mezzo di trasmissione più duraturo dei motti e degli esametri attribuiti a Federico II. A questo punto cita l’esempio di quanto accadde alla fine del XV secolo quando sulla porta della sagrestia del vescovato di Nicastro, in Calabria, rimase leggibile fino al terremoto del 1638, un motto che era il calco perfetto di quello del primo verso del componimento dedicato ad Andria e contenuto nel paragrafo 11 dell’Itinerario:

Lixania dulcis nostris affixa medullis.

Il motto più bello che sia stato composto per Federico II non proviene dalla sua corte ma dal cronista Matteo Paris (53) che lo definì: Stupor mundi.

Gli autori che nel Seicento e Settecento hanno scritto tanto sul Regno di Napoli e sui Re, Conti, Duchi e Marchesi del Regno, conoscevano l’Itinerario del Tutini e, quando parlavano di Federico II, riportavano molte notizie e aneddoti riguardanti l’Imperatore assunti proprio dal suo manoscritto.

*

All’inizio del marzo 2021, è venuto a mancare il prof. Vincenzo Schiavone, una persona colta, che ha lasciato alla città di Andria alcuni saggi storici di grande spessore. Cultore di storia locale è stato anche responsabile dell’archivio e della biblioteca diocesana. Nei colloqui avuti con lui mi piace ricordare quello relativo al significato che lui dava all’aggettivo Fidelis inserito nel motto attribuito a Federico II ed inciso sulla Porta detta di Sant’Andrea.

Secondo lui il Fidelis sulla Porta di Sant’Andrea (Figura -26-) va interpretato come segno di sudditanza: il popolo che resta fedele al suo Capo, i cittadini che riconoscono l’autorità suprema e la rispettano, anche quando questa fa pagare loro le tasse.


Fig. -26- Porta detta di Sant’Andrea. I due esametri sulle trabeazioni.

Ora sappiamo che questa frase non è certo stata incisa quando fu costruita la Porta, né quando Federico passò per Andria al ritorno della sua crociata in Terra Santa, e neppure quando la Porta fu allargata nel 1593 perché a quell’epoca l’Itinerario non esisteva (forse poteva esistere l’originale da cui fu trascritto l’Itinerario?); certo, però, che nella prima metà del Seicento tutti gli storici erano a conoscenza degli esametri attribuiti all’Imperatore Federico e non è escluso che proprio allora furono fatti incidere sulla Porta di Sant’Andrea, anche perché in quel secolo ci fu tutto un fiorire di esametri e blasoni (motti) attribuiti all’Imperatore svevo.

Il prof. Schiavone parlando dell’aggettivo Fidelis, mi fece anche sapere il significato che lui dava al Fidelis inciso sullo stemma della città di Andria (Figura -27-) un tempo collocato alla destra del portale del Convento delle Suore Benedettine, stemma che, quando questo Convento con l’annessa Chiesa fu demolito nel 1938, fu recuperato insieme a tutto il portale e fu collocato alla destra del nartece della nostra Cattedrale.

Il motto sotto lo stemma è il seguente:

Andria non minus fidelis quam benigna


Fig. -27- Stemma della città di Andria proveniente dal Convento delle Benedettine.

Questo stemma scolpito in pietra non fa parte del portale del Convento delle Monache benedettine (Convento che fu realizzato negli anni Trenta del Settecento quando fu demolita la costruzione del 1582 e furono realizzati ex novo sia il Convento sia l’annessa Chiesa della SS. Trinità), ma è un pezzo staccato dal portale e non inserito nella struttura dei piedritti; quindi, con molta probabilità, doveva rinvenire dalla precedente costruzione del Convento.

Il prof. Schiavone metteva a confronto ed in antitesi l’aggettivo Fidelis della Porta di Sant’Andrea attribuito a Federico con l’aggettivo benigna, che ha il significato di generosa, sotto lo stemma delle Benedettine, perché sia gli ospizi che prima esistevano in quel luogo sia la prima costruzione del Convento del 1582 erano stati realizzati con le offerte dei cittadini e il lascito del Vescovo Mons. Angelo Florio, il cui stemma fu anche infisso sulla sinistra del portale del Convento, ed ora, anch’esso si trova nella stessa posizione nella nuova collocazione del portale sulla facciata della Cattedrale, a destra dopo il nartece.

Puntualizzava inoltre il prof. Schiavone che mentre il termine Fidelis della Porta si riferisce ad un sentimento di sudditanza, il termine Benigna si riferisce ad una profonda fede religiosa degli andriesi verso i più umili e sofferenti, perché non disdegnavano di sovvenzionare la costruzione di opere pie qual erano gli Ospizi per anziani e ammalati e Conventi per le fanciulle.

Per lui era il passaggio dalla sudditanza alla generosità degli andriesi.

C’è un altro stemma della città di Andria che porta inciso la parola Fidelis, (Figura -28-), ed è collocato sulla porta d’ingresso alla sala consiliare del nostro Comune; in questo stemma è anche riportata la data 1544. Lo studioso V. Zito ha ipotizzato che esso probabilmente è quello stesso che era affisso sulla Porta detta della Barra, di cui si parlerà nel capitolo successivo, e che, recuperato dopo la demolizione di detta Porta, fu portato sul Comune e affisso dove oggi lo vediamo.


Fig. -28- Lo stemma della città di Andria che, con molta probabilità,
poteva essere quello affisso sulla Porta della Barra e che fu recuperato dopo l’abbattimento della Porta.
Oggi questo stemma è affisso sulla porta d’ingresso alla sala consiliare del Comune di Andria.


NOTE    _

(45) Delle Donne Fulvio
Fulvio Delle Donne (nato nel 1968) è professore associato di Letteratura latina medievale e umanistica presso l’Università degli Studi della Basilicata. Nella sua ampia produzione scientifica, come lo definisce la critica, il Delle Donne coniuga i metodi e gli interessi filologico-letterari con quelli storici, coprendo un arco cronologico che va dal VI al XVI sec. È Presidente del Centro Europeo di Studi su Umanesimo e Rinascimento Aragonese, Direttore o componente del Consiglio scientifico di numerose riviste e collane editoriali, nonché membro eletto della Reale Accademia dei belli scritti (Buenas Letras) di Barcellona.
Le sue principali linee di ricerca sono la retorica ed epistolografia medievale, la storiografia medievale e umanistica, la cultura e istituzioni culturali in epoca medievale e umanistica, la trasmissione e tradizione dei testi antichi. Dirige il Dottorato di ricerca in Storia, culture e saperi dell’Europa mediterranea dall’antichità all’età contemporanea presso l’Università della Basilicata presso cui è il responsabile del Dottorato di ricerca in “Storia, culture e saperi dell’Europa mediterranea dall’antichità all’età contemporanea”. La sua attività copre vari settori della cultura, dalla collaborazione scientifica a documentari televisivi e musei alle pubblicazioni in riviste scientifiche, dalla pubblicazione di volumi di storia rivisitata criticamente alla compilazione di voci per enciclopedie, lessici e dizionari.
Fino ad oggi le sue opere in volume, i saggi critici, le presentazioni di opere storiche, le pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali, sono oltre 330 di cui, solo in volumi sono una quarantina.
La figura di Federico II di Svevia è dominante nelle sue opere. Per citare alcuni suoi lavori sull’Imperatore svevo ricordiamo alcune delle sue opere: “Città e Monarchia nel Regno svevo di Sicilia”, pubblicatala Casa Editrice Carlone di Salerno nel 1998; “Federico II: la condanna della memoria” pubblicata dalla Casa Editrice Viella di Roma nel 2012; “La porta del sapere. Cultura alla corte di Federico II di Svevia”, pubblicata in Roma da Carocci nel 2019.
Ed inoltre ricordiamo la traduzione in italiano, l’introduzione e il commento del “Chronicon de rebus Siculis”, Edizioni Galluzzo, Firenze 2017; “La Disfida di Barletta e la fine del Regno. Coscienza del presente e percezione del mutamento tra la fine del Quattrocento e inizio Cinquecento”, Editrice Viella, Roma 2019; “La Disfida di Barletta. Storia, fortuna, rappresentazione”, Viella, Roma, 2017.
Per quanto riguarda le voci inserite nelle enciclopedie, ricordiamo: “Isabella di Brienne” e “Isabella d’Inghilterra” in Dizionario Bibliografico degli Italiani dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, anno 2004, LXII, Roma 2004, rispettivamente pp, 617-619 e pp. 635-637.

(46) Fondo Brancaccio
Con disposizione testamentaria del 1675, il Cardinale Francesco Maria Brancaccio lasciò la sua ricchissima biblioteca ai suoi concittadini di Napoli, e questa fu la prima biblioteca pubblica della città e si chiamò “Biblioteca Brancacciana”. Nel 1922, la “Commissione pel trasporto delle Biblioteche nella Reggia di Napoli”, presieduta da Benedetto Croce, decise di incorporare la “Brancacciana” nella Biblioteca Nazionale in cui prese il nome di “Fondo Brancaccio” costituendone uno dei fondi più rari e pregiati per le straordinarie ed uniche opere che contiene.

(47) Beatillo Antonio
Antonio Beatillo (Bari 1570 – Napoli 1642) è stato uno storico e teologo. Formatosi nelle scuole dei Padri Gesuiti, insegnò le lingue latina, greca ed ebraica nelle scuole dell’Ordine. Nella sua vita effettuò diversi viaggi ed ebbe modo di arricchire il suo sapere frequentando archivi e biblioteche da cui attinse gran parte delle notizie che poi trasferì nelle sue opere di storia. Il Beatillo fu un “eccellente oratore” e le sue opere storiche erano molto apprezzate, soprattutto quelle che riguardano Bari e i santi Nicolò e Sabino, opere che hanno avuto grande divulgazione, i cui titoli sono: “Historia della vita di S. Nicolò” (Napoli, 1620), “Historia della vita di S. Sabino” (Napoli, 1629) ed “Historia di Bari” (Napoli, 1637). Gli avvenimenti di cui fu testimone sono preziosi perché vissuti in prima persona.

(48) Capecelatro Francesco
Francesco Capecelatro (Aversa 1595 - ? 1670) era di nobile e benestante famiglia, figlio di feudatario; però, per i debiti del padre fu costretto a vendere il Feudo. Avversò sempre il viceré del Regno di Napoli e per questo visse molto tempo in esilio, soprattutto a Lecce. Storico molto acuto del Regno fin dalle sue origini, pubblicò in Napoli varie opere tra cui: “Historia della città del Regno di Napoli; Origini della città e delle famiglie nobili del Regno; Annali”, ed inoltre, “Diario delle cose avvenute nel Reame di Napoli negli anni 1647-1650”. Fu nominato governatore della Calabria Citra e poi governatore di Terra di Bari dove spadroneggiavano i conti di Conversano e i duchi di Andria. Dopo il 1655, per i suoi meriti e le ricostituite possibilità economiche, ritornò ad essere feudatario in territorio molisano ottenendo il titolo di marchese. Nel 1640 fu pubblicata solo una parte dell’opera “Historia della città del Regno di Napoli …”, mentre la pubblicazione completa dell’opera avvenne nel XVIII secolo, e qualche storico preferisce chiamarla “Vite de’ re di Napoli”.

(49) Corso Raffaele
Raffaele Corso (Nicotera 1885 – Napoli 1965), ha compiuto gli studi in giurisprudenza presso l’universitari di Napoli però, si è applicato nel campo delle scienze etnoantropologiche e in quello dell’etnografia. Le sue opere più significative sono state: “L’arte dei pastori” del 1920, “Folklore: storia, obietto, metodo” del 1923, “Reviviscenze” del 1927, “I popoli dell’Europa, usi e costumi“ del 1948. La leggenda, il mito, la novella, la tradizione, sono stati argomenti molto studiati dal Corso che ne ha e di cui ha approfondito i caratteri e i procedimenti della loro nascita.

(50) Babudri Francesco
Francesco Babudri (Trieste 1879 – Bari 1963) aveva conseguito laurea in lettere e filosofia all’Università imperiale di Vienna. Storico appassionato e cultore delle tradizioni popolari della sua terra, giornalista e collaboratore di diversi quotidiani veneti e, per molti anni, impiegato come addetto stampa presso la Fiera Campionaria Internazionale di Trieste. All’età di 52 anni ebbe un’offerta di lavoro su Bari, una città più piccola di Trieste ma in via di espansione e da poco aveva inaugurato una “Fiera Campionaria”, per cui il Professore, quasi accettando una sfida, si trasferì nel Mezzogiorno e assunse il compito di “avviare” il complesso sistema delle relazioni pubbliche della Campionaria pugliese, soprattutto con il mondo orientale. Trasferitosi a Bari si dedicò agli studi della storia pugliese per ben trent’anni. Entrò a far parte della Società di Storia Patria e “ne divenne uno degli elementi più attivi” come fu definito nel discorso di commemorazione del 1963. Collaborò con Mons. Nitti, che aveva dato un grosso impulso alla pubblicazione del “Codice Diplomatico barese”, e curò la pubblicazione del volume XVIII di cui scrisse un’”erudita introduzione” di oltre 150 pagine nonché l’”accuratissimo glossario e gli indici”. Ha pubblicato diversi saggi sulla storia di Bari e su quella pugliese tra cui “La poesia diplomatica medievale”, L’”Exultet di Bari del sec. XI”, e “Federico Il nella tradizione culturale e popolare pugliese” in “«Archivio storico pugliese” - anno XV (1962).

(51) La Sorsa Saverio
La Sorsa Saverio (Molfetta 1877 – 1970) è stato uno dei più grandi studiosi di folklore pugliese. Specializzandosi in discipline storiche, in paleografia e diplomatica, si laureò in lettere e filosofia, ed anche in geografia e storia. In quarant’anni di ricerche ha pubblicato più di sessanta opere riguardanti le storie della tradizione popolare, nonché la storia della psicologia dei popoli, oltre a un centinaio di saggi di critica letteraria, di storia e di economia. Fondò l’”Università Popolare” a Molfetta e il “Circolo di Cultura” a Cerignola e, nel 1917, organizzò la “Prima Mostra d’Arte Pugliese”.
Il suo interesse principalmente si concentrò sul patrimonio novellistico pugliese e durante la sua vita riuscì a dare alla luce due volumi di “Fiabe e novelle del popolo pugliese” negli anni 1927-28 e un terzo nel 1941, potendo contare su ben 128 testimoni diretti e 12 raccoglitori di testimonianze. Nel 1911 pubblicò “Gli avvenimenti del 1848 in terra d’Otranto: narrazione storico-critica”, nel 1928 “Tradizioni Popolari Pugliesi” edito da F. Casini & Figlio Bari-Roma; nel 1930 “Usi, costumi e feste del popolo pugliese”, Milano, Società Editrice Dante Alighieri; è del 1937 la pubblicazione “Come giuocano i fanciulli d’Italia”. Recentemente sono state ripubblicate tutte le sue opere riguardanti il gioco dei bambini pugliesi.

(52) Paolillo Benedetto
Benedetto Paolillo (Barletta 1844 - Barletta 1929) fu un bibliotecario e torico erudito. A causa di gravi problemi alla vista, non potendo più leggere i libri, gli fu suggerito di venderli e così nel 1868 aprì una libreria in Barletta che condusse per quasi trent’anni e, in quell’epoca, fu la terza aperta in Puglia, libreria che, per il suo grande sapere, divenne sede di incontri tra studiosi e importante luogo di diffusione della cultura. Ha pubblicato diversi saggi su Origine della “Disfida di Barletta” in La Zanzara, 1888; sulla “Cattedrale di Barletta” in L’Unione Liberale, 1889; su “Un episodio storico del 1799 a Barletta: la strage dei Terlizzesi”, in Corriere delle Puglie, 1916; “I Filadelfi, reminiscenze storiche” in Corriere delle Puglie; “I processi politici di Barletta negli anni 1848-49-50”, Barletta, Dellisanti, 1917; “Come fu scoperta la colonna Traiana di Canne”, in Avvenire delle Puglie, 1918; “I distici di Federico II di Svevia” in dileggio delle città di Puglia (Confronti storici), Bari, Casini.

(53) Matteo da Parigi
Matteo Paris (1200 – 1259) fu un monaco inglese dell’abbazia benedettina di Sant Albans che era una delle più ricche e famose d’Inghilterra. Scrisse la cosiddetta “Chronica Majora” che è una cronaca universale che portò avanti fino alla sua morte.
Fu l’inventore dell’epiteto “stupor mundi” dato all’Imperatore Federico II e noi dell’Italia meridionale, che coltiviamo il mito in positivo di Federico II, ricordiamo Matteo da Parigi solo perché è stato l’autore di questo epiteto. Pur essendo monaco benedettino, Matteo, criticava la Chiesa rimproverandola di curarsi troppo degli interessi materiali, di imporre ai buoni cristiani oneri troppo gravosi e di concedere facilmente troppi benefici dei monasteri inglesi a quelli stranieri, soprattutto italiani. Della sua “Chronica Majora” si conserva sia l’originale manoscritto sia una copia.