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“Andria nel Medioevo”

DA “LOCUS” ROMANO-LONGOBARDO A “CONTEA” NORMANNA

di Pasquale Barbangelo

Parte seconda:   ANDRIA PRENORMANNA

II – ANDRE DA “LOCUS IN FINIBUS CANOSINIS”
A “VILLA SUB TRANE”

Un atto di conferma dei diritti del Monastero di S. Benedetto di Monte Cassino in diverse città dell’Apulia, emesso da Gregorio, protospatario e catepano d’Italia nell’anno 1000, è riportato dal Muratori (1).

Tale atto, con varianti, si legge anche nel Regesto Cassinese di Pietro Diacono (2) e nel Syllabus del Trinchera (3). Da essi apprendiamo che il 2 (o il 12) febbraio dell’anno 6508 dall’inizio del mondo, corrispondente all’anno 1000 dell’era volgare, XIII indizione, Mauro (o Marco), monaco del Monastero di S. Benedetto di Monte Cassino, si appella al catepano Gregorio Tracaniota per ottenere la restituzione dei beni che il Monastero aveva “ereditati” e posseduti in dominio “per veteres annos” ed ora parecchi uomini detengono “iniuste et per vim”.

Il “comes curtis” Pietro mostra a Gregorio una “chartula” da cui risulta che il Monastero Cassinese è il legittimo proprietario di ognuno di quei beni e il Catepano, dopo accurate ricerche, rinviene le prove legali che il dominio su tutti e singoli i beni rivendicati dal predetto Monastero è “antico” e che i loro attuali detentori sono degli usurpatori, perciò ne toglie loro il possesso e li restituisce al loro legittimo proprietario “secundum textum ipsius chartule”.

Nel testo della “chartula” del diploma muratoriano si legge fra l’altro:
… Et in civitate Tranensis, et in Villa que est de civitate ipsa, que cognominatur Andre, vineæ sunt desertæ et olivæ et aliæ, biginti septem; et in ipso rivo qui vocatur de ipso monacho, territorie”.

In quello del diploma del Regesto Cassinese è scritto:
… nec in civitate Tranensis et in villam que est de civitate ipsa qui cognominatur Andre vineæ desertæ et olivetaliæ biginti septem”.

In tre pergamene del Syllabus il passo suddetto suona in questi termini:

Pergamena XII, “diploma del catepano Gregorio Tracaniota dell’anno 6508 - 1000 dell’era volgare - 12 febbraio, XIII indizione:
“ … Kaì upo tou kàstrou trànas, eis to chorio andras erimàmpela échon kai elaìas dendrì kè, kai eis to ruàken to kaloùmenon to kaloghéron, chorafiéous tòpous … ”. “ … et in civitate tranensis, et in villam que est de civitate ipsa que cognominatur andre vinee deserte et olivetalie biginti septem et in ipso rivo qui vocatur de ipso monacho. territorie”.

 

Pergamena XIV, “diploma” del catepano e protospatario d’Italia Basilio Mesardonita dell’anno 6520 - 1011 dell’era volgare - ottobre X indizione:
“ … et territorio et in civitate tranensis in villam que est de ipsa civitate qui cognominatur andre vinee deserte et olivetalie viginti septem et in ipso rivo qui vocatur de ipso monacho territorie”.

 

Pergamena XXIII, “diploma” del catepano Photo Argiro dell’anno 6540 - 1032 dell’era volgare, marzo, XV indizione:
“ … omoìos kaì upò ten diacràtesin tou kàstrou tranòn eis to chorìon (3a) to kaloùmenon àndras eremàmpela, èchonta kaì elaìas déndra kz', kai eis tò ruàkin to legòmenon ton kaloghèron, chorafiaìous tòpous” (3b) “ … et sub Trane in loco Andre. vinee deserte habentes et olivæ arbores XXVII et ad rialem quod dicitur de monacho. terre”.

Questi riscontri - persino bilingui - che pur potrebbero sembrare una pedanteria, hanno una loro ragion d’essere.
Da un loro esame comparativo è possibile affermare con certezza che Andre nei primi decenni del secolo XI non era una “civitas” — meno ancora una “città sui generis” — come pretesero alcuni storici locali, ritenendo ineccepibile l’interpretazione data dall’Agresti (4) ad uno dei passi surriferiti, probabilmente a quello del diploma del Tracaniota.

L’Agresti, infatti, obietta ai “critici moderni” che il diploma — o meglio il passo del diploma che riguarda Trani ed Andria —, esaminato “a rigor di grammatica e di logica”, parla non di una “villa” di Trani, ma della “villa o villaggio”, che è della medesima città che cognominasi Andre: in altri termini — a suo dire — nel diploma si fa parola di una “villa” che dipende dalla città di nome Andre; perciò “a rigor di logica” si dovrebbe concludere che Andria, nel decimo e undicesimo secolo non era una “villa o villaggio”, appartenente alla città di Trani; ma era una città sui generis, formata di molti villaggi (sic), che facevan capo ad Andria; e tutti, Andria compresa, erano sotto il potere della fortezza di Trani. Quindi cerca conferme alle sue argomentazioni nelle “bolle” che i pontefici, Alessandro II nel 1063 e Urbano II nel 1090, inviarono all’Arcivescovo di Trani, Bisanzio, e in altre “bolle” ancora, che altri pontefici durante tre quarti del XII secolo inviarono ad altri vescovi tranesi.
A parte il fatto che in dette “bolle” si fa riferimento all’Andria normanna, effettivamente città da quando Pietro di Amico la rese tale — e pertanto le conferme ricercate son prive di qualsiasi validità —; l’esame del “diploma” che l’Agresti sostiene di aver fatto “a rigor di grammatica e di logica” è un mero esercizio retorico, data l’ambiguità o — com’egli dice — “l’equivoco” a cui si presta il passo in esame.

Chi lo legge senz’alcun preconcetto non può non rimanere perplesso sull’antecedente a cui riferire la proposizione relativa “que cognominatur Andre”.
Se l’antecedente è “in villam”, la prima delle due relative: “que est de civitate ipsa”, risultando un inciso, non si concatena con l’altra e se ne deduce che Andre è “villa” dipendente da Trani.
Se invece l’antecedente è “de civitate ipsa”, le due relative sono concatenate e la prima è posta in risalto sulla seconda, che perciò ne diventa subordinata; si può pertanto sostenere che Andre è una “civitas”, da cui dipende un’imprecisata “villa”.

L’ambiguità del testo è risolta nel “diploma” di Photo Argiro (Pergamena XXIII del Syllabus) in cui il passo che ci riguarda mostra chiaramente come Andre in quell’epoca era un “villaggio”.
Esso in latino suona “Sub Trane in loco Andre” e risponde abbastanza fedelmente al testo greco: “upò ten diacràtesin tou kàstrou Tranòn eis to chorìon to kaloùmenon Andras”, da cui chiaramente risulta la concordanza di “kaloùmenon” con “chorìon”. Pertanto è il “chorìon” o il “locus” o la “villa” e non il “kàstron” o il “castrum” o la “civitas” ad essere chiamato Andre o Andras.

A mio modesto parere l’Agresti — stimabilisimo per la sua dottrina e per la sua serietà di studioso — non ebbe evidentemente sott’occhio il diploma di Photo Argiro; altrimenti, non c’è da dubitarne, non si sarebbe dato ad almanaccare fino ad ipotizzare che Andria nel secolo decimo e undicesimo fosse una “città sui generis”, formata di diversi villaggi che “a lei facevano capo”.
Del resto, filologi più avveduti di me e dell’Agresti potrebbero far notare che nelle “carte”, del secolo X ed XI almeno, pur nella “serie infinita di spropositi e di mostruosità grammaticali” da cui si “deduce solo che possiamo scorgervi il nuovo sole del volgare neo-latino che vi s’irradia”, (5) il pronome/aggettivo dimostrativo “ipse” ha preso il posto di “idem” fin quasi a soppiantarlo, sicché il suo significato italiano è quello di “stesso/medesimo” e richiama un nome di persona, animale o cosa già precedentemente espresso.
A tal proposito essi potrebbero far ricorso ad un’esemplificazione estesissima o contentarsi di richiamare l’attenzione del lettore sul “diploma” del Regesto Cassinese di Pietro Diacono, dove si riscontra: “in pertinentiis de civitate Asculo et in ipsa civitate Asculo casa solariata”.

Senza dire che già nelle prime “charte” del Capitolo Metropolitano di Trani, in atti di donazione e di compravendita, redatti verso la metà del IX secolo, l’aggettivo “ipse” sostituisce “idem”.
Per es. nel Documento II a. 843 si legge: “… hofferui(t) una vinea … exinde firmata cartula … et inde invicem ea do tibi arrioaldo diacono ibsa cartula pro defensione de ibsa vinea … unde nec mihi nec ad alius homine porcione non reserbabit de ibsa vinea neque requisicione de ibsa cartula etc(6)
Nel Documento III a. 845 troviamo scritto: “ … Ego lamperto … vinumdabo tibi lamprando … in integrum et in omnibus rebus sustancia mea … omnia et in omnibus de quiqquid ibique mea … fuerit de ipsa rebus sustancia mea …” … “et obbligo me … ab omnis homine de ipsa mea bindicione inantistare bel difendere(7)
E ancora, nel Documento IV a. 915 — il “breve” redatto dal giudice Teodelgrimo, in cui compare come mallevadore Adelprando di Ralemprando “de loco Andre” — il notaio Landolfo così si esprime: “Sicque ipse qui supra Petrus ante nostra presencia ostendit una cartula … scripta namque per Bartholomeum notarium et roborata per testes, continebat ipsa cartula ut … eique Petri ut continebat ipsa cartula … qui supra Petrus … sua bona voluntate capsavit ipsa sua cartula et capsatam ipsam remisit apud ipsum qui supra maiulo etc.(8)
Infine in un “breve recordationis” fatto redigere da Dumnando figlio di Gizzone “de civitate Andre” nel 1073 per le nozze di sua figlia Dumnanda con Giaquinto figlio di Risando, quest’ultimo è nominato per garantire il “meffio” da donare alla sposa. (9) Orbene ogni qual volta nel contratto matrimoniale si fa riferimento alla sua persona, il suo nome è preceduto dal determinativo “ipse qs” (qs è abbreviativo di “qui supra nominatus est”), tranne, nell’espressione “eiusdem Risandi”, il cui riscontro ci toglie ogni dubbio sull’equivalenza semantica di “ipse” e “idem” nel latino dei notai dei secoli X e XI.

A questo punto è fuor di dubbio che tanto nel diploma muratoriano e in quello del Regesto Cassinese, quanto nei diplomi del Syllabus del 1000 — di Gregorio Tracaniota — e del 1011 — di Basilio Mesardonia —, il passo che riferisce dei possedimenti benedettini a Trani e ad Andre va inteso correttamente solo se in italiano lo si traduce: “E nella città di Trani e nel villaggio, che dalla città stessa (da essa città) dipende ed ha il nome di Andre”. Tale è del resto il senso di “sub Trane in loco Andre”, l’espressione che, al riguardo, si rinviene nel “diploma” di Photo Argiro del 1032.

Ma la corretta interpretazione del passo che riguarda Andria nei diplomi benedettini rimarrebbe pressoché fine a se stessa e potrebbe sembrare piuttosto una sterile — e sia pur riuscita — esercitazione “ermeneutica”, se non fosse finalizzata ad un’adeguata e motivata collocazione storica dei diplomi in esame, talché le vicende della nostra città “in fieri” traspaiano “in controluce”, dal momento che non è possibile conoscerle attraverso i normali canali informativi: i documenti.

A tal uopo occorre precisare che nei primi decenni dell’XI secolo i catepani sunnominati — Gregorio Tracaniota, Basilio Mesardonita e Photo Argiro — accolsero le rivendicazioni degli abati cassinesi e confermarono i loro diritti sui beni posseduti in Apulia solo per ragioni di strategia politica, diverse per ognuno di essi perché determinate da un diverso contesto storico-politico.

Fallito il “nuovo corso” d’intolleranza religiosa dell’imperatore Niceforo Foca, che aveva convinto il Patriarca di Costantinopoli Polieuto ad interdire in tutta la Puglia la celebrazione dei divini misteri secondo il rito latino e ad elevare a metropoli la sede vescovile di Otranto, perché il suo clero aveva adottato la liturgia greca, Bisanzio con Basilio II ritornò alla politica tollerante e adescatrice nei confronti della chiesa pugliese e dei suoi vescovi.
Perciò nel 983 il catepano Calocyro Delfina fu autorizzato a premiare la fedeltà all’Impero greco di Rodòstamo, che alcuni anni prima da papa Benedetto VII era stato consacrato vescovo della restaurata diocesi latina di Trani.
A Rodòstamo, infatti, fu confermata sia la dignità vescovile sia la giurisdizione ecclesiastica su Giovinazzo, Ruvo, Minervino e Montemilone “cum omni possessione ipsorum(10)

Verso lo scadere del X secolo, poi, il catepano Gregorio Tracaniota si fece promotore di una politica munifica e accattivante non solo nei confronti del clero secolare ma anche nei riguardi di quello regolare latino.
Egli, infatti, con un “sighìllion” del 999 (11) concesse a Grisòstomo, arcivescovo di Bari e Trani, le funzioni di arbitraggio nel dominio giudiziario e al clero delle due città — anzi ai 36 sacerdoti di Bari e ai 60 di Trani — l’esonero dalla “stratìa” e “servizio domnico(12).

D’altra parte seppe inserirsi abilmente nell’ambito della politica ottoniana, intesa a tutelare la vita ecclesiastica e a proteggere i monasteri con concessioni di “mundeburdio(13) e “conferme” di patrimoni. Così, essendosi ritirato Ottone III in Germania — nel primo semestre del 1000 — quando l’Abate di Monte Cassino si rivolse a lui, come a suprema autorità bizantina in Italia, per ottenere la restituzione dei beni dell’Abbazia in Puglia, egli si affrettò a rendergli giustizia e riaprì la strada ad una ripresa delle relazioni amichevoli tra il Patriarca di Costantinopoli e la Santa Sede.

Ben diverse sono le circostanze storiche in cui l’Abbazia di Monte Cassino ottenne il “diploma” di “conferma” dei suoi possedimenti in Puglia dal catepano Basilio di Mesardonia.

Il primo decennio dell’XI secolo fu un periodo particolarmente calamitoso per le popolazioni pugliesi.

Il Petroni, con tacitiana drammaticità, così ci rievoca quei “tempi orridi”: “Morbi pestiferi mietevano le vite; nevi cadute in tal copia da disseccare non solo ogni generazione di piante, ma uccidere volatili e pesci; fame che fiacchiava ed irritava le plebi; qua e là sempre scorrerie saracene, che tosavano il resto; tutto insomma era miseria e disperazione, segni non dubbi di prossime rivolture(14).

I Saraceni, del resto, si sarebbero ancora una volta impadroniti della Puglia nei primi anni del 1000, quand’era ancora catepano il Tracaniota, se il doge di Venezia, Pietro Orseolo II, di sua spontanea iniziativa o — come vuole l’Heinemann — in base ai patti stipulati tra Venezia e l’Impero d’Oriente nel 992, non avesse soccorso Bari da quattro mesi assediata per terra e per mare dalla potente armata del “ca’ id” Safi.

La capitale del Catepanato d’Italia con una brillante azione militare fu liberata il 18 settembre del 1003 e i Saraceni furono costretti ad abbandonare le nostre terre; ma le popolazioni pugliesi ebbero ancora una prova dell’impotenza di Bisanzio — impegnata nella lotta contro i Bulgari — nel difenderle dai predoni musulmani e, stanche dell’esoso fiscalismo dei catepani e del loro seguito, insorsero.

A capo dell’insurrezione pugliese, divampata nel 1009, si posero il ricco mercante barese Melo, d’origine longobarda — a quanto pare — (15) oltre che marito di Maralda, sorella del principe di Benevento Paldolfo II, e Datto suo cognato.
Fu un vero e proprio movimento autonomista di colorito strettamente pugliese per la difesa della latinità e soprattutto degli interessi delle nuove classi commerciali, gravemente compromessi dalla pirateria saracena e dalla politica forzatamente rinunciataria dell'Impero greco.
Ne fu coinvolta tutta la Puglia settentrionale e Ruvo, Canosa, Minervino, Canne, Trani ed Ascoli si sollevarono, scacciarono i Bizantini e si schierarono a favore di Melo che sperò di ottenere, oltre che l’appoggio morale, anche aiuti in uomini e mezzi dai principi longobardi (16).

Il catepano Curcuas, che intanto s’era ritirato a Taranto — o forse ad Otranto — partì all’offensiva; ma fu battuto dagli Apulo-Longobardi presso Bitetto: lo scontro fu sanguinoso ed entrambi i contendenti subirono gravi perdite (17).
Morto Curcuas, l’imperatore Basilio II l’anno seguente invia in Italia come catepano Basilio Argiro di Mesardonia che, coadiuvato da Leone Turnìkios Contolèon, assedia, espugna ed incendia Trani. Bari, dopo una resistenza eroica di due mesi, è costretta a capitolare sia perché il partito filobizantino aveva ripreso il sopravvento, sia perché i cittadini erano ridotti allo stremo dalla fame. Si era nel 1010.
Maralda e Argiro, rispettivamente moglie e figlio di Melo, fatti prigionieri, vengono inviati a Costantinopoli; Melo e Datto, invece, riescono a fuggire e riparano ad Ascoli, donde, dopo una vana resistenza, proseguono per Benevento.

Purtroppo i principi longobardi — Paldolfo II di Benevento e Guaimaro IV di Salerno — di fronte ai successi del Mesardonita non intesero mettere a rischio i loro rapporti con l’impero d’Oriente, sicché Melo fu costretto a rifugiarsi a Capua, mentre Datto otteneva riparo e protezione da Atenolfo, fratello di Paldolfo e abate di Monte Cassino.
Ma Basilio Argiro non si contentò di conquistare la Puglia e nel 1011 si spinse fino a Salerno, dove convinse Guaimaro IV a restare fedele a Bisanzio. Quindi “con un’abile manovra d’accostamento a Monte Cassino” ottenne da Atenolfo l’espulsione di Datto: infatti col “diploma” citato del 1011, redatto a Salerno, gli confermò i possedimenti di S. Benedetto in Apulia e lo attirò nell’orbita della politica di Bisanzio.
Datto, intanto, riparava nello Stato Romano e chiedeva protezione al papa Benedetto VIII, che lo accolse benevolmente e lo nominò comandante del presidio del Garigliano (18).

Nei ventun anni che intercorrono tra il 1011 e il 1032 Melo riprende a perseguire il suo sogno di liberare la Puglia dai Bizantini: con il celato aiuto del Papa e dei Principi longobardi, che gli forniscono un modesto contingente di avventurieri normanni, il tenace mercante barese ricostituisce un esercito e si scontra con i greci di Leone Paziano, luogotenente del nuovo catepano Leone Turnìkios, ad Arenula sul Fortore. Lo scontro ha esito incerto, ma Melo riesce ad avanzare nella Capitanata e vince la battaglia di Civitate il 20 giugno del 1017, dove il Paziano cade sul campo.
Ciononostante in Puglia l’insurrezione non si riaccese, se non in qualche località della costa e particolarmente a Trani. Nuovi rinforzi vennero richiesti dalla Normandia, ma non giunsero in tempo per partecipare alla battaglia di Vaccarizia, nella piana tra Lucera e Troia dove il Turnìkios nell’ottobre del 1017 fu disfatto.

In seguito a questo grave insuccesso Bisanzio si riscosse, destituì Turnìkios ed inviò in Italia l’abile ed energico Basilio Bojoannes (o Bogiano), che nel dicembre sbarcò a Bari con un forte esercito di mercenari fra cui spiccavano Russi e Scandinavi.
Assediata e presa d’assalto Trani, Bojoannes nell’ottobre del 1018 venne a battaglia campale con Melo presso Canne, al quale nel frattempo erano giunti i rinforzi normanni. I Bizantini subirono gravisime perdite, ma altrettanto grave — e comunque irreparabile — fu la falcidia subita dalle forze di Melo: il contingente normanno — Amato parla di 3000 uomini — ne riuscì annientato: i pochi superstiti fuggirono con Melo verso Benevento. Allo sfortunato capo dell’insurrezione pugliese non rimase altra speranza che quella di un intervento dell’Imperatore sassone. Recatosi in Germania e accolto con benevolenza da Enrico II, Melo ne ebbe il titolo di “Duca di Puglia”, ma il 23 aprile del 1020 moriva a Bamberga, nella cui cattedrale trovava regale sepoltura.

Nel decennio, in cui fu catepano, Basilio Bojoannes si mostrò valente uomo d’armi: ristabilita la supremazia bizantina nell’Italia Meridionale, provvide alla difesa dei confini del Catepanato d’Italia che, portato alla sua massima espansione, era contermine con gli Abruzzi e col Beneventano. A tale scopo fondò i centri fortificati di Dragonara, Fiorentino, Civitate e, sulle rovine dell’antica Aecana, la città-fortezza di Troia, dal nome chiaramente augurale; ad abitarla chiamò i Longobardi dei territori circostanti e i Normanni dispersi dopo la battaglia di Canne.

Ma il Bojoannes fu anche un abile diplomatico: egli coltivò relazioni amichevoli con i papi Benedetto VIII e Giovanni XIX, mantenne fedeli a Bisanzio Guaimaro di Salerno e Sergio di Napoli e protesse il Monastero di Monte Cassino, al quale il 1021 consegnò i beni confiscati al nobile tranese Maraldo, reo d’aver appoggiato l’insorto Melo col protospatario Joannacio e col nobile longobardo Romualdo, anch’essi tranesi (19).

Quando, morto l’imperatore Basilio II, il suo successore e fratello Costantino VIII richiamò Bojoannes a Costantinopoli, il catepano Cristofaro che lo sostitutì e quello che poco dopo gli successe, Photo Argiro, non si mostrarono certamente all’altezza della nuova e complessa situazione politica venutasi a creare nei territori compresi fra lo Stato Romano e il Catepanato d’Italia.

Paldolfo II di Capua, fatto arrestare dall’Imperatore Enrico II nella sua terza discesa in Italia per aver venduto Datto a Basilio Bojannes, quattro anni dopo, nel 1026, era stato rimesso in libertà da Corrado II il Salico dietro richiesta di Guaimaro e col consenso di Giovanni XIX. Ritornato a Capua, con l’aiuto di Rainulfo e dei suoi avventurieri normanni aveva rivolto le sue mire al Ducato di Napoli, retto da Sergio IV: questi però era protetto dal Bojoannes.
Col nuovo catepano Cristofaro, invece, Paldolfo giocò d’audacia e con un colpo di mano s’impadronì di Napoli. Ma il 1029 dovette ritirarsene davanti ad una coalizione di forze a lui ostili, che aveva visto uniti Amalfi, Gaeta, Sergio e i suoi fautori e lo stesso Rainulfo; a lui il Duca di Napoli aveva dato in isposa la vedova duchessa di Gaeta, sua sorella, e aveva concesso in feudo nel 1030 la Contea di Aversa.
Ma anche nei confronti della Chiesa Paldolfo di Capua aveva tenuto un comportamento spregiudicato; riavuta Capua, infatti, ne aveva gettato in carcere il Vescovo e al suo posto vi aveva insediato un suo figlio bastardo (20). Lo stesso trattamento riservava per Teobaldo, l’abate di Monte Cassino insediato dall’imperatore Enrico II dopo avervi espulso Atenolfo.
Ma Teobaldo riuscì a parare — sia pur provvisoriamente — il colpo, ricorrendo alla protezione di Costantinopoli, dal cui catepano Photo Argiro, nel 1032, si faceva confermare i beni cassinesi in Puglia.

La collocazione storica dei “diplomi” benedettini mi consente non solo di risolvere la “contraddizione cronologica” — a torto rilevata dallo Spagnoletti e da lui addebitata all’Ostiense — (21) ma anche di sottolineare l’importanza che Andre aveva assunto come centro rurale. Il suo incremento demografico era andato di pari passo con lo sviluppo economico ed entrambi devono essere collegati sia con l’insediamento dei monaci basiliani nei suoi pressi, avvenuto presumibilmente tra le fine del X e l’inizio dell’XI secolo; sia col ritorno dei Benedettini cassinesi — su per giù nella stessa epoca — i quali certamente ricostituirono la “grangia” sulle “terre, ad rialem qui dicitur de Monacho”, ad un miglio circa dal centro abitato.
Vero è che le “vinee deserte”, che compaiono nei “diplomi” con insistenza, ci evocano un quadro di desolazione e di abbandono, ma esse non richiamano la nostra attenzione che sulle tristi condizioni delle nostre campagne all’indomani della bufera devastatrice dell’invasione saracena.

Solo quando si consolidò la dominazione bizantina l’Italia meridionale, e la Puglia in particolare, fu messa in contatto con centri importantissimi di consumo e di esportazione e ne riuscì stimolata l’attività agricola. Con una produzione maggiore ed un maggior consumo si elevò il valore dei prodotti e si ebbe una vera e propria “rendita fondiaria”. L’economia rurale nel suo insieme progredì”.
Così si esprime il Lizier, altrove da me citato, (22) ed io aggiungo che progressi di tal genere poterono avvenire nelle nostre terre, specialmente, grazie alla presenza delle “laure” basiliane e delle “grange” benedettine.

Che i due ordini monastici, l’uno greco e subordinato al Patriarca di Costantinopoli, l’altro latino e dipendente dal Pontefice di Roma, potessero convivere negli stessi luoghi ed operare per il progresso spirituale e materiale delle popolazioni, i Basiliani con “l’esercizio quasi inumano delle loro virtù”, i Benedettini con la laboriosità instancabile e la preghiera, entrambe elevate a norma di vita; ce lo dimostra l’esempio illustre dell’abate Aligerno che ricevette con grande onore Nilo di Rossano e i suoi sessanta compagni basiliani e cedette loro Valleluce perché potessero fondarvi un eremo (23).

Bisogna anche tener presente che “Andre”, da quando il pontefice Benedetto VII, prima, e il catepano Calocyro, poi, elevarono Trani a sede vescovile, e fors’anche arcivescovile (24), entrò a far parte non solo della provincia ecclesiastica, ma anche del distretto militare-giudiziario-amministrativo di Trani.

Questa città — al pari di Bari, Brindisi, Otranto e Taranto — era un florido centro commerciale costiero in quell’epoca, in cui il mare era la via di comunicazione più naturale con l’Impero greco, l’Africa settentrionale, la Spagna e la Sicilia. Se ne esportavano il vino — carente nei paesi musulmani — i cereali, la frutta e i prodotti dell’industria tessile del lino e vi si importavano l’olio — perché l’ulivo era scarsamente coltivato in questo periodo — la cera per il culto e i prodotti “esotici” naturali o lavorati: cuoi, drappi di seta, panni finissimi, stoffe preziose, lavori in avorio, bronzo ed oro (25).

Andre”, situata a poche miglia dal mare, anche se non era un centro marittimo, beneficiava della prosperità del vicino emporio di Trani: ce lo testimoniano ancora una volta i “diplomi” bizantini che stiamo esaminando, nei quali l’appellativo che accompagna “Andre” è quasi sempre “villa”. Il suo sviluppo demografico — e naturalmente economico — di cui dicevamo sopra, è perciò storicamente, perché filologicamente, documentabile.
Villa”, infatti — ci fa sapere il Lizier — è “un centro economico di qualche importanza composto di più “casali” (o “loci”) e abitato da individui soggetti ad un medesimo proprietario (26).

Se poi consultiamo il Du Cange, troviamo le seguenti definizioni del lemma “villa”:
Villas hodie non quomodo latini prædia rustica; sed complurium in agri mansionum vel ædium collectionem appellamus”; ed ancora: “Sciendum quod de iure gentium agris sunt termini positi, ædificia sunt collata sive vicinata, et ex qua collatione fiunt civitates et villæ, et ex pluribus ædificiis collatis et vicinatis et non ex uno ædificio constructo, ut si quis in agris unicum faciat ædificium, non erit ibi villa; sed cum ex processu temporis cœperint coadunari et vicinari plura ædificia, incipit esse villa”. Bracton, 1.4 Tratt. I, Cap. 31, Par. I. Infine: “Villa est ex pluribus mansionibus vicinata, et collecta ex pluribus vicinis”. Bracton, L. 5, Tratt. 5, Cap. 28, Par. 31 (27).

Pertanto non c’è da meravigliarsi se il normanno Pietro di Amico, ricevuta la contea di Trani in feudo “à acquester” dal Duca di Puglia e di Calabria, Guaimaro V di Salerno, scelse “Andre” fra i centri rurali dell’entroterra tranese per ingrandirla, fortificarla ed elevarla al ruolo di uno dei vertici del quadrilatero, entro il quale strinse d’assedio il bel munito “castrum” bizantino di Trani. A tale scelta, naturalmente, dovettero presiedere criteri che tennero conto tanto della natura geografica del luogo — una modesta altura (151 metri) fra le ultime propaggini delle Murge prospiciente la piana di Trani — quanto della sua idoneità a trasformarsi in breve tempo in un centro logistico e di acquartieramento.

NOTE
(1) L.A. Muratori, “Antiquitates Italicæ Medii Ævi”, Milano 1739, I, 337.
(2) Il “regesto” è un registro in cui sono ricopiati in ordine cronologico documenti e atti relativi a un’abbazia o ad un monastero.
(3) F. Trinchera, “Syllabus graecarum, membranarum”, Napoli 1865, Perg. XII.
(3a) Il “chorion” bizantino è una collettività rurale responsabile di fronte allo stato.
(3b) Campo, terra arabile.
(5) F. Carabellese, “Intorno a tre importanti documenti di Bisceglie della metà dell’XI secolo”, in “Rassegna Pugliese”, vol XIII a. 1896 p. 50.
(6) A. Prologo, “Le carte che si conservano nell’Archivio Metropolitano della città di Trani”, Barletta 1877, Documento II a. 843.
(7) A. Prologo o. c. Documento III a. 845.
(8) A. Prologo o. c. Documento IV a. 915.
(9) “Codice Diplomatico Barese: i documenti storici di Corato”, vol. IX Bari 1929, Documento VI a. 1073.
(10) A. Prologo o. c. Doc. VII a. 983.
(11) A. Prologo o. c. Doc. VIII a. 999.
(12) La “stratìa” o “servizio domnico” era “un onere che gravava sugli individui che possedevano determinate terre” e ricadeva non sulla persona, ma sulla “res”, tanto che nelle alienazioni si usava una clausola speciale per garantire la libertà delle terre “tam ab ipsa stratìa quam ab omni alio servitio domnico”. Di tali “beni” gravati dalla “stratìa domnica” il successore, se maschio, era obbligato a fare il “servizio”, se femmina, vi delegava qualcuno dei parenti. (Cfr. E. Besta, “Scritti di storia giuridica meridionale”, a cura di G. Cassandro, Bari 1962, pp. 158-159.
(13) C. G. Mor o. c. vol. I p. 458.
(14) G. Petroni, “Storia di Bari”, rist. anast. ediz. Napoli 1857-SS Forni, Bologna vol. I p. 112.
(15) Non tutti gli storici sono d’accordo sull’origine longobarda di Melo: v’è chi, come il Muratori, lo ritiene d’origine bizantina e chi, come il Simondi, gli dà ascendenze arabe. Preferisco seguire il Gay, il Mor ed altri, perché la loro opinione, criticamente vagliata, è storicamente più credibile.
(16) C. G. Mor o. c. vol. I p. 545.
(17) Il Mor pone la data della battaglia di Bitetto nel 1009; mentre il Petroni, da me altra volta citato, (Ved. P. Barbangelo, “Andria nell’Alto Medio Evo” ecc. in “Andria Fidelis” ecc. o. 33) la pone nel 1010 e vi fa partecipare il catepano Basilio Argiro.
(18) J. Gay., “L’Italie Méridionale et l’empir byzantin depuis l’avénement de Basile jusque à la pris de Bari par les Normands“, Paris 1904, rist. anast. dell’edizione di Firenze, 1917, p. 371.
(19) F. Trinchera, “Syllabus” etc., Doc. XIX.
(20) J. J. Norwich, “I Normanni nel Sud”, Milano 1971, pp. 146 … 151, passim.
(21) R. O. Spagnoletti, o. c. p. II e nota 3.
(22) A. Lizier, o. c. p. 159.
(23) G. G. Mor, o. c. vol II p. 290.
(24) Cfr. A. Prologo, o. c. Doc. VII a. 983. Di Meo, “Annali critico-diplomatici” ecc., a. 998 nota. Ughelli, “Italia Sacra”, vol. VII p. 749. D. Morea, o. c. vol. I, Doc. 38 a. 1024 p. 81, Introduz. p. LXXV e 82 nota.
(25) A. Lizier, o. c. pp. 146-147.
(26) A. Lizier, o. c. p. 178.
(27) C. Du Change, o. c. tomo VIII ad vocem. Traduzione italiana delle definizioni:
Chiamiamo oggi ‘ville’ non quelle che i latini chiamavano ‘fattorie’; ma la riunione di più abitazioni o case rurali. Bisogna sapere che secondo il diritto delle genti i campi hanno i loro confini ed abitazioni riunite una accanto all’altra: di questi aggregati constano le città e le ‘ville’, cioè di più case-riunite una accanto all’altra non di un unico fabbricato; sicché se uno costruisce un fabbricato unico in campagna, questo non sarà una ‘villa’; ma quando, col passar del tempo, più costruzioni cominceranno a riunirsi e a stare una vicino all’altra, allora inizierà ad esistere una ‘villa’. Una ‘villa’ è formata da aggregazioni di case una vicino all’altra e da agglomerati di più aggregazioni di tal genere”.
Per quanto riguarda il termine ‘choríon’, corrispettivo di ‘villa’ nelle citate pergamene del Trinchera, il Cilento così si esprime:
… chorí, cioè... borgate, o più propriamente circoscrizioni fiscali la cui crescita è connessa all’espansione monastica, senza far ricorso per spiegarla alla nota tesi, ormai confutata, della rinnovata bizantinizzazione ed ellenizzazione del Sud, che sarebbe stata provata in conseguenza della lotta iconoclastica e dell’avanzata islamica” (N. Cilento, “Insediamento demico e organizzazione monastica”, in “Potere, Società e popolo nell’età dei due Guglielmi” Atti delle quarte giornate normanno-sveve - Bari - Gioia del Colle, 8-10 ottobre 1979. p. 178).

[da “Andria nel Medioevo”, di P.Barbangelo, tip Guglielmi, 1985, pp.49-62]