Capitolo IX

Contenuto

da "Il Capitolo Cattedrale di Andria ed i suoi tempi" - Vol. I

di Michele Agresti (1852-1916)

Capo IX

(anni 1480-1560)

Sommario:
—Assedio dei Turchi ad Otranto, e strage di quei cittadini: Morte del Sultano Maometto II e liberazione di Otranto;
— Congiura dei Baroni contro il Re Ferdinando d'Aragona, ed assassinio di Pirro del Balzo, Duca ai Andria e Principe d'Altamura. La Duchea di Andria sotto Federico d'Aragona. Morte del Re Ferdinando d'Aragona, cui succede li figlio Alfonso II, il quale abdica in favore di suo figlio Ferdinando II, ed è costretto cedere il Regno a Carlo VIII di Francia;
— miracolo della Madonna della pietà, avvenuto in Andria ai tempi della dominazione Francese sotto Carlo VIII;
— ritorno nel Reame di Federico d'Aragona, a sostenere le ragioni di suo nipote Ferdinando II, il quale, dopo pochi mesi muore, succedendogli lo zio Federico; Ludovico XII di Francia e Ferdinando il Cattolico di Spagna si contendono il Reame;
— Disfida di Barletta: il Reame sotto la dominazione spagnuola: la duchea di Andria vien concessa al Gran Capitano Consalvo Ernandes Cordova: Andria colpita dalla peste: voto della città a S. Riccardo ed a S. Sebastiano;
— Vescovi di Andria, e preti appartenenti alla Cattedrale in questo tempo;
— ritorno dei Francesi nel Reame: Odetto di Foix mette a sacco e fuoco Andria;
— la peste del 1528: pace tra Francesi e Spagnuoli nuove lotte fra i medesimi: I Turchi nel Reame di Napoli: Enrico II succede a Francesco I di Francia: l'impenztore Carlo V cede la corona e si ritira a vita privata;
— Concilio di Trento e la Riforma di Martin Lutero: Pace fra Spagna e Francia:
— la duchea di Andria passa a Consalvo rappresentato da Giorgio de Salzedo, indi ai Carafa;
— Vescovi di Andria: lotte fra il Capitolo della Cattedrale e la Collegiala di S. Nicola: Preti della Cattedrale in questo tempo.


La calma, tornata nel regno, con la espulsione di Giovanni d’Angiò e del Piccinino, e con la Morte del principe di Taranto, Gianantonio Orsini, non durò troppo a lungo. Nuovi torbidi agitavano il Reame, per opera dei Baroni, spinti alla rivolta da Alfonso d’Aragona, duca di Calabria, contro suo padre Ferdinando. Essendosi Alfonso impegnato in varie lotte nella Toscana, queste poi portarono il tracollo anche nel reame di Napoli. Difatti i Turchi, che sin dal 1469 avean giurato di esterminare i cristiani (e già nel 1470 avean sconfitto a Negroponte le Milizie cristiane dei Veneziani) nel 1480 scesero in Italia a riconquistare le provincie meridionali, governate da Ferdinando d’Aragona, inci-tati dai Fiorentini (i quali parteggiavano per i Pazzi, che erano allora in guerra atroce contro i Medici) ed anche dai Veneziani medesimi, coi quali i Turchi avean fatto pace nel 1479.
A dì 28 luglio del 1480 una forte armata di Musulmani, sotto il comando di Akmet — Giedik, albanese, approdò ad Otranto, abbattendo le mura della città e menando grande strage di cittadini.
I Sacerdoti tutti di quella città furono barbaramente sgozzati, a cominciare dall’Arcivescovo Stefano, decapitato nel Coro di quella chiesa, dove erasi rifugiato, vestito degli abiti pontificali. Ottocento cittadini, che rifiutaronsi negare la fede di Cristo, furono dalla ferocia musulmana tutti trucidati su d’un colle vicino, dove eransi rifuggiati [1].
A combattere i musulmani Re Ferdinando d’Aragona allestì quanti potè di fanti e cavalieri, affidandoli al comando di Giov. Francesco Caracciolo e Giulio Acquaviva, Conte di Conversano; mentre Papa Sisto IV allestiva sul Tevere una flotta, comandata dal Cardinal Paolo Fregoso di Genova (già ammiraglio, prima che avesse preso il cappello cardinalizio). Mancando i mezzi per le spese di guerra, si fece ricorso all’oro ed all’argento delle chiese, che, dopo otto anni, fu tutto integralmente restituito.
Mentre, però, i cristiani si accingevano alla guerra, a dì 3 maggio 1481, per provvidenziale disposizione di Dio, forse supplicato da quegli ottocento martiri otrantini, il Sultano Maometto II cessava di vivere.
I Turchi, vistisi a mal partito, vennero ai patti di resa, restituendo Otranto al Re Ferdinando [2].
NOTE    (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva)
[1] Papa Sisto IV ordinò che i corpi di questi 800 martiri, morti per la fede, fossero seppelliti nella Cattedrale di quella città. Ma, poscia, per ordine del Re Alfonso II d’Aragona, furono trasportati a Napoli, dove ebbero onorata sepoltura nella Chiesa di S. Maddalena (De Ferrariis: De situ Japygiæ).
[2] Questa sconfitta dei Turchi ci richiama alla mente la memoranda sconfitta nelle acque di Lepanto (della quale parleremo in seguito), e la recente sconfitta del I. Ottobre corrente anno 1911, quando la nostra storia è sotto i torchi. L’Italia nostra, dopo un lungo e prudente silenzio di quasi tre secoli (quanti ne corsero dalla battaglia di Lepanto all’anno di grazia 1911) risponde, oggi, e continua quel programma di difesa e di lotta contro le sopraffazioni turche, che la rese gloriosa e benemerita nel medioevo e dopo. Con la presa di Tripoli (dopo poche ore di bombardamento), dovuta al valore delle navi e dei marinai, l’Italia ha dato tale lezione a Maometto V ed alla sua mezzaluna, da meritare il plauso e l’ammirazione del mondo tutto.

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Calmata la tempesta, suscitata dai Turchi, Re Ferdinando si vide alle prese con nuovi nemici in casa propria.
Suo figlio Alfonso, Duca di Calabria, unitosi a parecchi Baroni del Regno, ordì una congiura, per togliere il regno al padre!
Fra i Baroni a lui più fidi, disgraziatamente, si trovò Pirro del Balzo, che, alla morte di suo padre Francesco II, era succeduto nella duchea di Andria, ed avea ancora ottenuto dal Re Ferdinando, suo zio, il principato d’Altamura.
Intanto Re Ferdinando, scoperta tale congiura, dopo d’aver tentato ogni via per sfatarla, venutogli il destro, con ben architettate insidie, trasse nella rete i più faziosi Baroni, facendone alcuni decollare nelle Pubbliche piazze, altri sgozzare nel Castel Nuovo di Napoli.
Fra questi fuvvi il nostro povero Duca Pirro Del Balzo! Né contento Re Ferdinando di togliergli la vita, fe’ pure confiscare tutti i beni, disponendone a suo talento. I feudi del nostro duca Pirro del Balzo passarono allora a Federico, secondogenito del Re Ferdinando d’Aragona. Cosi Andria e Castel del Monte passarono, dai del Balzo, a Federico d’Aragona.
Con l’assassinio di tanti Baroni, anzicché acquistare la tranquillità, Re Ferdinando si acquistò invece l’odio dei popoli; ed il suo trono era vacillante, specialmente per le continue minacce, che faceagli Carlo VIII di Francia, il quale volea rivendicare i dritti del Reame, a lui rivenienti da Renato d’Angiò. Queste traversie gli abbreviarono la vita. A dì 25 Gennaio dell’anno 1494, nell’età di anni 70, dopo 36 di governo, Ferdinando moriva in Napoli. A lui successe Alfonso II, il quale, perché assai inviso, dové presto abdicare in favore del figlio Ferdinando II, e fuggire in Sicilia, dove ben presto fu raggiunto dal figlio Ferdinando, perché Carlo VIII era sceso nel Reame, accolto con grande simpatia dai regnicoli. Ad eccezione di Brindisi e di Gallipoli, tutta la Puglia si dette a Re Carlo VIII di Francia, già più volte incitato a prendere possesso del Reame da Papa Innocenzo VIII (1484-1492) e dal successore Alessandro VI (1492-1503) di casa Borgia, a mezzo del Cardinal Giuliano della Rovere.
Però il suo governo ebbe ben poca vita, giacché Federico d’Aragona, Duca di Andria, coadiuvato dai Veneziani, nel 1496, insorse contro Re Carlo, riuscendo a riconquistare il Regno per suo nipote Ferdinando, il quale ebbe poi la sventura di morire, di lì a pochi mesi (il dì 7 Settembre di quell’ istesso anno), nella verde età di anni 27.

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affresco Madonna della Pietà
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Sotto il breve governo di Carlo VIII di Francia avvenne in Andria il famoso miracolo della Immagine della Madonna della pietà, che si venera, oggi, nella Chiesa della SS. Annunziata. Anticamente quella immagine era dipinta sul muro di una nicchia, messa fuori la vecchia sacrestia di detta Chiesa, sporgente, allora, sulla pubblica via, dove alcuni francesi eransi messi a giocare alla morra, cimentando quel danaro che possedevano. Uno di costoro, avendo subito varie perdite, nell'impeto della collera, preso un ferro, che aveva alla cintura, lo scaraventa, besterniando, contro quella innocente immagine, andando a teril le l'occhio destro. A quell'atto bestiale ed insano, si vide la mano destra di quella immagine, che posava in atteggiamento di preghiera, correre a difesa dell'occhio, ferito da quel ferro ! ... Un tal portento fu constatato da quanti eran presenti in quel monento, e da tutti i cittadini, di allora, che conoscevano l'atteggiamento primitivo di quella immagine. Laonde fu redatto un pubblico processo dalla competente autorità ecclesiastica e laicale, dopo averne costatata la verità dell'accaduto. Il Durso, nella sua Storia di Andria, dice che quell'infame assassino francese fu condannato al patibolo, per scongiurare 1'ira dei cittadini andriesi, che voleanlo linciare.
Di questo prodigio ne fecero menzione nelle rispettive visite ad sacra limina i Vescovi di Andria Mons. Egizio (1657 - 1689), Mons. Triveri (1692 - 1696), e Mons. Palica (1773 - 1790). Cresciuta la venerazione a quella miracolosa immagine, il Comune di Andria la fece distaccare dal luogo, dove prima era sita, facendola trasportare nell'interno di detta Chiesa, erigendovi un pregevole altare di pietra. Fu poscia istituita una Confraternita, che ebbe vita sino al 1552, sostituita poscia da una pia unione di gentiluomini, che vestivano il Robone, veste signorile, che indossavano i gentiluomini, i cavalieri ed i dottori. Tutto ciò rilevasi da un istrumento pubblico per notar Giacomo Petusi del 21 Gennaio 1633.
Nel 1859 Re Ferdinando II di Borbone, venuto in Andria, ed avendo visitato quella prodigiosa immagine, promise di far costruire un altare di marmo, e di far chiudere 1'immagine, distaccata dal muro, in una cornice d'argento, promettendo pure di farne, a sue spese, restaurare la Chiesa. Essendo però, l'anno successivo, Re Ferdinando scese dal trono di Napoli, tutto andò perduto, ...

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Morto intanto Re Ferdinando II d’Aragona, senza aver lasciato prole alcuna, saliva al trono di Napoli lo zio Federico, Duca di Andria, il quale seppe acquistarsi la comune benevolenza, colla sua generosità nel restituire ai Baroni i loro castelli, alle città gli antichi privilegi.
Andria, ch’ebbe l’onore d’averlo avuto a suo Duca, riportò grandi beneficii da questo Sovrano, il quale, durante il suo Ducato, aveva di molto migliorate le condizioni morali e finanziarie della città! Fra gli altri provvedimenti, degni d’encomio, furono certe leggi stabilite per i contratti matrimoniali, (formulate in 15 articoli) a scopo di riparare alle continue frodi, che accadevano. Quel documento fu dato da Andria il dì 30 aprile del 1489, ed è stato in piena osservanza fino al 1808 [3]. Federico d’Aragona fu Re savio e benefico. Il suo governo richiamò in Napoli l’età dell’Oro. Fu gran Mecenate delle scienze e delle arti. Fece coniare gran quantità di monete d’oro col motto «recedant vetera, nova sint omnia».
Però, per quanto studio egli mettesse nel rendersi a tutti propizio, purtuttavia il suo governo, che durò soli cinque anni, fu continuatamente travagliato, all’interno dai faziosi Baroni, di fuori dalle pretenzioni dei Francesi e degli Spagnuoli, per le reciproche ragioni, che dicevano vantare sul Reame; i primi per parte di casa d’Angiò, i secondi per parte di casa dei Durazzo; i primi governati da Lodovico XII, succeduto a Carlo VIII, i secondi da Ferdinando il Cattolico.
Venuti ad un accordo i due pretendenti, a dì 11 novembre del 1500, fu formulato fra di loro un trattato nella città di Granata, col quale stabilivasi, che il Re di Francia assumesse il governo di Napoli e delle sue relative provincie, il Re di Spagna quello di Puglia e delle Calabrie, con le rispettive provincie, ripartendosi poi, in egual porzione, le entrate doganali delle pecore di Puglia [4].
Fatta questa lega fra Francesi e Spagnuoli, il povero Federico d’Aragona, dové battere ritirata, rifugiandosi, nel 1501, in Francia, dove dal Re Lodovico XII ebbe il ducato d’Angiò, che ritenne sino al 9 settembre del 1505, epoca nella quale cessò di vivere.
Con la dipartita di Federico, ebbe termine il dominio degli Aragonesi, e subentrò quello dei Francesi e dei Spagnuoli, nel regno diviso.
La concordia, però, stabilita tra Francesi e Spagnuoli non durò troppo a lungo. I Francesi erano guidati dal Duca di Nemours, Luigi d’Armagnac; gli Spagnuoli dal gran Capitano Consalvo Ernandes di Cordova. Gli uni e gli altri, sempre intenti a guardare i propri confini, gelosi e sospetti fra di loro, aspettavano l’occasione per trarre alla fine il miglior partito. E l’occasione non tardò a presentarsi. Gli Spagnuoli, che trovavansi a svernare in Sicilia, per passare di là al soccorso dei Veneziani contro i Turchi, nel 1501 occuparono la Calabria, la Basilicata, la Puglia e Terra d’Otranto. I Francesi contendevano la Capitanata ai Spagnuoli, specialmente per la dogana sulle pecore del Tavoliere delle Puglie. Indi, venuti a litigio coi Spagnuoli, ricorsero alle armi [5]. Essendo però i Francesi, di numero, superiori ai Spagnuoli, furono costretti a ritirarsi in Barletta, dopo d’aver perduta quasi tutta Terra d’Otranto, tranne Taranto, Otranto città e Gallipoli.
Con gli Spagnuoli erano Prospero e Fabrizio Colonna, il Duca di Termoli, i Conti di Popoli e Potenza, ed il valoroso Ettore Fieramosca di Capua [6]. I Francesi, rafforzati di altre settecento lance e di duemila Svizzeri, si ripartirono per le terre di Puglia, occupando Cerignola, Corato, Ruvo, Canosa, Minervino, Giovinazzo e Molfetta. Andria, perché ben custodita, non fu tocca dal francese.
Animati da tali conquiste i Francesi, guidati dal Duca di Nemours, vennero ad attaccare gli Spaguoli in Barletta. Al dire del Giovio, quell’assedio durò sette mesi, cessato a danno dei Francesi, i quali, circondati dagli Spagnuoli, parte accampati fuori le porte di Barletta, guidati dal valoroso Gran Capitano, e parte dentro le mura della città, affidati al comando del valoroso Diego di Mendoza, furono sbaragliati confusamente, molti lasciandovi la vita; moltissimi fatti prigionieri [7].
NOTE   
[3] D’Urso, Storia della Città di Andria, pag. 116
[4] Federico Lionard, Trattato di Granata, V. I, pag. 443
[5] De Angeli: Compendio di Storia universale.
[6] F. Faraglia: La disfida di Barletta, Cap. I, § 9 e 10.
[7] Giovio: Vita di Consalvo Ernandez, Lib. II, pag. 130-138.

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In questo frattempo avvenne la famosa Disfida di Barletta fra 13 Italiani e 13 Francesi, causata, secondo narrano concordemente il Giovio, lo Zurita, il Cantalicio, il Summonte, il Galateo (quasi tutti testimoni oculari di quell’avvenimento), da un villano insulto di vigliaccheria, che il Della Motte, di parte francese, avea scagliato contro gl’italiani, mentre trovavasi a pranzo in casa del Capitano Spagnuolo Enrico Mendoza, dove erano commensali, alla rinfusa, ufficiali Spagnuoli e Francesi.
A quell’insulto lo Spagnuolo Mica Lopez de Ayala, prendendo la difesa de-gl’Italiani, rispose sulle rime al villano Della Motte: inneggiando al valore degl’Italiani, del quale diceva averne avuto prova da un battaglione di questi, che aveva sotto il suo comando, e che a nessun’altro cedeva nel valore, aggiungendo, che se avesse voluto avere ancor lui una prova, gl’Italiani non avrebbero esitato un sol momento a contentarlo; tanto più che il valoroso Ettore Fieramosca ancora aspettava una risposta al guanto di sfida, che aveva mandato allo Spagnuolo Formans, per una simile ingiuria fatta agl’Italiani ! A tale proposta il De la Motte, preso forse dai fumi del vino barlettano, ne raddoppiò le insolenze, chiamando gl’italiani vigliacchi e fedifraghi, pronto a dar loro piena soddisfazione, col venire ad uno scontro colle armi.
Pervenuta notizia di quell’incidente a Prospero Colonna ed al valoroso Ettore Fieramosca, questi tosto inviarono al de la Motte due Cavalieri (Giov. Capocia e Gianni Brancalone) invitandolo ad una partita d’onore, scegliendo, a suo piacimento, un numero dei suoi più valorosi militi francesi, che s’incontrassero, con egual numero di militi italiani, in aperta campagna. Accettata la disfida, fu stabilito, d’ambo le parti, il numero di tredici combattenti, per ciascuna delle due parti [8]. Il luogo scelto per tale disfida fu il territorio di S. Elia, proprietà del Capitolo Metropolitano di Trani, messo tra Andria e Corato.
Il dì 13 febbraio del 1503, allo spuntar dell’alba, i 13 cavalieri italiani, capitanati dal valoroso Ettore Fieramosca, che contava allora appena 27 anni, unitamente ad un seguito di valorosi (fra i quali Pompeo Colonna, che fu poi Cardinale di Santa Chiesa e vicerè di Napoli [9], ed il Duca di Termoli), erano alle porte del nostro Duomo, in Andria, attendendo che s’aprissero, per assistere al santo sacrificio dell’altare, e raccomandare a Dio la loro causa. Fu nella Cappella del nostro Patrono S. Riccardo, che i 13 valorosi italiani vennero a giurare sul Vangelo, di non uscire dal campo che vincitori o morti; chiedendo, genuflessi, a Dio ed al nostro Santo Protettore, il loro aiuto pel buon esito della disfida [10], fatta a riparare l’oltraggio inflitto al nome ed al valore italiano [11].
Quella preghiera, ripetuta da quei valorosi sul campo di battaglia, prima di cimentarsi, fu accolta in Cielo, e la vittoria arrise loro, mettendo gl’italiani fuori combattimento tutti i 13 Franeesi, dei quali uno solo se ne salvò, Pietro de Liage, o secondo altri de Ghales, tratto fuori dai giudici del campo assai malpesto! mentre che i 13 italiani tutti ne uscirono incolumi.
La nuova di quella strepitosa vittoria, in un baleno, si sparse per tutte le città circonvicine; ed era un accorrere in Andria di persone di ogni condizione, per salutare i 13 vincitori. Il Gran Capitano Consalvo si fè trovare, con l’esercito Spagnuolo, sotto le mura di Andria ad attendere quei valorosi, per felicitarli [12].
Più festose accoglienze ebbero in Barletta, dove, al suono di tutte le campane della città, e dei concerti musicali, dalla Chiesa di S. Maria usciva il Clero, con la portentosa Immagine della Madonna dello Sterpeto, ad incontrare i 13 valorosi italiani, i quali, unitisi a quel corteo, si resero in Chiesa, a ringraziare Iddio e la Vergine della riportata vittoria [13].
In memoria di questa vittoria, nel 1583 (dopo 80 anni!) a cura del Duca di Airola, Ferrante Caracciolo, allora Preside della Provincia di Bari ed Otranto, fu fatto innalzare un monumento, detto oggi volgarmente Epitaffio, su cui fu fatta incidere la seguente epigrafe.
Quis Es. Egregiis Animum Si Tangeris Ausis,
Perlege Magnarum Maxima Farla Ducum,
Hic Tres atque Decem Forti Concorrere Campo
Ausonio Gallis Nobilis Egit Amor.
Certantes Utros Bello Mars Clare, et Utros
Viribus Atque Animis Auctet, Alatque, Magis.
Par Numerus, Paria Arma, Pares Aetatibus. et Quos
Pro Patria Pariter Laude Perisse Iuvet.
Fortuna Et Virtus Litem Generosa Dirernit,
Et Quae Pars Vitrix Debuit Esse Fecit.
Hic Stravere Itali Iusto In Certamine Gallos
Hic Dedit Italiae Gallia Victa Manus. [14]
Dopo questa umiliante sconfitta, l’esercito francese ne restò smagato. L’esercito spagnuolo, invece, ne prese animo; ed, ottenuti altri rinforzi dall’Imperatore Massimiliano d’Alemagna, venne a battaglia decisiva contro i francesi, riportandone strepitosa vittoria, presso Cerignola, il dì 27 Aprile di quel medesimo anno [15].
Intanto Luigi d’Ars, scampato da quella battaglia, si diede a raccogliere tutti i soldati francesi sparpagliatisi per la Puglia, e venne a fortificarsi nel Castello del Monte, occupando militarmente Andria [16]. Discacciatovi però dai Spagnuoli, prese la via di Venosa, mentre il Reame veniva sotto il dominio del Re Cattolico di Spagna, Ferdinando, il quale vi mandava, qual suo Vice Re, il Gran Capitano Consalvo Ernandes da Cordova.
In premio poi della riportata vittoria, Ferdinando donava la Duchea di Andria al Gran Capitano Ernandes, il quale venne a prenderne il possesso nel Settembre di quel medesimo anno 1503. Consalvo Ernandes si mostrò assai benevolo e generoso, accordando alla nostra città molti privilegi, fra i quali quello di non andar soggetta, se non che alla sola Corte di Andria, in tutte le cause civili e criminali. Questo privilegio venne poi confermato dal medesimo Re Ferdinando nel 1507, con Decreto dal Castel Nuovo di Napoli [17].
In quel medesimo anno (1503) Andria, come tutte le altre città del napoletano, fu tribolata dalla peste, che ridusse a metà il numero dei cittadini (ne contava 25 mila, come rilevasi dall’Archivio Capitolare).
Il Gran Capitano Ernandes, mosso a pietà, da Napoli dispose che il suo Erario di Andria servisse a fornire dell’occorrente gli ospedali della città, ed a sollevare i poveri Andriesi [18].
A propiziare il Cielo e placare lo sdegno di Dio, per quel terribile flagello, l’Università di Andria fe' voto di ricostruire la Cappella di S. Riccardo (messa nel Duomo), obbligandosi, con pubblico istrumento, di cedere a favore del Capitolo Cattedrale la gabella, ch’esigeva dalla vendita del pesce, perché il Capitolo, da quel ricavo, avesse celebrato, mundo durante, una messa piana quotidiana ed una messa cantata settimanale in suffragio dei cittadini morti di peste, e per la preservazione dei viventi, oltre all’obbligo di mantenere accese, notte e giorno, tre lampade (in detta Cappella) e di celebrare solennemente la festività di S. Riccardo il dì 9 Giugno. Nel medesimo rogito l’Università si obbligava inoltre di corrispondere annualmente al Capitolo ducati sei (sex aureos), per messe da celebrare nella Cappella di S. Sebastiano [19], oltre all’obbligo di mantener pure accesa, giorno e notte, una lampada in onore del Santo, ed offrire, annualmente, un grosso cereo di libre dieci all’altare di detto Santo. Per tali obblighi l’Università cedeva al Capitolo anche la gabella, che esigeva sul vino mosto [20]. Questo rogito fu munito di regio assenso nel 1546, sotto il governo del nostro Duca Consalvo Guevara da Cordova (nipote del Gran Capitano Consalvo Ernandes), essendo Giudice Delegato e Vicelege (ossia luogotenente) Giov. Andrea De Curtis.
Fra i Preti firmatarii di quel rogito figurano D. Icobellis de Robertis, Archipresbiter (Vicarius Ep. Andriae D. Ieronimi Porti Dei); Nicolaus Angelus de Mello Primicerius; Nardus De Verbigratia; Martinus de Rotundella; Paulus Gualagnuddo; Riccardus Vangella, Guglielmus Scaramutia; Natal de Cita, Loysius de Petrella, Nicolaus Caputo; Petrillus Ioannes Abatis; Iulius de Robertis; Matteus de Petusio; Simeon Anna; Ricardus de Robertis; Vincentius Verbigratia — Diaconi — Nicolaus de Forgiano, Mdtteus de Forgiano, Sabinus de Gllsulo, loannes de Metchione, Salvacor Iacobus de Canusio, Sebastiano de Grimaldis, Franciscus de Foredo — Altri, componenti allora il Capitolo, non sottoscrissero quel rogito, perché absentes a dicta civitate per pestem in ea civitate vigentem, come leggesi in detto rogito.
Oltre ai nomi degli Amministratori della città, che, per brevità qui omettiamo, figurano in questo rogito il Sindaco (Madinus de Iulianis) e più di cento firme di cittadini Andriesi d’ogni classe, i quali, raccoltisi tutti a pié dell’altare maggiore del Duomo, sui sacri Evangeli, giurarono di mantenere, mondo durante, a nome proprio e dei futuri amministratori e cittadini quanto in quel rogito erasi stabilito a vantaggio del Capitolo Cattedrale, il quale, nei suoi rappresentanti, con egual giuramento si obbligava di osservare, mundo durante, tutti gli obblighi assunti, dando, a garenzia, l’Università ed il Capitoio, tutti i loro rispettivi beni.
Questi rispettivi obblighi si sono fedelmente mantenuti sino ad un secolo fa, come si riscontra nei varii libri capitolari di procura, dove, fra gli atri introiti capitolari, figurano i sei ducati, che 1’ Università, annualmente, corrispondeva al Capitolo, e gl’introiti, che il Capitolo ricavava dalla vendita della Gabella sul pesce, e del vino mosto [21].
Intanto, nel 1507, il Gran Capitano Consalvo Ernandes da Cordova, Duca di Andria, e Vice Re di Napoli, veniva richiamato dal Re cattolico Fernando in Spagna, inviando, invece, come Vice Re a Napoli, D. Giovanni d’Aragona.
La nostra Ducea fu allora, dal Gran Capitano, a costui affidata; quando, nel 1515, avendo Consalvo maritata una sua figlia a Luigi Guevara de Cordova, suo parente, assegnò a questi, per dote della figlia, la Duchea di Andria. Il Guevara nel medesimo anno inviava in Andria Consalvo Ernandes della Torres, [nipote del Gran Capitano] a prendere il possesso e governo di questa città.
NOTE   
[8] I rappresentanti francesi, secondo attestano i cronisti italiani, furono De la Motte, Marco De Frange, Giacomo della Fontaine, Giacomo De Guigne, Franc. De Pises, Pietro de Liage, Giraut De Forze, Eliat De Baraut, Martellin De Sambris, Nanti De la Frais, Sachet de Sachet, Giov. De Laudes, Grujan d’Asti.
I rappresentanti italiani furono tre Romani, il Braccalone, il Capoccio ed Ettore Giovenale, detto per soprannome Peraccio; un Napoletano, Marco Corolario, Ettore Fieramosca di Capua, Ludovico Abenavoli da Tesine, Muriano Abignente da Sarno, Meale da Paliano di origine Toscano, Francesco Salomone e Guglielmo d Albomonte siciliani, il Riccio da Parma, Tito (o Bartolo) da Lodi detto il Fanfulla, (perché sprezzante d’ogni pericolo in battaglia) e Romanello da Forlì.
(Vedi Giovio, Vita magni Consalvi, tradotta da Ludovico Domenichi, Lib. II, pag. 136).
[9] Giovio, De vita Pompei Columnæ, Tomo II, pag. 397.
[10] Nel 1903, quarto centenario di quella disfida, fu murata, a lato della facciata esterna del nostro Duomo, una lapide commemorativa di quell’avvenimento.
[11] D’Urso, Storia di Andria, pag. 119.
[12] D’Urso, loco citato.
[13] Sabino Loffredo, Storia della città di Barletta, Vol. II, pag. 32.
[14] Nel 1805, trovandosi in Andria un reggimento di soldati Francesi, a causa della invasione del Bonaparte nel Regno delle due Sicilie, di notte tempo, parecchi di quei militi impresero ad abbattere quel monumento. Ma, nel 1846, il Capitolo Metropolitano di Trani (cui apparteneva quel fondo) lo fece rialzare, aggiungendovi quest’altra iscrizione:
PATRIÆ GLORIÆ MONUMENTUM
CAPITULUM TRANENSE
REFECIT MDCCCXLVI
[15] Il luogo dove avvenne questa battaglia fu detto la tomba dei Galli.
[16] Guicciardini, Storia d’Italia, Lib., VI, Cap, III.
[17] Da un rogito del Notar Facinio, riassunto dal Notar Cesare de Morsellis a dì 23 ottobre 1561.
[18] Da un pubblico rogito del Notar Antonello Picentino, reso pubblico dal Notar d’Elia a dì 19 Novembre 1508.
[19] Quella Cappella ora e compresa nell’Oratorio del Duomo, ove esiste il quadro di S. Sebastiano. L’altare è dedicato alla Vergine del Carmelo.
[20] Archivio Capitolare.
[21] Ed ora dove sono andati quegli obblighi che, con giuramento, si assumevano dalla Università? Dove è andato il dazio sul pesce, che si concedeva al Capitolo, per celebrare le messe pro defunctis e pro vivis, e per mantenere quotidianamente accese le tre lampade a S. Riccardo? Dove è andato il dazio sul vino mosto ed i 6 ducati d’oro, che l’Università giurava di corrispondere, mundo durante, al Capitolo per le messe da celebrare, per le lampade ed il cereo di dieci libre, d’accendere in onore di S. Sehastiano? Passata la peste, tutto è finito, ed il Capitolo è rimasto colle spine del pesce in gola e coll’aceto in bocca!

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In questo tempo troviamo Preti della Cattedrale, oltre a quelli innanzi segnati, i seguenti:
Arcidiacono D. Trojanus dello Fundone, Primicerio D. Petrus Piego, Sebastianus ..., Matheus Taxiano, Natalis in Cita, Vidremius Richardus Cocco, Richardus Rentio, Iuliui ..., Vitus de Ruta, … Capo Santo, Marinellus... La Tilla, Salvator ..., Antonius ..., Nicolaus Taxiano, Nicolaus Caputo, ... Marullo, Richardus Monaco, Richardus De Roberto, Sansanettus Spoletino, Guglielmus …, Richardus lo Priore di S. Riccardo, Bernardinus Caporio, Iantullus ..., Iulianus ..., Cero, Paulus de Contulo, ... Ioito, Petrus de Grasso, Ioannis de lo Petuso, Nardus Barotesse, Bartolomeus …, Dominicus …, Pascullo …, Sexio, Savinus …, Acthomao, Natalis Albanese, Ioannis de la Forgia [22].
Intanto, nel 1495, moriva il Vescovo Angelo Florio, del quale abbiamo parlato nel Capo precedente, succedendogli Mons. Girolamo dei Porcari, appartenente ad una nobile e virtuosa famiglia Romana [23]. Egli fu preconizzato Vescovo di Andria da Papa Alessandro VI (1492 - 1503), secondo l’Ughelli, a 31 Marzo del 1495; invece, secondo il Cappelletti, a 28 aprile di detto anno [24]. Mons. de Porcari occupò la sede Vescovile in Andria per otto anni, essendo morto in Roma nel 1503. Fu tumulato nella Chiesa di S. Maria sopra Minerva, nel sepolcro gentilizio di famiglia [25].
A Mons. de’ Porcari tenne dietro Mons. Fr. Antonio De Roccamaro, dei minori osservanti, di nazione Spagnuolo, preconizzato Vescovo a dì 22 dicembre del 1503 da Papa Giulio II (1503 - 1513), dietro raccomandazioni del nostro duca e Vice Re di Napoli, il Gran Capitano Consalvo Ernandes de Cordova. Tenne questo Vescovo la Sede di Andria per dodici anni, rinunziandovi poscia, per tornare alla vita religiosa monastica, nella quale santamente visse gli ultimi anni di sua vita [26].
A Mons. De Roccamaro successe, a dì 3 Marzo 1515, un nostro concittadino, Andrea Pastore, che il D’Urso dice essere stato Prete Cappellano della Chiesa Collegiale della SS.ma Annunziata extra mœnia [27]. Egli tenne appena un anno il governo della nostra Chiesa, essendo stato deposto dal medesimo Papa, che lo preconizzò (Leone X (1513 - 1521) perché resosi indegno per la sua condotta. Di questo Vescovo scrive l’Ughelli: vix anno elapso a sua inauguratione, suis exigentibus demeritis, ab eodem Leone Papa, pubblico in concistorio, Episcopatu, omnibusque dignitatibus spoliatus, privatusque est [28]. Il Durso dice per delitto di simonia [29].
NOTE   
[22] Archivio Capitolare, Libro di procura del 1514, 1 puntini indicano che i nomi sono inintelligibili.
[23] Ughelli, Italia Sacra, Tom. VII - Cappelletti, Chiese d’Italia, loc. cit.
[24] Cappelletti, ibidem.
[25] Ughelli, ibidem.
[26] Ughelli, ibidem.
[27] D’Urso, Storia d’Andria, pag. 123.
[28] Ughelli, loc. cit.
[29] D’Urso, Storia d’Andria, pag. 123.

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Per rapporto poi ai fatti civili, in questo torno di tempo, i Francesi, ad onta che fossero stati tanto umiliati dagli Spagnuoli e dagl’Italiani, pure, dopo circa un ventennio, vollero ritentare la conquista del Reame di Napoli, a favore del Conte di Vaudemont, erede di casa Angiò.
Collegatesi in uno le armi francesi, svizzere, venete e fiorentine, ed anche le pontificie, a favore di Francesco I, Re di Francia (succeduto, nel 1515, a Luigi XII), impresero la guerra contro Carlo V di Spagna (succeduto a Ferdinando il Cattolico), alleato all’Imperatore di Alemagna (di cui era parente), e Francesco I, alleato al Papa, allora Clemente VII (1523- 1534).
Cominciate le ostilità dall’esercito collegato, questo ne riportò la peggio. L’esercito di Carlo V, guidato dal contestabile di Borbone, diede a Roma il famoso sacco (descritto con tanta vivacità dal Cellini), che non trova riscontro, se non nelle invasioni degli Unni e dei Tartari ! Il Papa stesso, Clemente VII, fu tatto prigioniero in Castel S. Angelo!
Udita la prigionia del Papa, il Re Francesco I, chiesto aiuto al Re d’Inghilterra, mandò in Italia 50000 uomini, comandati da Odetto di Foix, Signore di Lautrech, il quale pose a sacco e fuoco la città di Pavia. Clemente VII, a dì 9 dicembre del 1527, poté intanto fuggire da Castel S. Angelo ad Orvieto, dove eransi accampati gli alleati, i quali, poco dopo, vollero tentare la riconquista del Regno di Napoli. Le milizie di Re Carlo, comandate dal Principe di Orange, vice Re di Napoli, vennero a raccogliersi in Troja, dove furono rafforzate da militi, che il Marchese del Vasto conduceva da Roma. Ma, vista la superiorità dei collegati l’esercito di Re Carlo si ritirò a Napoli, mantenendo, sotto il comando di Sergianni Carocciolo, una parte sola dei militi italiani e spagnuoli, fortificatisi a Melfi, dove presto furono raggiunti da una parte dell’esercito nemico, capitanato dal valoroso Pietro Navarro; mentre l’altra parte, composta di militi veneziani, sotto il comando di Renzo da Ceri e dei fratelli Valerio e Camillo Orsini, veniva a mettere in soqquadro la nostra Puglia.
Avvenuta la presa di Melfi, dopo sanguinosa battaglia, Polignano, Monopoli, e poscia Barletta si dettero ai veneziani [30]. Sconfitti a Napoli gli alleati, ritornarono all’assedio di Puglia, fortificandosi in Barletta, dove fecero strage di quella città, adeguando al suolo palagi, Chiese, Monasteri, distruggendo ogni cosa sacra e profana)!
Ma, più che Barletta, Andria dovè sperimentare la ferocia di quell’idra in-fernale, che fu il Signore di Lautrech, Odetto de Foix. Sapendo egli che Andria trovavasi sotto il governo dei Cordova, e memore delle umilianti sconfitte, patite dai francesi, per opera del valoroso Gran Capitano Consalvo Ernandes de Cordova, colse il destro per farne sommaria vendetta, mettendo a sacco e fuoco la nostra città, senza pietà alcuna! Ma, ben presto la mano di Dio lo raggiunse! Fatto rotta a Napoli, per ritentare l’assalto a quella città, vi morì sotto le mura di essa, nell’agosto di quell’anno medesimo, colpito dalla peste, che divampava nel Reame! A lui successe, nel comando dell’esercito francese, il Marchese di Saluzzo.
NOTE   
[30] Gregorio Rosso: Histor. delle cose di Napoli, sotto l’imperatore Carlo V., pag. 14.

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Queste lotte, che funestavano il nostro Reame, accompagnate, per conseguenza, dalla miseria e dal cattivo alimento dei popoli, furono causa della peste che, terribile, colpì la povera Italia in quell’anno [31].
Erasi la peste manifestata, in prima, nella parte settentrionale d’Italia, e poscia propagossi ferocemente nella parte meridionale, per mezzo delle soldatesche, che vi scorazzavano, senza punto usare delle regole sanitarie.
Andria, riavutasi appena dalla peste, che la colpì nel 1503, a 25 anni di distanza, si vide nuovamente visitata da questo flagello, che la ridusse ad 8000 anime appena, delle 25000, che ne contava già sin dal 1328! Questa peste si presentò con fenomeni del tutto nuovi e strani. Le persone, colpite da essa, erano invase prima da una febbre altissima, che toccava il cervello, in modo che, i poveri attaccati da quel male, davano alla pazzia, con tendenza a volersi dare la morte col precipitarsi dalle finestre, o dai tetti, o nei pozzi! Perciò quel malore fu chiamato, volgarmente, il male mazzucco.
Intanto, ad onta che infierisse la peste, purtuttavia le ostilità non cessavano fra i due eserciti combattenti. Finalmente, dopo qualche tempo, il Marchese di Saluzzo, chiuso in Aversa, venne a capitolare, e rendeva la città al Principe d’Orange. Indi i francesi vennero sconfitti in Lombardia, mentre il regno di Napoli era quasi tutto occupato dagli Spagnuoli.
Ma era tempo oramai di farla finita con le guerre. I popoli erano avviliti e stanchi da tante stragi e saccheggi, cui si aggiunsero la peste ed una terribile carestia, che afflisse in quel tempo, quasi tutta l’Italia. La pace era da tutti desiderata. E questa, finalmente, fu conchiusa fra Carlo V di Spagna e Francesco I di Francia, prima con la così detta pace delle dame, e poscia, a dì 5 agosto del 1529, col trattato di Cambrais [32].
In virtù di questo trattato, Venezia dovè cedere alla Spagna tutti i porti della Puglia sull’Adriatico; e così la Spagna divenne assoluta padrona del regno di Napoli.
A complemento della desiderata pace, fu poi stipulata, in Bologna, la così detta pace eterna, tra il Papa Clemente VII, l’Imperatore Carlo V. di Spagna, suo fratello Ferdinando (divenuto Re d’Ungheria e di Boemia), i veneziani, i Duchi di Milano, quelli di Savoia, di Mantova ed il Marchese di Monferrato. Indi, in virtù di quella pace, nella medesima città di Bologna, Papa Clemente VII, addì 22 febbraio di quell’anno 1530, poneva sul capo di Carlo V la corona di Lombardia; ed a dì 24 marzo del medesimo anno, quella dell’Impero, avendo Carlo V appena 30 anni d’età [33].
Dopo tali avvenimenti, pareva a tutti che, veramente, la pace dovesse mantenersi eternamente nel nostro Reame! Ma non fu così. Francesco I di Francia andava cercando il pretesto, per riattaccare la guerra, macchinando sempre a danno di Carlo V, suo rivale, Ed il pretesto non mancò. La decapitazione del francese Merveilles, eseguita a Milano, fu il pretesto; la morte di Papa Clemente VII fu l’occasione. Onde, raccolto un poderoso esercito, affacciò nuove pretese contro una parte della Savoia, per aver libero l’adito in Italia.
Ne gli sforzi di Carlo III di Savoia, parente ed alleato a Carlo V di Spagna, valsero ad impedire l’entrata dei francesi in quella città, i quali militarmente l’occuparono. Intanto, mentre Francesco I si fortificava in Torino ed in altre città del Piemonte, Carlo V invadeva, nel 1536, la Francia. Francesco I. di rimando, istigava il Sultano Solimano a muovere da Costantinopoli, a danno dell’Imperatore Carlo V; e nel luglio del 1537, difatti, Solimano concentrava in Valona un poderoso esercito, per assalire il reame di Napoli, minato anche dai fuorusciti napoletani. A Solimano tenne fronte D. Pietro di Toledo (da Carlo V proposto vice Re di Napoli), il quale con forte esercito di napolitani e di spagnuoli, fece allora fortificare castelli, e sorgere, lungo il lido pugliese, molte torri, ben tornite di presidio. Ma, per quanto il Pontefice Paolo III (1534-49) (succeduto a Clemente VII) si fosse adoperato per conciliare questi due potenti rivali, per altrettanto tornavano sempre a nuovi assalti.
Né l’orgoglio francese si arrestò con la morte di Francesco I, giacché, succeduto a lui nel trono Enrico II, questi ne riprese le ostilità con maggior vigore, facendosi scudo dei turchi, i quali, profittando delle discordie dei Principi d’Italia, faceano capo spesso spesso nella Penisola, costeggiando specialmente il litorale del Vicereame di Napoli. Carlo V, che mirava a stabilire l’esclusivo dominio del cattolicismo, non è a dire quanto odiasse i turchi e gli ebrei, che erano allora sparpagliati nel Reame. Ma, oppresso dai continui travagli delle guerre, e deciso di cessare i suoi giorni nella pace cristiana, nel 1556, cedeva a suo fratello Filippo II il governo dei Paesi Bassi, e, poco dopo, il Regno di Spagna: al fratello Ferdinando la corona imperiale e gli stati ereditari austriaci, ritirandosi Egli in una casa, attigua al Convento di San Giusto in Ispagna, dove santamente visse i suoi ultimi anni.
NOTE   
[31] Muratori: Annali d’Italia, sub anno 1528.
[32] Gregorio Rosso: op. cit., pag: 51-57. - Giovio, Vita di Consalvo Ernandez.
[33] Fu questa l’ultima Incoronazione, che vide l’Italia.

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Che, se travagliosi giorni correvano, in quel tempo, per le vicende politiche, non meno travagliosi correvano per le vicende religiose ed ecclesiastiche.
La Chiesa Cattolica trovavasi a combattere con potenti nemici, quali un Lutero in Germania, un Calvino in Francia, un Zuinglio nella Svizzera, un Enrico VIII in Inghilterra! L’Italia si trovò alle prese coi novatori, facendovi anche capolino la pretesa riforma di Martin Lutero, ed il chatechismo di Giordano Bruno, di Paolo Ricci, di Fremerio Ferrarese, di Celso Martinengo, del Marat, del Polo, del Battista Scoto, del Valdes, del Flamminio, dell’Odone, del Ladislao, del Bucero, del Giannetto e di cento altri, che infestarono le nostra Italia con le loro infami eresie, propagando le nuove idee della Riforma [34]. Le istituzioni del medio evo ed il Papato ne risentirono non lieve scossa.
Fra tanto scompiglio di Popoli, tra tanta titubanza di eventi politici e religiosi, una voce risuonò pel mondo, la necessità dì un Concilio Ecumenico. Questa voce fu accolta da Papa Paolo III, il quale, con solenne Bolla, il dì 13 dicembre 1545, raccoglieva a Trento un Concilio Ecumenico. A causa, però, della guerra e della peste, che allora infierivano, quel Concilio da Trento, fu trasferito a Bologna nel 1547.
Nel 1550 Giulio III (1550-1555) successo a Paolo III nel Pontificato, nuovamente lo convocò a Trento. Nel 1552, per nuovi timori, fu sospeso; ma, nel 1561, Pio IV (1559-1565) lo riaprì e lo chiuse.
Quel Concilio fu un portentoso controveleno agli errori, propagati dalla Riforma di Lutero, apportando, nel contempo, un riordinamento nella disciplina ecclesiastica e negli studii, consolidando cosi l’integrità dell’insegnamento cattolico. I canoni di quel Concilio formano oggi il Codice della giurisprudenza ecclesiastica, accomodata ai bisogni dei tempi moderni; e sono, per i Canonisti, la norma più sicura del loro operare.
Una forte reazione alla Riforma di Martin Lutero dettero pure allora Ignazio di Lojola (con la istituzione della Compagnia di Gesù, invitta battagliera, che, da circa quattro secoli, va smascherando l’ipocrisia di tanti nemici di Dio e della Chiesa), Gaetano Tiene, Filippo Neri, Giuseppe Calasanzio, Camillo de Lellis, Girolamo Miano, Pietro Canisio, Angela Merici, Lorenzo Strozzi, Maddalena dei Pazzi, Caterina dei Ricci, spargendo dovunque il buon seme d’ogni virtù civile e religiosa.
Intanto la guerra tra la Spagna e la Francia continuava ancora, quando, finalmente, a dì 3 aprile 1559, fu conclusa una nuova pace a Cateau - Cambrésis, con un trattato, nel quale si stabiliva, che Milano, con alcune terre al di là del Po, si appartenesse alla Spagna.
Con questa concessione la Spagna, che già possedeva il regno di Napoli, la Sicilia, la Sardegna e lo Stato dei Presidii in Toscana, maggiormente si consolidò. A rafforzare poi quella pace, venne il matrimonio tra Filippo di Spagna ed Elisabetta di Francia.
Così cessò ogni contesa fra le due rivali nazioni.
L’Italia, da che fu aggregata da Carlo V alla monarchia di Spagna, fu, per un secolo e mezzo, sotto la dominazione Spagnuola.
NOTE   
[34] Cantù: Gli eretici in Italia, Vol. II.

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In questo frattempo, la Duchea di Andria, sino al 1544, fu tenuta da Consalvo Ernandes della Torres, per conto di Alojsio Guevara, de Cordova. Ma, morto nella Spagna, Alojsio Guevara, la Duchea passò a suo figlio Consalvo II, il quale, a dì 5 ottobre 1544, inviava qui in Andria, qual suo luogotenente, il gentiluomo Giorgio de Salzedo, a prenderne il possesso, togliendola dalle mani di Consalvo Ernandes della Torres. Questi, appassionatissimo della nostra città, nel cedere la Duchea al De Salzedo, domandò la cittadinanza andriese, che gli venne ben volentieri accordata.
Non avendo il della Torres prole alcuna, dispose delle sue ricchezze a vantaggio della nostra città, in varie opere di beneficenza. Dei tanti beni acquistati in Andria, chiamò erede il Monte di Pietà, da qualche anno prima (1542) fondato dal nobile cittadino andriese Federico Tommasini, per sovvenire ai bisogni dei poveri della città [35].
Il De Salzedo, avendo menato seco in Andria una sua sorella, per nome Anna, vedova del Marchese di Marcianise (D. Giovanni Poggios), questa si affezionò talmente alla nostra città, dalla quale non volle più distaccarsi. Donna piissima e virtuosissima, beneficò di molto la nostra città e, più di tutti, la Chiesa dei Minori Osservanti di S. Maria Vetere. In quella Chiesa fe’ costruire un altare sotto il titolo dell’Annunziata, a piè del quale fe’ aprire una tomba, per depositarvi, poi, la sua spoglia mortale [36].
Nel giorno della festività di S. Gioacchino e S. Anna (suo onomastico) faceva grandi elargizioni a favore di quei buoni frati e degl’infermi poveri della città, raccolti nell’ospedale di quel Convento.
Consalvo II Ernandes de Corduba fu l’ultimo Duca Spagnuolo, che tenne la Duchea di Andria, amministrata dal suo luogotenente Giorgio De Salzedo. Questo Consalvo confermò a favore del Capitolo Cattedrale il privilegio della Fiera, di cui è fatto innanzi parola, con diploma in data 25 gennaio 1550.
Intanto, costretto a risiedere nella Spagna, Consalvo II pensò disfarsene della Duchea di Andria, offrendola per la somma di ducati centomila, a chi avesse voluto acquistarla. Questa notizia dette il capogiro alla nostra città, divisa allora nei varii ceti dei nobili, dei civili e dei plebei. I primi pensarono voler essi sborsare quella somma, per comperare la Duchea con tutti i suoi diritti e privilegi relativi. I secondi, ingelositi, cominciarono a tumultuare. I terzi a menar le mani! L’intervento degli Ecclesiastici, specialmente della Cattedrale, valse a scongiurare la guerra civile, che stava per scoppiare, in Andria, per tali dissensi. Ma finalmente, dopo tanto strepito, si seppe che il Conte di Ruvo, D. Fabrizio Carafa, trattava già con Consalvo di Corduba, per l’acquisto della Duchea d’Andria. A tale notizia gli animi si tranquillarono, conoscendo la bontà ed il lustro di questa nobile famiglia [37], che ha dato alla Chiesa Vescovi e Porporati insigni, ed alla Somma Potestà delle Sacre Chiavi Paulo IV, nella persona di Giovanni Pietro Carafa.
Però, non avendo in pronto il Conte Carafa tutta la somma richiesta, era sul punto di smettere il pensiero di quell’acquisto. Saputosi ciò dalla nostra Università, ad iniziativa degli Ecclesiastici e di altre notabilità della città, si pensò venire in aiuto del Carafa, donandogli ducati quindici mila, somma richiesta a completare i centomila, convenuti col Duca Consalvo, a condizioni, però, che il Conte Carafa, con pubblico istrumento, confermasse tutti i privilegi, immunità, prerogative, capitali, statuti, consuetudini, officii ed altre osservanze, concesse dai Sovrani e dai Duchi predecessori alla nostra città ed al nostro Capitolo, con la espressa dichiarazione che, mancando a qualsiasi osservanza, il Conte Carafa fosse tenuto alla restituzione dei quindici mila ducati offertigli [38]. Quest’istrumento fu redatto per notar Nicolangelo Facinio di Andria [39], firmato dal Conte Fabrizio Carafa e dai rappresentanti l’Università di Andria, nelle persone dei signori Giammarco Leopardi, Domenico Sagariga, Giacomo Tesoriero, Ferdinando De Angelis, Flavio Curtopassi, Alessandro Spoletrino, Fabio Cito e Giambattista Bianco. Stipulato quell’istrumento, col quale il Conte si obbligava a tutte le condizioni impostegli dalla Università, fu allora sborsata la detta somma dei ducati quindici mila [40], con altro pubblico istrumento per notar Gian Nicola Giulietta di Napoli, ratificato dal signor Marco Andrea Scoppa, Giudice a contratti, in data 24 ottobre del 1556. Ottenuta quella somma il Conte Fabrizio Carafa sborsava al Duca Consalvo i centomila ducati, ricevendone, in controcambio, il possesso della Duchea di Andria, con tutti i suoi diritti e privilegi, ed il Castello del Monte [41].
Ottenuta la investitura della Duchea da Re Carlo V nel 1552, nell’anno successivo, il nuovo Duca, il Conte Fabrizio Carafa, venne in Andria a prenderne il possesso, menando seco la Duchessa Porzio, sua moglie, e i suoi quattro figli Antonio, Vincenzo, Francesco ed Orazio. Fé quindi tutto restaurare il palazzo ducale [42], spendendovi circa centoventimila ducati [43]. Però il povero Duca Fabrizio potè godere appena per cinque anni del suo feudo e del palazzo ducale, essendo morto nel 1557 [44].
A Fabrizio succedeva nella Duchea d’Andria il suo primogenito Antonio Carafa, il quale, nel 1559, sposò D. Adriana Carafa, sua parente. Ma, nell’anno successivo al suo matrimonio, fu colpito dalla morte, lasciando incinta la consorte, che dette poi alla luce un pargoletto, cui fu dato il nome di Fabrizio II. Cosiché la Duchea di Andria, nel breve periodo di quattro anni, passava per le mani di tre personaggi di Casa Carafa.
Con Antonio Carafa furono iniziate le lotte fra i Vescovi ed i Duchi di Andria di Casa Carafa, dopo cinque anni appena, da che furon messi nel possesso della Duchea d’Andria! Nel 1557, morto appena Fabrizio (I Duca d’Andria di casa Carafa, e IV Conte di Ruvo), suo figlio Antonio, che successe al padre nella Duchea, nella quaresima di quell’anno, recatosi nel Duomo, per ascoltare la predica, volle occupare la prima sedia, delle tre, che erano destinate, una pel Vescovo, l’altra pel Duca e la terza pel Principe Francesco, suo zio. Corrucciato il Vescovo (allora Mons. Gian Domenico Fieschi) di questa mancata deferenza alla sua episcopale dignità, inviò il suo cerimoniere, D. Alessandro de Tuccio, ad avvertire il Duca, che avesse ceduta la prima sedia al Vescovo, secondo l’usanza, e che si fosse accontentato di occupare la seconda o la terza. Non l’avesse mai detto … Adirato il Giovane Duca, mette mano al pugnale, ed avventasi, come una jena, contro il povero Cerimoniere, il quale ne avrebbe rimessa la vita, se la Duchessa madre, D. Porzia Carafa, che trovavasi lì accanto, non fosse tosto accorsa a riparare il colpo, e mettere fuori della Chiesa il furibondo figlio [45]. Cosi Andria cominciò, ben presto, a sentire il peso delle catene, che si era comprate con lo sborso dei 15mila ducati a favore di Casa Carafa!
NOTE   
[35] Nel 1573, un altro nostro concittadino, Francesco Remontizzi donava anche una parte dei suoi beni al Monte di Pietà, mentre l’altra la donava all’Arciconfraternita dei Bianchi istituita nella Chiesa di Porta Santa, sotto il titolo del Gesù.
[36] Questa pia donna morì in Napoli, nel 1583, dove era stata costretta dal fratello Giorgio a ritirarsi, sin dal 1563, essendo stata venduta la Duchea di Andria dal Duca Consalvo II al Conte Carafa. Essa fu tumulata provvisoriamente nella Chiesa di S. Gioacchino in Napoli, e poi di là il suo cadavere fu trasportato in Andria, e tumulato nella Cappella della SS. Annunziata nella Chiesa di S. Maria Vetere, giusta le sue disposizioni testamentarie per Notar Decio Benincasa. In quel testamento istituiva suo erede universale e particolare di tutti i suoi beni, e di quelli pervenutigli dal suo marito (il Marchese di Marcianise), il Monistero di S. Maria Vetere di Andria, imponendo ad esso vari legati per opere di beneficenze, fra i quali quello di spendere la quarta parte di ciò che annualmente perverrà franco dall’eredità, al giorno della festa di S. Anna di qualsivoglia anno in perpetuum dispensarla a vestiti dei poveri, tanto mascoli quanto femmine, e quelli elemosinaliter dispensare per l’anima di essa signora testatrice a persone povere e bisognose ut supra (dal suo testamento).
Morta la Signora Salzedo, i frati Minori Osservanti si posero in possesso della detta eredità che, depurata dei vari legati, e delle spese per la rifazione del Convento di Andria, ascendeva a ducati tremila, impiegati parte sui beni dei Signori Turboli di Napoli e parte su quelli del signor Marchese di Marcianise, ricavandone l’interesse dell’8 per 100. Però questa eredità venne contrastata ai buoni frati dalla reverenda Fabbrica di S. Pietro, perché incapaci di ereditare, giusta le regole del loro Istituto. Ma i frati di S. Maria Vetere porsero supplica al Papa di allora Sisto V, il quale, con Bolla Apostolica Exigit incumbentibus etc. concesse facoltà a quei frati di poter accettare la eredità della signora Salzedo, e di poterne disporre a loro piacimento.
[37] La famiglia Carafa è antichissima, e, secondo alcuni scrittori, ella discende dall’antico regno di Boscia, provincia del reame di Polonia. Il suo casato ha origine dalla nobilissima casa i Korczar, di cui furono i duchi di Bibel. Secondo il Buonsimio, uno di questi duchi fu Re d’Ungheria. La voce Korczac, in lingua polacca, suona vaso da bere, simile a quella misura, che noi chiamiamo Caraffa (poco meno del litro). Molti scrittori ritengono che questa famiglia Carafa sia una medesima colla famiglia Caracciolo di Napoli, detta, per soprannome, Caraffa. Difatti, in una epigrafe, che trovasi nella Chiesa di S. Domenico in Napoli, leggesi: hic requiescit Domnus Matheus Caracciolo, dictus Carafa, miles qui obiit A D. 1315. L’arma dei Carafa ha una differenza solamente in ciò, che un ramo di quella famiglia ha, nello stemma, una spina, l’altra la statera fuori dello scudo, come si vede nei Carafa Duchi di Andria, col motto: hoc fac et vives. (Filiberto Campanile: Famiglie nobili di Napoli). Questo stemma si riscontra sul palazzo ducale, oggi proprietà dei signori Conti Spagnoletti-Zeuli, ed in molti altri siti della città.
[38] D’Urso, Storia d’Andria, pag. 128.
[39] Quest’istrumento conservavasi nell’Archivio Ducale.
[40] Per mettere insieme questa somma, l’Università vendé tutte le sue gabelle a D. Ascanio Caracciolo per annui ducati mille trecento dieci, ritirando il capitale dei quindici mila ducati da dare al Carafa. (Dall’archivio capitolare: libro dei privilegi, pag. 27).
[41] Così la nostra città venne sotto il dominio di casa Carafa, la quale, se ebbe uomini illustri per virtù civili e religiose, ebbe pure persone, che tanto male fecero alla nostra città, e specialmente al nostro Capitolo ed ai Vescovi pro tempore, dei quali furono il pesante martello, come a suo tempo diremo. Con lo sborso dei 15 mila ducati, Andria si comprò le sue catene! L’atto di compra fu stipulato in Napoli fra il Conte Fabrizio Carafa e Giovanni Ramirez, costituito procuratore di Consalvo Da Corduba.
[42] Questo palazzo ducale rimonta ad un’epoca antichissima, Pare che, in origine, fosse stato un antico castello. Fu esso abitato da qualche Conte Normanno, e poscia dallo Svevo Federico Secondo e da Manfredi suo figlio. I Duchi del Balzo lo modificarono di molto, riducendolo a palazzo principesco, ed ingrandendolo. Fabrizio Carafa lo ridusse a nuova forma, e vi aggiunse anche nuove fabbriche, spendendovi circa centoventimila durati, secondo narra il D’Urso. Per la sola gran sala vi spese ducati ventottomila! Vi era una scuderia capace per 50 cavalli e relativi palafrenieri. Il cortile, assai spazioso, sembra di costruzione normanna. Ai tempi ducali la gran sala era adibita per i pubblici affari, dove riunivasi la Corte Ducale, dal che prese il nome di Corte la piazza adiacente a quel palagio.
Caduto il feudalismo, e costretti i Carafa ad esulare dal loro feudo, Carlo, ultimo dei Duchi Carafa, vendette il palazzo ducale ai Signori fratelli Pasquale ed Onofrio Spagnoletti Zeuli di Andria, i quali lo ridussero, poi, a nuova forma, serbando, per quanto era possibile, qualche cosa dell’antico. Sull’angolo, che prospetta la Piazza Catuma, eravi una grande terrazza, sulla quale il Signor Pasquale Spagnoletti, nel 1866, vi costruì nuove fabbriche, attaccate alla Sacrestia della Chiesa Cattedrale, togliendole, perciò, molta luce ed aria. L’altro fratello Sig. Onofrio restaurò e rafforzò poi tutto il lato prospiciente la piazza della Corte; ed oggi quel palazzo, benché abbia perduto molto dell’antico, pure ricorda l’epoca vetusta della sua esistenza, e forma un monumento insigne d’arte medioevale e d’arte moderna insieme.
[43] D’Urso, Storia d’Andria, pag. 131.
[44] Circa i figli di Fabrizio Carafa par che fosse incorso qualche equivoco. Il D’Urso, parlando del Beato Carlo Carafa, dice che, su di costui, è corso un gravissimo errore storico, giacché il P. D. Pietro Gisoldo e gli alunni dell’Istituto dei pii Operai, dal B. Carlo fondato, lo fanno nascere da questo Fabrizio e D. Caterina di Sangro; mentre che, secondo il D’Urso, (il quale dice di aver avuto nelle mani l’albero genealogico di questa famiglia), il Beato Carlo non fu figlio di Fabrizio, ma di Francesco, terzogenito di Fabrizio, del quale non fu moglie D. Caterina di Sangro, ma D. Porzia Carafa. E ciò (dice il D’Urso) tanto vero che, secondo risulta dal medesimo albero genealogico, il Beato Carlo nacque nel 1561, mentre il Duca Fabrizio era già morto fin dal 1557. Aggiungasi (secondo il D’Urso) che Francesco (terzogenito di Fabrizio), come risulta dal medesimo albero genealogico, dalla seconda moglie Giovanna de Cardines ebbe quattro figli, Antonio, Vincenzo, Federico, e questo Carlo (che fu l’Istitutore dei Pii Operai).
A noi sembra però che il D’Urso s’inganni a partito, ad onta che dica d’aver avuto fra le mani l’albero genealogico della famiglia Carafa. Ma è possibile mai che questo errore (se errore può dirsi) sia stato seguito nei processi di beatificazione del Beato Carlo Carafa, dove questi è ritenuto figlio di Fabrizio e non di Francesco Carafa? E ciò confermano i testimoni nella causa di canonizzazione promossa nel 1786. E quei testimoni sono in gran parte di casa Carafa, come D. Gregorio Carafa, Arcivescovo di Salerno, D. Simone Carafa Messanense, ed altri a quella famiglia legati da parentela od amicizia, come Mons. Lancellotti, Vescovo di Nola, D. Luigi Sanseverino, Principe di Bisignano, il P. Carmignano Preposito Generale della Congregazione dei Pii Operai, istituita dal medesimo B. Carlo, il Duca di Bisaccia, il Marchese Caracciolo, il Vescovo di Taranto D. Tommaso Caracciolo ed altri. Ed è mai possibile, che tutti quei signori non avessero avuta conoscenza dell’albero genealogico di quella famiglia? E chi non sa poi quanto rigore vi si annette dalla S. Sede ai processi di canonizzazione dei Santi? Ebbene, da quel processo e dalle prove testimoniali risulta, che il Beato Carlo Carafa nacque in Marignanello (presso la città di Nolo) feudo di D. Fabrizio Carafa, Duca di Andria e Conte di Ruvo, padre del detto Beato Carlo, la di cui madre fu D. Caterina di Sangro, sorella dell’Arcivescovo di Benevento e Patriarca d’Alessandria, D. Alessandro di Sangro. (Dagli atti della S. Congregazione dei Riti, E.mo et Rev.mo Domino Card. Vicecomite 1786).
[45] Archivio capitolare. Dal libro delle persecuzioni contro il Vescovo Franco.

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Vescovi di Andria, in questo tempo, furono: Mons. Simone De Nor, il Cardinale Nicolò Fieschi, e Giovan Francesco Fieschi.
Mons. Simone De Nor successe al degradato Vescovo Pastore. Il De Nor fu pure cittadino andriese e Penitenziere della Cattedrale. Fu preconizzato Vescovo da Papa Leone X a dì 5 Dicembre del 1516. Pria di compiere un anno di Vescovato, morì, senza che altro si conoscesse di lui. Fu data, allora, la Chiesa di Andria, in amministrazione, al Cardinal Nicolò Fieschi (secondo altri de Flisco), dei Conti di Lavagna, Cardinal Vescovo di Ostia [46], il quale, dopo breve tempo, la rinunziò a favore di suo nipote Giovan Francesco Fieschi, preconizzato Vescovo di Andria, a dì 13 Novembre 1517, dal medesimo Papa Leone X. Mons. Giovan Francesco Fieschi intervenne al Concilio di Trento, vedendolo aperto da Papa Paolo III, nel 1543, e chiuso da Pio IV, nel 1561, sotto la successiva presidenza di altri tre Papi, Giulio III, Marcello II, e Paolo IV.
Sotto il vescovado di Mons. Gian Francesco Fieschi, nuove liti furono suscitate fra il Capitolo della Cattedrale e la Collegiata di S. Nicola, circa il posto che i Preti di questa Collegiata dovevano occupare, quando intervenivano nella Chiesa Cattedrale, per assistere alla funzione del Giovedì Santo, ed alle funzioni della festività dell’Assunta e del Protettore S. Riccardo, titolari della Chiesa Cattedrale.
Dopo un lungo contendere, finalmente, nel 1534, fu conchiusa una Concordia, per l’opera pacificatrice di Mons. Lupicino (nostro concittadino e Vescovo di Bisceglie), del Rev. D. Antonio Bonelli (Vicario Generale del Vescovo Fieschi), e di Mons. Cesare Lambertini, Episcopi Insulen. In quella concordia fu convenuto che, circa il luogo, che i Niccolini volevano fosse stato fisso ed inamovibile, si rimettesse la destinazione all’arbitrio del Vescovo Fieschi o del suo Vicario Generale. Il Vescovo decise, che i preti di S. Nicola, nell’intervenire alla Cattedrale, nei su indicati giorni, dovessero occupare posto in Coro, nell’ultimo banco a man dritta dell’altare nell’uscire dal Coro [47].
In detto istrumento figurano, come rappresentanti il Capitolo della Cattedrale, l’Arcidiacono Trojano dello Funzione, l’Arciprete Giovanni Frogio, ed il Cantore D. Tommaso Mihone. La Collegiata di S. Nicola era rappresentata dal Prevosto D. Sebastiano Frogio, dal Cantore D. Angelo Curtopassi e dal Primicerio D. Luca Picino [48].
Erano altresì componenti il Capitolo Cattedrale, in quell’anno, il Rev. Primicerio il diacono Roberto, il Priore Riccardo Iudicis Angeli ed i canonici e partecipanti: Lorenzo Trombetta, Sebastiano De Grimaldis, Pasquale Spatarella, Natale Albanese, Andrea De Silvestris, Leonardo dello Petusio, Nicola de Morsello, Serio de Paschalia, Tomasio Quarto, Meo De Miano, Donato De Ciano, Nardo Barolese, Cola Marzio de Aspello, Riccardo de Roberti, Gestorre de Christianis, Bernardino de Raponio, Savino de Chiusolo, Santullo (inintelligibile), Pietro de Grasso, Iuliano de Sannapata, Palmiero de Ciretio, Paulo de Mottula, Saverio de Pitellis, Paulo de Ghiusulo, Donato de Morsellis, Pietro Tisoretio, Andriatio de la Gorgia, Nicola lo Massello, Federico Scaramusio [49].
L’Arcidiacono de Peregrinis successe al Fundone nel 1550, l’Arciprete de Thesorero, successe al Frogio nel 1537, il Cantore Girolamo Broccano, successe al Mihone nel 1542, il Primicerio Roberto ed il Priore Riccardo Iudicis Angeli vivevano ancora nel 1559,
cui aggiungansi, in quest’epoca, i Rev. partecipanti Vincenzo Bocalzo, Pietro Malese, Geronimo di Sant’uomo, Riccardo d’Aquino, Roberto de Roberto, Vincenzo Galliero, Ioanne Thomaso, Francesco Caponeo, Paulo de Fanello, Pietro Frannuzio, Pietro de Tota, Ioanne Carnuto, Ioan Maria de lo Pituso, Federico Gratuiso, Leonardo de Fanello, Leonardo de lo Petuso, Stephano de Morsello, Pietro de Cita, Sebastiano Dedinuove, Vito Fandone, Antonello de Nesta, Federico lo Ciretio, Joanne de Stricchio, Sornito de Deo, Ricc. Rumentufo, Maggio Gramegna, Iacobo de Placenza, Pietro de Fusello [50].
NOTE   
[46] Sotto l’amministrazione di questo Cardinal Vescovo Fiaschi, comparisce quel documento, che deve ritenersi apocrifo, per riguardo al giuspatronato, che pretende avere il Municipio di Andria nella nomina del Priore di S Riccardo e di Porta Santa. Quel documento, o Bolla che sia, va data dal detto Cardinale Fieschi, a mezzo di Mons. Lupicino suo luogotenente, il quale (stando a quell’apocrifo documento) in virtù della PROMESSA di edificare una Chiesa vicino a quella già esistente di Porta Santa, concedeva alla Università di Andria il giuspatronato nella nomina del Rettore dl quella Chiesa, il quale, nel contempo, dovesse essere pure Priore della Cappella di S. Riccardo e quinta dignità del Capitolo Cattedrale. E questo giuspatronato, nella nomina del Priore della Cattedrale, veniva concesso solo perché l’altare di S. Riccardo, esistente in Porta Santa, fu trasportato nella Cattedrale. Chi volesse avere piena cognizione di ciò, potrà leggere un nostro libro intitolato: Il preteso giuspatronato del Comune di Andria sul beneficio priorale della Cappella di S. Riccardo - Pubblicato in Roma nel 1905 dalla Tipografia Agostiniana.
[47] (Archivio Capitolare). Questa convenzione durò per poco tempo, essendo in prosieguo, surte nuove liti circa il posto da occuparsi dai Niccolini, come in seguito diremo.
[48] (Archivio Capitolare). Libro dell’Assistenza alla Cattedrale, pag. 72.
[49] Dal libro di procura del 1535. Archivio Capitolare.
[50] Dal libro di procura del 1559.

[tratto da “Il Capitolo Cattedrale di Andria e i suoi tempi” di M. Agresti, tipi Rosignoli, Andria, 1912, Vol.I, cap.IX, pagg.178-198]