Il conflitto greco-gotico (535-553) coinvolse sicuramente la nostra regione, dal momento che, a quanto ci narra Procopio di Cesarea nella «Guerra gotica» (1), Totila, intorno al 546-547, attraversata la Lucania, si spinse fino ad Otranto.
Nel dopoguerra — stabilitosi il dominio bizantino in Italia — lo sfacelo della penisola si mostra evidente nella grave crisi demografica, conseguente ai massacri e alle carestie che si erano abbattuti sulle infelici popolazioni. Ne risente particolarmente il ceto rurale, colpito anche nella capacità produttiva delle terre che si fa sempre più scarsa.
Quando Giustiniano nel 554 con la «pragmatica» dà il nuovo assetto militare al territorio conquistato, si assiste ad una lenta ripresa sociale ed economica, sorretta dall’opera della Chiesa romana che, facendosi forte anche delle nuove istituzioni monastiche, ruralizza il suo organismo per riorganizzare il suo patrimonio di beni accresciuto dalle donazioni dell’imperatore delle proprietà sottratte ai Goti sconfitti e alle chiese ariane.
Ma presto si fece sentire, specialmente in Puglia, il peso intollerabile del rapace fiscalismo bizantino, esercitato dagli ufficiali imperiali in maniera vessatoria. Fin dall’ultimo scorcio del VI secolo è ben nota l’azione dei vescovi Pietro di Otranto, Sabiniano di Gallipoli e Sabino di Canosa, che si opposero ai soprusi e alle angherie dei vincitori e fecero opera di mediazione tra gli ufficiali e i tartassati cittadini: spesso anzi si levarono a difenderne i diritti calpestati (2).
I Longobardi fecero la loro prima apparizione in Puglia verso il 570 quando, guidati dal beneventano Zottone, varcarono più volte l’Ofanto in rapide scorrerie e giunsero fino a minacciare Canosa. Quando, poi, il re Autari nel 589 sconfisse i Greci, respinto a Roma, venne a Benevento. Quindi invase l’Italia meridionale giungendo fino a Reggio Calabria e arrecò dovunque devastazioni e distruzioni.
Non ne fu risparmiata l’Apulia che, anche se non cadde sotto il dominio dei Longobardi, rimase gravemente afflitta dalle loro scorrerie.
Allora andò distrutta la città di Canosa, il maggior centro di attività economica e di vita religiosa della terra di Bari, la cui cattedra episcopale era stata tenuta alcuni decenni prima dal dotto e santo vescovo Sabino. In una lettera spedita il 591 a Felice, vescovo di Siponto, il Pontefice Gregorio I ci rivela il drammatico stato in cui i barbari longobardi avevano ridotto la chiesa canosina. «Pervenit ad nos, quod Canosina Ecclesia, ita sit sacerdotis officio destituta, ut nec pœnitentia ibidem decedentibus nec baptisma præstari possit infantibus». Prosegue quindi ordinando al presule sipontino di recarvisi in qualità di «visitatore», di ordinare due «parrochiales presbiteros» «dignos ad tale officium veneratione vitæ et morum gravitate» e di provvedere ai più urgenti bisogni della chiesa canosina (3).
La cattedra canosina fu ripristinata circa un secolo dopo, verso il 688, quando cessò l’amministrazione della chiesa sipontina, passata per ordine di papa Vitaliano sotto la giurisdizione dei vescovi di Benevento.
I Longobardi, però, non conquistarono allora la Puglia. «Io penso — dice il Besta — che [la conquista della Puglia] si sia assodata dopo che le mosse non sempre prudenti di Costante ebbero messo a nudo la debolezza dell’impero» (4). Infatti, dopo la morte dell’imperatore Eraclio (641), i Bizantini continuarono ad occupare la Puglia peuceta, ma fallì nel 642 un loro tentativo di strappare Siponto ai Longobardi: li sconfisse Grimoaldo, duca di Benevento.
Quando, poi, nel 633 l’imperatore Costante II sbarcò a Taranto per tentare di cacciare i Longobardi dall’Italia, gli riuscì solo di devastare Siponto, Lucera ed altre città apule del ducato beneventano: sconfitto da Grimoaldo sul Calore, trovò riparo prima a Napoli, poi a Roma, infine a Siracusa, dove morì assassinato nel 668.
Con la morte di Costante II il dominio bizantino in Puglia cessa quasi del tutto, ridotto com'è all’estrema Salentia: da Otranto a Gallipoli.
Per opera di Romualdo I (671-678) i Longobardi beneventani spinsero la loro avanzata in Puglia fino a Taranto ed a Brindisi (5) e conquistarono tutta la Daunia e la Peucezia. Allora Canosa cadde in potere dei Longobardi e all’Apulia longobarda — che in seguito i Bizantini chiamarono «Thema di Longobardia» — fu dato un suo assetto amministrativo-giudiziario. Essa fu divisa in tre «iudiciariæ», chiamate anche «gastaldati» perché rette da «gastaldi» che risiedevano rispettivamente a Siponto, Lucera e Canosa.
In questo stesso periodo di tempo, in seguito alla conversione dei Longobardi al cattolicesimo — favorita nel ducato beneventano da Teodorada, la vedova di Romualdo e reggente del figlio Gisulfo — l’Apulia longobarda fu riorganizzata ecclesiasticamente in modo che le giurisdizioni episcopali e quelle gastaldiali coincidessero e Siponto, Lucera e Canosa, sedi dei gastaldi, divennero sedi vescovili. Teodorada — a quanto pare — ristabilì la sede vescovile a Canosa; anzi, vi rintracciò il sepolcro del vescovo Sabino, fin’allora ignorato, ed edificò un tempio in suo onore (6), «così come [fondò] S. Pietro a Benevento, S. Maria in Locosano, S. Maria in Castagneto, S. Ilario a Porta Aurea: ereditando in tale attività lo slancio di Romualdo I, restauratore di chiese, in un fervore religioso che giunse fino al fanatismo.» (7)
Della «iudiciaria» canosina fece parte quasi tutta la Terra di Bari, con alcuni paesi finitimi. A quanto si legge in una «carta» cassinese del 797, «in canosinis finibus Barium», nel «gastaldato-vescovado» di Canosa era compresa anche Bari, allora un modesto centro peschereccio (8).
Il gastaldo che lo governava era nel contempo giudice, ufficiale politico e comandante militare e per tutto il secolo VIII risiedette a Canosa.
Il secolo IX fu per Canosa — e per il suo «territorio» — quanto mai funesto: durante il terzo decennio i pirati arabi, partendo dalle coste dell’Africa settentrionale o dalla Sicilia, in cui avevano già messo piede (9), piombarono su Canosa e la misero a sacco, depredando la contrada circostante.
II vescovo Pietro fece in tempo ad abbandonare la città con le sue ricchezze e con molti suoi fedeli. Cognato del defunto duca di Benevento, Grimoaldo IV — soppresso l’817 dal gastaldo di Acerenza, Sicone — Pietro trovò rifugio a Salerno. A Canosa non ritornò più, anche perché il popolo e il clero salernitano, alla morte del loro vescovo Rodoalto, gli affidarono la direzione della loro Chiesa (10).
Gli storici sono molti discordi nell'assegnare una data precisa a questi tragici eventi che segnarono la fine del primato religioso, civile e politico dell'illustre città di S. Sabino sulle genti della Terra di Bari (11).
In breve volger d’anni il suo posto vien preso da Bari e da Trani. Durante il ventennio in cui Sicardo, Radelchi e Siconolfo, i successori di Sicone, si contesero il ducato di Benevento (831-850), troviamo che Bari è sede di gastaldato. Il suo gastaldo Pandone, fautore di Radelchi chiama in aiuto di costui — contro le forze di Siconolfo — i Saraceni di Khalfūn, un capobanda berbero proveniente dalla Sicilia che da qualche tempo doveva trovarsi in Puglia.
Questi, accampatisi presso le mura di Bari, attraverso passaggi segreti penetrarono di notte nella città, la occuparono e ne passarono a fil di spada gli abitanti. Lo sconsigliato Pandone, torturato, fu precipitato in mare dalle mura: era il 10 agosto dell’847. La Bari dei Saraceni si organizzò come un vero e proprio emirato che, poi, con Sawdān (857-865) si estese a quasi tutta la Terra di Bari (12).
I Saraceni in Puglia erano cresciuti da poche centinaia a diverse migliaia; da un’esigua minoranza egemone a numerosa classe dominante; Bari era uno Stato con 24 castelli, cioè probabilmente tutta la Terra di Bari col suo entroterra agricolo, «abitata da ‘dhimmī’ o sudditi infedeli, circondata da una catena di tributari e da territori di razzia» (13). Così commenta il Musca la sorprendente notizia che il 5 giugno 862 il Califfo d’Egitto al-Musta'īn aveva concesso a Sawdān l’emirato della Gran Terra.
Quando, poi, l’esercito franco-longobardo di Ludovico e la flotta bizantina di Basilio il Macedone liberarono la Puglia — tranne Taranto — dai Saraceni, facendo prigioniero l’indomabile Sawdān, Bari ritornò in potere del principe di Benevento e fu governata di nuovo da un gastaldo longobardo (871). Ma le minacce dei Saraceni di Taranto, per terra, le scorrerie dei pirati berberi, per mare, indussero i cittadini baresi a rivolgersi allo stratego bizantino di Otranto, Gregorio, che alla fine dell’876 prese possesso di Bari in nome dell’imperatore bizantino Basilio: gastaldi e maggiorenti furono mandati come ostaggi a Costantinopoli e i Bizantini ripresero la conquista della Puglia che doveva rimanere in loro potere per quasi due secoli.
Comunque, verso la metà del IX secolo Canosa cessò di essere anche sede vescovile: il suo vescovo Angelario si trasferì a Bari (855) e da allora la Chiesa di Canosa rimase unita a quella di Bari (14).
Per quanto riguarda Trani, c’è da rilevare che, da modesto villaggio di pescatori ch’era, col declino della città di Canosa, divenne «castrum» ossia «città fortificata». Non è difficile immaginare che molti Canosini trovarono rifugio nei piccoli centri costieri, Baruli e Trana, per sottrarsi alle razzie dei saraceni.
Fatto sta che nel giugno dell’834 «Secundo anno principato domini nostri viri gloriosi Sicardi dei providencia beneventane provincie principis» — come si legge nella prima delle già citate «carte» pubblicate da A. Prologo — (15) Trani era retta dal gastaldo Radeprando del fu Sicoprando, anch’egli stato gastaldo della città. Non solo, ma era anche «sede vescovile»: nella stessa «carta», infatti, si afferma che detto gastaldo Radeprando dona la chiesa di S. Magno, con tutti i suoi beni e le sue pertinenze, alla Cattedrale di Trani e, per la medesima, al vescovo Oderisio. Del resto la chiesa in oggetto era stata costruita «a novo fundamine» proprio da Sicoprando, padre del donatore, «de licencia domni Leopardus episcopus predecessoris tui» — sottolinea il munifico gastaldo, quasi a rendere più accetto il dono offerto «per la salvezza della sua anima e a sconto dei suoi peccati» —.
Stando così le cose, si rimane perplessi di fronte alla categorica affermazione del Musca, che nell’opera già citata così si esprime: «Le sole diocesi pugliesi di cui si possa con sicurezza affermare l’esistenza nel secolo IX sono quelle di Lucera, Canosa, Taranto, Brindisi e Otranto; dubbie sono quelle di Trani e di Bari, dei cui vescovi si cominciano ad avere notizie certe solo nel secolo X» (16). Evidentemente il Musca è in possesso di prove — che comunque non produce — sufficienti a revocare in dubbio l’autenticità della suesposta «carta» di donazione.
Comunque, dal II e III documento dell’Archivio tranese risulta chiaro che Trani e il suo territorio, con i centri urbani e rurali — fossero civitates o castra, vici o loci, come Canosa, Canne, Baruli, Andra, Tretaso, Tremodie, Cicalio, Juianello — parteggiavano per Siconolfo nella contesa per la signoria del ducato beneventano. Infatti la datazione della «carta» dell’843 è «quarto anno domini nostri Siconolfi»; quella della «carta» dell’845 è «sexto anno domni nostri Siconulfus magnus princeps».
La Puglia, saccheggiata dalle schiere di Radelchi e di Siconolfo e dai Saraceni assoldati da entrambi, che partivano o da Taranto — quelli di Siconolfo — o da Benevento — quelli di Radelchi —, conobbe ore terribili. I Saraceni di Khalfūn s’erano appena impadroniti di Bari (847) che corsero ad assalire il «castrum» di Canne, strenuamente difeso dai partigiani di Siconolfo.
L’849 Radelchi e Siconolfo si divisero le zone d’influenza; ma non trascorse un anno e mezzo che entrambi — prima Siconolfo, poi Radelchi — vennero a morte e lasciarono la triste eredità di una Longobardia meridionale in condizioni politiche di disfacimento. Ormai gastaldi e conti non obbediscono più ai loro principi (17), mentre i Saraceni saccheggiano l’intera Puglia o ne massacrano le popolazioni.
L’875, l’anno prima della resa di Bari longobarda allo stratego bizantino Gregorio — di cui abbiamo già parlato — i Saraceni di Abd-al Malik, rinforzati dalle bande di Uthmān, fecero una sortita da Taranto — rimasta in loro potere — e devastarono le terre del nord-barese, specialmente i territori di Canne e di Canosa. Quest’ultima città ne rimase completamente distrutta.
L’ultimo quarto di secolo vide i Bizantini rinsaldare la riconquista della Puglia. Vano risultò infatti il tentativo di Aione, principe di Benevento, di riprendere sotto il suo controllo i territori della Puglia (887). L’ «epí tēs trapézēs» Costantino l’anno seguente lo batté e gli ritolse definitivamente Bari. Quando nell’895 lo stratego Barsàkios si trasferì nel futuro capoluogo pugliese, questo diventò la capitale del «Thema di Longobardia» (18), che abbracciava le terre pugliesi e parte della Lucania e probabilmente aveva per confini il Basento, il Fortore e le propaggini dell’Appennino (19).
Il secolo X non fu meno travagliato del precedente per la Puglia, e in particolare per la Terra di Bari, alla quale non giovò certo il passaggio dal dominio longobardo a quello bizantino, dopo la parentesi saracena.
È vero che la fusione di Capua con Benevento in un unico stato, retto da Atenolfo prima e da Landolfo poi, consentì a quest’ultimo di allearsi col duca Gregorio di Napoli e di battere le bande di musulmani che infastidivano i territori di Siponto e di Canosa. Come è vero altresì che Bizantini, Capuani, Salernitani e Napoletani, alleatisi in una lega antisaracena e, ottenuti i rinforzi da papa Giovanni X e da Alberico, marchese di Spoleto, assediarono i Saraceni nella loro fortezza del Garigliano, li ridussero alla fame e, in una loro sortita, ne fecero una strage memorabile (Agosto 915) (20).
Ma le scorrerie dei musulmani continuarono a tormentare la Calabria a tal punto che Bisanzio fu costretta a pagar loro un tributo 22.000 soldi d’oro, prelevati dalle infelici popolazioni dei Themi di Calabria e di Longobardia con sistemi quanto mai spietati ed esosi.
Perciò nell’aprile del 921 le popolazioni della Calabria, della Puglia e della Lucania insorsero: lo stratego del Thema di Longobardia, il patrizio Ursileone, rimase ucciso presso Ascoli Satriano e, invitati dagli insorti, Landolfo e Atenolfo II di Capua varcarono i confini del Thema e occuparono quasi tutta la Puglia.
Del resto era desiderio dei Pugliesi insorti che il thema fosse affidato a Landolfo — già insignito del titolo di «patrizio» —, perché, estraneo ai territori bizantini e alle beghe locali, potesse difendere i territori ionico-adriatici dal pericolo ognora ricorrente delle scorrerie arabe. Ma il nuovo imperatore di Bisanzio, Romano Lecapeno, si limitò a fare solo promesse e Landolfo sgombrò le piazzeforti pugliesi, anche perché nel 922 fecero la prima comparsa in Puglia le bande di Ungheresi di Szoward (21).
I timori delle nostre popolazioni non erano né infondati né esagerati. Il 1 luglio del 925 i Saraceni, approdati con una flotta fra Taranto e Gallipoli, si scontrarono con l’esercito dello stratego di Bari presso Oria. La disfatta dei Greco-Pugliesi fu grave: Oria fu messa a ferro e fuoco, gli uomini furono massacrati e la popolazione deportata.
L’anno seguente un nuovo flagello colpì le regioni settentrionali del Thema di Longobardia: gli Slavi dello jupan Michele assalirono Siponto. Scorrerie slave, improvvise, rapide, devastatrici, si abbatterono sulla Puglia e sulla Calabria nei successivi tre anni fino al 929 quando, ripresa la lotta tra i Bizantini di Romano Lecapeno e i Longobardi capuano-salernitani, la nostra regione divenne di nuovo campo di battaglia; infatti proprio in Puglia veniva ripetutamente sconfitto Landolfo di Capua. Trascorsero, quindi, alcuni lustri di relativa tranquillità.
Nel 947 una nuova scorreria ungara, alla quale lo stratego di Longobardia non oppose alcuna difesa, giunse fino a Larino e ad Otranto. Ma già l’anno precedente una rivolta scoppiata a Bari era stata soffocata nel sangue dalle autorità bizantine.
Lo stato di disagio delle popolazioni pugliesi, in seguito all’invasione ungara, dovette essere così intollerabile che nel 950 tutti gli abitanti della Longobardia si sollevarono contro i Bizantini e coinvolsero nell’insurrezione quelli della Calabria. I Greci ne ebbero tale briga che non esitarono ad allearsi i Saraceni; mentre i Calabro-Pugliesi chiamavano in loro soccorso Longobardi e Napoletani.
Il 956 l’insurrezione veniva domata, dopo l’accomodamento raggiunto dallo stratego Mariano Argiro con i ducati longobardi (22).
Nel 963 a Costantino VII Porfirogenito successe sul trono di Bisanzio Niceforo Foca, che diede un notevole incremento
alla potenza bizantina. D’altra parte Ottone I di Sassonia, incoronato il 962 imperatore del Sacro Romano Impero
da papa Giovanni XII, nel 968, mirando alla conquista dei territori bizantini dell’Italia meridionale,
strinse un’alleanza antibizantina con Pandolfo Capodiferro, principe di Capua-Benevento. Quindi inviò a Costantinopoli
il suo legato Liutprando, vescovo di Cremona, con l’incarico di intavolare trattative con Niceforo Foca
per un’alleanza antisaracena: in cambio chiese la mano della principessa Teofano per suo figlio Ottone
e la cessione della Puglia e della Calabria come beni dotali.
Fallite le trattative, l’imperatore germanico e il principe longobardo invasero l’Italia meridionale bizantina
devastando i dintorni di Bovino; di Ascoli e di Bari. Mentre i Bizantini, scarsi di numero, si ritiravano nelle piazzeforti,
Ottone e Pandolfo per cinque mesi si diedero a scorrazzare per la Puglia imponendo alle città giuramenti
di fedeltà e compiendo atti di giurisdizione
(23).
L’anno seguente la piazzaforte di Bovino, assediata dagli imperiali e dai Longobardi oppose un’inaspettata quanto accanita resistenza. Infine Ottone fu costretto a ritirarsi al nord per provvedere al regno e alla Germania, mentre il Capodiferro, sconfitto in uno scontro dal patrizio di Bari Eugenio, fu fatto prigioniero ed inviato a Costantinopoli.
La vittoria dei Bizantini costò multe e rappresaglie a numerose città pugliesi. Le doglianze delle nostre misere popolazioni furono tali e tante che Eugenio fu sostituito col patrizio Abdila; questi, però, battuto ad Ascoli Satriano, abbandonò nelle mani degli imperiali le città pugliesi, che dovettero di nuovo aprir loro le porte e pagare tributi e taglie.
L’assassinio di Niceforo Foca e l’ascesa al trono di Giovanni Zimisce fece ristagnare le operazioni militari per quasi un anno. Nella primavera del 971 Ottone I ritornò in Puglia e nuovamente strinse d’assedio Bovino, tentando invano di ottenerne la capitolazione. Riprese allora le trattative con Bisanzio e inviò una seconda volta Liutprando in missione a Costantinopoli. Giovanni Zimisce, sotto la pressione russo-bulgara, si mostrò più cedevole del predecessore: liberò Pandolfo Capodiferro e lo mandò come intermediario a Bari.
Finalmente i due imperatori giungono all’accordo: Ottone rinuncia ai themi bizantini, Zimisce ai principati di Capua e Benevento. Bisanzio, inoltre, escludendo la dote territoriale, acconsente al matrimonio del principe Ottone con la principessa Teofano, che al principio del 972 sbarca a Bari.
In seguito a questi avvenimenti e di fronte al pericolo — ormai fin troppo concreto — di Longobardi ed imperiali alleati ai suoi danni, il governo di Costantinopoli ritenne di dover provvedere ad una difesa più efficace ed attenta dei territori italiani. Fuse, perciò, i due Themi di Longobardia e di Calabria in un’unica unità politica, amministrativa e militare ed istituì nel 975 il «Catepanato d’Italia», dandogli per capitale Bari, dove l’anno seguente l’imperatore Basilio II inviò come «magistros» Niceforo, vescovo di Mileto.
Nello stesso tempo Bisanzio dava inizio ad un vasto movimento di ellenizzazione nei territori pugliesi, dove Taranto diventava il principale centro commerciale e Otranto, creata metropoli di rito greco, estendeva la sua giurisdizione sulle sedi vescovili suffraganee di Acerenza, Tricarico, Tursi, Matera e Gravina.
Negli ultimi decenni del X secolo il movimento monastico greco dei Basiliani si sviluppò grandiosamente in Italia meridionale.
Anche se non è possibile escludere la presenza dei Basiliani in Puglia prima dell’ultimo trentennio del X secolo, solo in seguito al riordinamento e all’unificazione dei territori bizantini dell’Italia meridionale avvenne la diffusione di queste comunità di rito greco nelle nostre regioni e particolarmente nel nord-barese.
«Questi Basiliani vivevano alcuni nei monasteri, altri nelle campagne come eremiti ed anacoreti.
Essi stessi costituivano rozze grotte isolate formanti le cosiddette «laure». In ciascuna di queste cellette
viveva ritirato un eremita o un anacoreta, senz’avere comunicazioni con altri. Solamente nella domenica
o in feste religiose questi solitari eremiti, appartenenti ad una medesima «laura» si riunivano
nella cappella o cripta per partecipare alla Messa e cibarsi dell’Eucarestia.
Non sono da trascurarsi altri particolari messi in luce da altri studiosi del fenomeno basiliano in Puglia.
È stata osservata infatti un’altra caratteristica delle cosiddette cripte basiliane: esse anziché presentare
le vere e proprie forme tipiche di caverne o antri occasionali, ripetevano nell’impianto architettonico
la stessa struttura o forma di edifici «sub divo»; furono così osservati due schemi diversi:
l’uno d’ispirazione bizantina, l’altro che ripeteva la struttura di monumenti che non avevano rapporti con Bisanzio.
È stato rilevato che i monaci greci ebbero una loro stabilità per la fusione avvenuta con le popolazioni indigene
salentine che si erano installate nel Salento prima delle immigrazioni monastiche»
(24).
A proposito della presenza dei Basiliani in Andria, nessuna congettura è possibile affacciare sull’epoca in cui furono costruite le «cripte» di Cristo della Misericordia, di S. Vito — in cui si trova il dipinto della Vergine, venerata col nome di «Madonna dell’Altomare» —, di S. Margherita, su cui sorge il tempio della Madonna dei Miracoli e di S. Angelo in Gurgo.
Congetture riguardanti l’epoca di origine della «cripta» o della «laura» di S. Croce dei Lagnoni, benché il Molaioli affermi che non sia consentito farne, sono state avanzate dai nostri storici locali. Per lo più si ritiene che S. Croce risalga ai tempi della persecuzione delle immagini di Leone III l’Isaurico e di Costantino Copronimo (seconda metà dell’VIII secolo). Per parte mia ritengo troppo avventata un’opinione del genere, soprattutto quando non è suffragata da prove documentarie irrefutabili.
Neppure riscontri stilistico-architettonici con le «cripte» basiliane del Salento sarebbero sufficienti
a far concludere che S. Croce sia loro «coeva». La rozza struttura architettonica in materiale tufaceo,
opera probabilmente degli stessi monaci che nella povertà dei loro mezzi convertirono la grotta naturale
in luogo di preghiera e di culto, poté ben ripresentare strutture e forme loro consuete, anche se antiche di secoli.
A me sembra, infatti, troppo azzardata l’ipotesi che durante il secolo VIII e per quasi tutto il secolo IX
l’espansione del cenobitismo monastico greco sia penetrata nel cuore dell’Apulia longobarda o che
gli insediamenti basiliani nel gastaldato canosino, divenuto in seguito tranese, siano usciti indenni
persino dal trentennio della dominazione saracena, che cancellò i vescovadi di Trani e di Bari.
Pertanto preferisco seguire il Vinaccia (vedi p. 5 e nota 10), che pone nel X e XI secolo la diffusione della colonia brindisina dei monaci basiliani e la loro penetrazione nel nord-barese con relativi insediamenti ad Andria e a Trani. Del resto G. Gabrieli nel suo «Inventario topografico e bibliografico delle cripte eremitiche in Puglia», Roma 1936, p. 5, uno dei più seri lavori dedicati [alle cripte basiliane] da italiani — a dir del Caprara — (25) si legge che «le datazioni più vecchie non risalgono oltre il secolo X» (26).