È interessante conoscere in quali condizioni economico-sociali vivevano i centri rurali di Terra di Bari — fra cui si annoverava “Andre” — in epoca “prenormanna”; cioè nell’epoca longobardo-bizantina, che precedette la conquista della Puglia da parte dei Normanni nella seconda metà dell’XI secolo.
Altrove abbiamo già rilevato come vere e proprie costellazioni di piccole comunità rurali s’eran venute formando nel basso impero nei territori dipendenti dai centri urbani, in seguito all’istituzione del colonato e alla trasmissione ereditaria dello stato imposta da Diocleziano e perfezionata dagl’Imperatori suoi successori.
Con la dominazione longobarda, che in Apulia ebbe il suo inizio verso la metà dell’VIII secolo, la “servitù della gleba”, come condizione di degrado in cui era caduto il ceto rurale, non fu abolita. I nuovi padroni, anzi, poterono agevolmente trasformare i “coloni”, costretti a “inservire terris” dall’istituzione dioclezianea della “capitatio-iugatio” (1), “semiliberi”. A questi, invero, affidarono le terre da lavorare per proprio conto (terræ serviles), in cambio di prestazioni personali (angariæ) e di lavori da eseguire nelle “terræ dominicæ”.
A tal proposito il Lizier fa notare che la grande e media proprietà ricorreva spesso al lavoro servile,
dato che possedeva numerose famiglie di servi; mentre la piccola proprietà poteva solo condurre i terreni
per proprio conto o servendosi del lavoro salariato in base a libere pattuizioni.
Spesso il proprietario concedeva i terreni a chi li poteva lavorare: tali concessioni, in forma contrattuale,
erano fatte o “in perpetuo” o “a lungo termine”, contro un canone tenue ed invariabile:
in quest’ultimo caso, scaduto il termine, si provvedeva ad una ripartizione della terra per metà,
mediante sorteggio, tra il proprietario e il coltivatore: eventuali costruzioni, come il “palmento”,
e così pure l’uso del saliceto, rimanevano in comune o si assegnavano per sorteggio.
Tale concessione era chiamata “parzionaria” o “a partizione”.
Per vaste estensioni di terreno era più adatto il “contratto enfiteutico”, importante per l’economia
di quei tempi, in quanto, carente il capitale, scarse le braccia, abbandonata e isterilita la terra,
gl’interessi della proprietà e del lavoro tendevano a conciliarsi: si dava luogo, così,
alla diffusione delle colture con notevole vantaggio della produzione agraria.
Il concessionario, del resto, diventava un quasi proprietario delle terre ricevute, benché fosse tenuto
a migliorare e ad attivare il suolo. Ma quest’obbligo se l’accollava volentieri, visto che, a fine concessione,
metà del terreno così attivato e migliorato sarebbe divenuto suo. È evidente che la lunghezza della concessione
era inversamente proporzionale al valore del suolo.
A tal genere di concessioni, p. es. a “contratti di pastinato”, ricorrevano i proprietari di terre incolte
o abbandonate: erano né più né meno che “contratti enfiteutici”. Ma v’era anche la concessione di terreni
“ad responsaticum”, in cui la locazione era ereditaria e il locatario si obbligava a coltivarli a tutte sue spese
e a corrispondere alla Madonna d’agosto — o, come si dice ancora oggi, “a Santamaria” —
un canone fissato in anticipo e consistente o in derrate o in denaro o misto.
Nei contratti “ad responsaticum” l’obbligo al miglioramento era rivolto ad impedire al locatario,
che aveva il diritto ad abbandonare il fondo, di farlo dopo averlo sfruttato e depauperato.
Un altro tipo di concessione aveva i caratteri del “contratto d’affitto” della durata massima di dieci o dodici anni.
Il “concessionario-affittuario” compiva nel fondo i lavori che riteneva necessari e ne godeva in pieno i frutti,
corrispondendo un censo annuo che era chiamato “terraticum” — il nostro terraggio — o “responsaticum”:
il “terraticum” veniva corrisposto in natura e secondo le consuetudini locali; il “responsaticum”,
invece, era fissato in una quantità costante di derrate o di denaro. Scaduto il termine, la concessione d’affitto
poteva essere rinnovata. Tale facoltà l’avevano sia il proprietario che il concessionario-affittuario; quest’ultimo,
però, era tenuto a pareggiare l’offerta di un eventuale concorrente se voleva riavere in affitto il fondo.
Inoltre era usanza — rimasta pressoché inalterata fino a non molti decenni fa — che il concessionario, fosse parzionario
o locatario, corrispondesse gli “exenia” o “servitia” a Natale, a Pasqua e a Santa Maria: polli, uova, carne suina ecc.
Maggiore equilibrio fra le parti si riscontra nelle concessioni “a canone parziario”, a noi note sotto l’usurpato nome di “mezzadria”, in realtà corrispondenti ai contratti di “colonia parziaria”. Il proprietario, oltre a concorrere alle spese straordinarie per la mietitura e per la vendemmia e a contribuire con una parte delle sementi, veniva in soccorso del “colono” con i suoi animali da lavoro; d’altra parte aveva il diritto di vigilare sulla precisa osservanza dei patti: ne derivava una sua continua ingerenza nella coltivazione dei fondi “concessi”.
A raccolto compiuto, vino e frutti venivano divisi a metà tra il proprietario e il parzionario-colono, il quale, del resto, era tenuto a corrispondere il “terraticum” sui cereali secondo le consuetudini locali e il mutare dei rapporti tra il capitale e il lavoro. Anche il parzionario-colono corrispondeva gli “exenia” al proprietario e, al tempo della vendemmia, dava ai “messi del signore” il “palmentaticum” (2).
In conclusione, i ceti presenti in un centro rurale come “Andre” erano: quello dei “maiores”,
grandi e medi proprietari terrieri, signori longobardi o bizantini, laici o ecclesiatici; quello dei “mediocres”,
per lo più piccoli proprietari o uomini liberi, locatari o parzionari che col frutto del loro lavoro
e della loro abilità e in condizioni favorevoli, riuscivano a vivere con una certa agiatezza;
e quello dei “minores”, contadini che vivevano del lavoro delle loro braccia in condizioni spesso di semilibertà.
A questi bisogna aggiungere gli “affidati”, gli “oblati” e gli “excusati”.
Gli “affidati” — a dir del Besta —
(3)
erano forestieri (advenæ o hospites o xenoi o extranei) che si ponevano sotto la “defensio”
o “affidatura” pubblica del Principe. In seguito questi concesse la “licentia affidandi”
a chiese, monasteri e baroni; dai quali gli “affidati” avevano terre da coltivare, in cambio di un censo annuo.
Il Massa così commenta l’origine di questa istituzione: “Nei tempi calamitosi è chiaro che i deboli cercassero
protezione presso i forti, i lavoratori presso i guerrieri e, in cambio della protezione, dessero lavoro e pagassero un censo.
È chiaro anche come, appartenendo gran parte delle terre a chiese e a signori, i lavoratori dovessero rivolgersi loro
per avere un luogo in cui esplicare le loro attività e, in cambio di un pezzo di terra, si obbligassero in un determinato modo.
L’affidatura ecclesiastica doveva essere per i deboli più mite e conveniente delle altre”
(4).
Diversi, ma anch’essi segno dei tempi, erano gli “oblati”, legati esclusivamente agli enti ecclesiastici: costoro facevano la “traditio” o consegna “per capillos capitis” o “per comam capitis” di sé, dei propri beni e dei propri servigi alla chiesa o al monastero; in cambio veniva loro garantito l’usufrutto delle terre cedute e, in ogni caso, il nutrimento. L’oblatio era revocabile “per iniustitiam” del donatario (5).
Gli “excusati”, infine, in cambio di un’ “excusatio”, cioè d’un’esenzione — probabilmente
dell’esenzione dal servizio militare — davano una prestazione o “excusatìchion”
(6).
Il Beltrani li ritiene schiavi affrancati: evidentemente fa riferimento al “sighìllion” di Argiro,
in cui si dichiarava che il tranese Sasso non fu mai di servile condizione, come per invidia affermavano alcuni suoi nemici.
Fondandosi su questa ragione pretestuosa essi lo reclamavano qual loro “excusatus”; ma non poterono produrre né prove scritte
né testimoni e Sasso — e i suoi eredi — furono da Argiro dichiarati uomini “liberi”
(7).
Ma il Besta contrappone al “sighìllion” di Argiro, — quello più volte citato —
del Tracaniota del 999, in cui sacerdoti baresi e tranesi appaiono evidentemente “esonerati”
dal servizio militare, la “stratìa”, e non una specie di “liberti”: perciò non ritiene l’ipotesi
del Beltrani solidamente dimostrata; a meno che non si debba credere che l’ “excusatìchion”,
cioè la prestazione che gli “excusati” erano tenuti a dare, non comprendesse l’ “obbligatio”
e la “perquisitio”, da cui Argiro dichiarava libero Sasso e i suoi discendenti
(8).
A mio modesto parere si può dar ragione senz’altro al Beltrani, se si tiene presente che anche la “stratìa”
da cui vengono esonerati i sacerdoti baresi e tranesi era un “servitium domnicum”: un servizio pubblico,
però, non privato come quello “presunto” e vantato su Sasso dai suoi nemici. Infatti nel “sighìllion”
del Tracaniota si parla di “douléia”, a cui, comunque, rimangono soggetti i sacerdoti delle due città,
unitamente ai loro concittadini per la riparazione o la riedificazione delle fortificazioni cittadine.
L’Assemani ha tradotto il termine “douléia” con “ministerium”; per chiarezza “esegetica” mi sia consentito,
invece, di tradurlo con “servitium”. In tal modo si può dare ad “excusatus” la stessa ambivalenza di “servitium”:
quella di colui che ha conseguito l’esonero da un qualsiasi “servitium domnicum” sia pubblico che privato, sia militare che domestico.
Per quanto riguarda gli “schiavi”, secondo il Faraglia (9), in Bari vi era un forte commercio di schiavi. Il Lizier sostiene che col ricorso al lavoro libero si ebbe l’emancipazione della classe dei servi (10). Il Massa fa rilevare che le necessità economiche, che avevano condotto alla trasformazione della schiavitù in servitù della gleba, resero meno perfide le condizioni dei servi cui giovò anche lo spirito del cristianesimo. Nei “documenti” la maggior parte delle notizie sui servi ci vien fornita dalle formule di “morgengab”: si tratta o di un ricordo storico — e quindi della donazione di una somma equivalente a mezzo servo o ad un servo — o, se è donazione di schiavi (boni, apti, sani), questi sono per lo più “ex genere saracenorum” o “ex genere sclavorum”, vale a dire di nazionalità saracena o slava: raramente sono battezzati e si possono ritenere gli avanzi della servitù domestica (11). “Tuttavia è certo che l’impiego del lavoro servile diminuiva sempre di più e si restringeva ai bisogni della ‘corte del Signore’, sia perché la popolazione servile diminuiva, sia perché la coltura, estendendosi a terreni nuovi ed inferiori, richiedeva un lavoro più intelligente e maggiormente cointeressato oltre ad un maggior impiego di capitali” (12).
Non è mio intendimento riassumere l’opera del Lizier; ma per fornire i parametri indispensabili ad una conoscenza — sia pur sommaria — dell'attività e della vita rurale dei nostri avi nei secoli X e XI, mi sia consentito di estrapolarne alcune notizie significative.
I contratti “ad pastinandum” e “ad partionem” consentivano di impiantare i vigneti, che compensavano l’agricoltore sia del lavoro sia dell’anticipo del capitale. La coltura dell’olivo scarseggiava appunto perché il coltivatore non vi trovava adeguato compenso.
La coltivazione dei campi avveniva “a rotazione triennale”: maggese, coltura a grano, riposo con un po’ di foraggio.
Le terre “vacue” o “vacive”, di cui si parla nei “documenti”, erano forse terreni lasciati temporaneamente a riposo.
Fra le colture primeggiavano quella dei cereali: frumento, orzo, segale, miglio —
da soli o associati ad altre colture — e quella della vite.
Per il consumo bastavano i cereali inferiori e i legumi; il grano per il suo prezzo elevato
veniva preferibilmente esportato. Estesa era la coltivazione degli ortaggi: cipolle, zucche, verze
e “folie”. I foraggi — che servivano per gli animali “da stalla” — erano prodotti nei prati o si ricavavano dai pascoli.
Fra le piante industriali si coltivavano la canapa e specialmente il lino. Fra quelle arboree la maggiore importanza spettava alla vite, il cui prodotto era altamente remunerativo e abbondantemente esportato. La coltivazione dell’olivo era poco frequente, anche perché non se ne sentiva il bisogno in un’epoca in cui abbondavano i prodotti del maiale, diffusissimo, e il burro delle numerose greggi. Comunque, l’olivo è ricordato spesso nelle “carte” pugliesi. Si coltivavano anche alberi da frutta, come il fico, il melo, il pero, il mandorlo, il nespolo, il noce, il castagno, il nocciolo e — negli orti e nei giardini — gli agrumi. Nei boschi e nelle selve molto estesa era la coltura della quercia, del cerro, della robinia e del faggio.
Essendo molto diffusi il demanio pubblico e quello dei “luoghi pii”, i prodotti dei pascoli e delle selve erano concessi agli abitanti e ai proprietari delle terre contermini. Essi potevano appropriarsene gratuitamente: erano solo tenuti a pagare l’ “erbaticum” o l’ “escaticum” o il “glandaticum” o il “legnaticum”. L’importanza dei demani pubblici nell’economia di quei tempi era grandissima, perché l’agricoltore ne ricavava legname per costruzione, pali per la coltivazione delle piante, legna da fuoco o da carbone, ghiande per l’ingrasso del maiale.
Industrie connesse con la coltivazione delle piante erano: la vinificazione, l’oleificazione, la macerazione del lino, la pettinatura e cardatura della lana e la disseccazione della frutta: castagne, nocciole, fichi e mandorle.
Dalla ricchezza dei pascoli e dall'abbondanza delle selve era favorito l’allevamento di pecore, capre e suini
e degli animali da cortile: polli e galline. Del resto questi animali si adattavano meglio al consumo
di una popolazione che traeva gli elementi più importanti della vita economica dalla “curtis”.
Allevati erano anche gli animali utili al lavoro dei campi o al trasporto di uomini e cose: buoi, cavalli ed asini.
L’allevamento di questi ultimi era praticato per lo più all’aperto e vi provvedevano “bubulci”, “baccari”,
“iumentarii”, “porcarii” e pastori, che erano pagati, calzati e vestiti dai proprietari e ricevevano,
inoltre, una parte dei prodotti degli animali loro affidati. Parte importante dell’alimentazione
erano i prodotti della caccia e della pesca.
Per quanto attiene all’istruzione della popolazione rurale c’è da rilevare che le conoscenze dei “rustici” si riducevano ad una certa pratica nell’immediata previsione delle vicende atmosferiche. Contro gl’insetti e gli animali nocivi che minacciavano e danneggiavano i campi, si ricorreva a scongiuri ed a pratiche superstiziose, che del resto si sono protratte fino a qualche decennio fa. Quand’ero bambino — lo ricordo come fosse oggi — i nostri contadini ritenevano di poter impedire che dalle nubi temporalesche cadesse la grandine “facendo a pezzi il drago” — cioè una nube a forma di “drago” — con l’aiuto di un coltello e pronunciando misteriosi scongiuri. Naturalmente non tutti erano persone dotate di questo magico potere!
Nei centri rurali l’attività artigianale era molto scarsa: molto fiorente, invece, era l’artigianato nelle città. Anzi, dai documenti risulta che c’era una larga divisione del lavoro: i rapporti di scambio tra la città e la campagna erano, perciò, molto attivi.
Politicamente nelle nostre contrade, soggette all’amministrazione bizantina, c’era un’amministrazione militaristicamente arbitraria: prepotente verso i deboli — al punto che si vendevano schiavi i cittadini — debole verso i potenti, fiacca contro i nemici esterni, corrotta e fiscalmente vessatoria. Se dapprima sia Longobardi che Greci, instaurando l’ordine e la sicurezza, avevano favorito lo svolgersi dell’economia pubblica; nei secoli X e XI la loro debolezza le recò danni diretti e indiretti.
Il disordine interno e le malversazioni e gli arbitri degli agenti del pubblico potere non tutelavano la proprietà. Peggiori erano le condizioni della sicurezza personale per le frequenti guerre interne ed esterne. Conseguenze nefaste ed inevitabili erano le comunicazioni interrotte, gli affari sospesi, gli uomini fatti prigionieri, gli edifici distrutti, le terre devastate, le violenze, le spoliazioni, lo squallore, la fame, come risulta dai “documenti”. I proprietari erano costretti, rovinati dai debiti, ad alienare per vilissimo prezzo le loro possessioni: per dodici “miliaresi”, vale a dire per un “solidus aureus”, si vede venduta “necessitate famis” una proprietà costituita di terre, chiese, vigne, corti, casali, acquari, pascoli, albereti e pometi (13).
Per avere un’idea di quanto fossero sviliti i beni rurali, si confronti quest’autentico “prezzo di fame”
con i “dodici solidi aurei constantiniani, soteriki boni et horiati veteres”
che un tal Musando “filius Maraldi ex civitate Trani” aveva ottenuto poco più di dieci anni prima,
nel 983, dalla vendita di soli “quinquaginta octo urdines de vinea”, fatta al suo concittadino Calopetro,
figlio di Giovanni, e si tenga presente anche che la “penale”, a cui il Musando si obbliga nel caso
che venisse meno ai patti stabiliti, ammonta a ben “quinquaginta solidi costantiniani”
(14).
Si può quindi argomentare che verso la fine del X secolo nella nostra regione tutta la vita rurale era incerta,
precaria; anche se non si deve dimenticare che i “signori”, i vescovi, gli abati erano spesso in grado
di dare protezione, addolcire i gravami e procurare una certa sicurezza.
Quanto ai “gravami”, mi limiterò a farne cenno: c’erano le “daciones”: tasse ed imposte indirette di esercizio e di consumo come il “portaticum”, il “pontanaticum”, il “pontaticum” e la “decima platea” o “platea calceraticum”, per le strade e le uscite dai porti, dalle porte della città o dai castelli; al passaggio di porti o per le merci vendute nella piazza del mercato o per l’esercizio di un pozzo o “fusaro”; per la macerazione del lino.
C’erano, inoltre, le contribuzioni personali, che andavano sotto il nome di “servitia” e “angariæ”. Tali imposte originariamente dovettero essere “straordinarie”: erano, comunque, commisurate alla ricchezza dell’individuo tassato, calcolata in modo approssimativo. Nel sistema fiscale bizantino erano previste contribuzioni personali relative ad opere e servizi pubblici come le “angarìe” e le “castroctisìe”; contribuzioni in natura, come il “metato” — per l’esercito di passaggio da un dato luogo — o il “suffragio” — ospizio e sostentamento delle truppe —; tasse e pedaggi vari.
Il credito era relativamente sviluppato: mutui pecuniari ad interesse erano: la “prode”, l’ “usura” e l’ “onere”. L’interesse, se in denaro, era del 20%; oppure era dato in opere o in prodotti. Esso, del resto, era molto spesso manifestazione di povertà: il denaro mutuato serviva o per qualche impresa commerciale o industriale; o per pagare debiti contratti nell’urgenza di strettezze o di dolorose calamità pubbliche o di carestie: difficilmente in tal caso era estinguibile e portava all’assorbimento della piccola proprietà nella proprietà maggiore (15).
Le esigenze della vita domestica erano modeste, ristrette al puro indispensabile per l’esistenza:
l’unica camera che avesse un arredamento completo era quella da letto: materassi di crine o di lana,
guanciali, coperta, qualche paio di lenzuola e, per arredamento della camera, l’armadio, qualche cassetta,
qualche scranna. Nella cucina, poi v’erano alcuni arnesi di rame o di ferro, una “cocuma”,
una “padella”, una “caldaia”, un “secchiello”,
uno spiedo e alcuni mobili di legno: una madia, qualche pila, l’arcolaio, il “cardaturo”
e qualche recipiente di terra o di vetro.
Ma quello che non s’impiegava per le comodità si profondeva in costosissimi oggetti di lusso: drappi di seta, vivaci ricami;
liste “frisate ad auro”, “facioli cum auro”, “mandili” di seta,
pellicce foderate di seta, “xendaria”, “nastala” (nastri), anelli,
“cercelli” per le orecchie, ricche coperte lavorate
(16).
Ci resta da parlare delle abitazioni di quest’epoca.
Armando Perotti, dopo aver fatto rilevare che la casa a pianterreno era il rifugio dei più umili, così ci descrive quella a più piani:
la scala è esterna, ad una rampa che mette ad un terrazzino d’accesso al primo piano. Sotto l’arco della scala si apre una cameretta adibita a cantina o a ripostiglio.Da un piano all’altro si sale mediante scale interne di legno.Il prospetto della casa termina con un cornicione molto sporgente, appoggiato sulle teste delle travi e fa da buon riparo per il sole o per la pioggia. Su questo poggia il tetto spiovente con nel mezzo il lastrico solare e talvolta una camera aerea o un terrazzo.La porta è una sola; vi sono anche dei balconcelli o delle finestre, ma la loro disposizione sulla facciata non è simmetrica. La casa confina a destra e a sinistra con altre case, ma ne è divisa da breve spazio: la facciata posteriore dà sulla via pubblica e chi vuole può aprirsi un accesso; ma la facciata, quella su cui si appoggia la scala, è caratteristica. Essa ha innanzi uno spazio libero con nel mezzo un pozzo e spesso un serbatoio per il superfluo delle acque.Questa piazzetta è la “corte” o “corticella”, che ritroviamo di continuo nelle “carte”. Spesso è comune a due o più case e comune per essa a tutte è l’entrata e l’uscita, comuni sono il pozzo e l’acquaio. Ma un muro di discreta altezza divide allora la corte, perché i vicini possano in libertà attendere alle cure domestiche. A sera le due o tre famiglie raccoglievansi nella “corte” comune.Accanto alle case a più piani si trova la “casella”, più piccola ma pure abitabile; l’ “applicto”, abitazione di una stanza a pian terreno; il “casile”, anch’esso a pian terreno, d’un sol vano coperto talvolta d’un tetto di legno, che viene usato da bottega o da deposito; il “paleario”, costruzione rustica di pietre, cementate o no, con tetto leggero, tugurio da contadini; il “suppinno”, talvolta alto sui tetti, tal altra a pian terreno, piccolo e rozzo ad uso di cantiere, dove i lavoratori depositavano i ferri del mestiere; l’ “ædificium”, cameretta di legno elevata sulle travi del tetto.In mancanza di commissioni edilizie e di piani regolatori, tutte queste costruzioni si moltiplicavano in un bel disordine. Ciascuno edificava in terra sua come voleva: alto, basso, diritto, storto: un simpatico anarchismo" (17).
* * *
A voler parlare delle manifestazioni della vita religiosa in “Andre” locus/villa, occorre risolvere il plurisecolare e ineludibile problema dell’origine cristiana del nucleo primitivo della nostra città.
Il D’Urso — ed altri ancora prima e dopo di lui — favoleggiano d’una venuta degli apostoli Pietro ed Andrea nell’anno 44 d. C. in Andria (18).
Senza scendere in una disputa su cui sarebbe facile contestargli che a quell’epoca né Pietro, né tantomeno Andrea,
si trovavano in Italia, mi contenterò di riferire le conclusioni a cui sono giunti emeriti studiosi prima di me.
Fra questi — last not least — Cesare Colafemmina nel suo studio sulla Puglia cristiana e su Venosa così afferma:
“Stando alle tradizioni locali e ai toponimi non v’è città o villaggio della Puglia dove Pietro non abbia predicato.
Per questo si è giunti a parlare di ben tre missioni petrine in Puglia. Una così vasta e feconda attività apostolica
non ha però lasciato alcuna traccia nella storia. Questa non conosce nessuna venuta di Pietro nella regione,
né come evangelizzatore, né come semplice viandante. Persino gli Atti apocrifi di Pietro, scritti tra il 180 e il 190,
sono muti al riguardo. Questi, anzi, fanno sbarcare Pietro a Pozzuoli nel suo viaggio verso Roma”
(19).
Poi prosegue rilevando che nel Medio Evo sorsero molte chiese dedicate a S. Pietro, per la diffusione che del culto verso il Fondatore della Chiesa si ebbe nell’Occidente Cristiano ad opera dei Benedettini. Infine sostiene che spesso una diocesi attribuisce la propria origine a S. Pietro per indicare semplicemente o un rapporto di stretta comunione con la sede romana o un’affermazione di autonomia nei suoi confronti: in entrambi i casi rimarrebbe implicito il riconoscimento di Pietro.
Ma già alla fine del secolo scorso il Racioppi, di fronte al problema della diffusione del Cristianesimo nelle nostre regioni aveva avanzato la supposizione che esso si fosse diffuso “dal centro alle provincie, anziché, dando fede alla tradizione di alcune chiese, riattaccare le origini di esse ai viaggi dei due principali apostoli a Roma, quando, approdati a Reggio o a Brindisi (sic), attraversarono il paese fino al Tevere. Di queste tradizioni epicorie — egli conclude — se la pietà può esserne edificata, non ne sarà edificata la storia” (20).
Ma un’altra, ben più spinosa, questione ha assillato gli studiosi della storia di Andria, me compreso: quella che concerne l’epoca in cui la nostra città fu eretta a sede vescovile.
Che Andria — tutt’al più un modestissimo “locus” — non sia divenuta sede vescovile nell’ultimo decennio del V secolo, l’ha dimostrato con argomenti ineccepibili e definitivi l’Arcivescovo di Salerno, mons. Nicola Monterisi, nel suo dotto studio su S. Ruggiero (21).
Ne tiene il debito conto il Kehr, nella cui Italia Pontificia o Regesta Pontificum Romanorum a proposito di Andria così si esprime:
“Quo autem tempore episcopatus institutus sit, penitus ignoratur; neque admitti potest pia Andriensium traditio,
quæ S. Richardum Anglicum sæculo V primum Andriensium ep. fuisse voluit (Cfr. Lanzoni Zagaria et Monterisi)”
(22).
Dopo di che nient’altro mi resterebbe da aggiungere, se non mi corresse l’obbligo di esaminare le recenti proposte del Coniglio,
il quale nelle sue “Note storiche sulla Chiesa di Puglia e Lucania dal V al X secolo nei fondi pergamenacei”,
pubblicate in “Vetera Christianorum” a. VII ( 1970), fasc. 2, Bari, dopo aver elencati i vescovi pugliesi
presenti ai concili romani del 465, del 487, del 499, del 501, del 502 (e del 504)
(23),
pur notando che non vi compare nessun vescovo di Andria, così afferma — però usando il condizionale attenuativo —:
“Per quanto si riferisce all’erezione di Andria a vescovado nel secolo V, ciò non sarebbe
in contrasto con la successiva assenza di vescovi andriesi”
(24).
Ora, a parte il fatto che per “secolo V” bisognerebbe intendere solo gli ultimi suoi otto anni,
dal momento che secondo la leggenda bauciana – l’unico riferimento che ci è consentito
Riccardo giunse ad Andria nel 492; il Coniglio precedentemente
(25)
non aveva nominato Andria fra le diocesi del V – VI secolo.
D’altra parte la successiva assenza dei vescovi andriesi – successiva cioè alla morte di Riccardo,
posta dal Del Balzo nella sua “Legenda” al 537 – rimane senza spiegazione convincente.
Anche a voler dar per vera l’affermazione del Crivellucci, che
“molte diocesi sparirono proprio alla fine del secolo V” –
fatta propria dal Coniglio –, tale sorte non poté toccare ad Andria, se istituita
sede vescovile nel 492 e retta per quarantacinque anni dal “vescovo inglese” Riccardo
(26).
Né d’altronde è accettabile il fatto che, morto Riccardo, non si faccia più parola dei suoi successori:
la sparizione del vescovado, infatti, non poté avvenire “nella prima metà del secolo VI a causa
degli avvenimenti legati alla guerra greco-gotica (535 - 553)
(27)
perché un qualche cenno se ne sarebbe trovato negli “Acta Sancti Sabini”, vescovo della vicina Canosa.
Alla fine del VI secolo, o meglio dal 591 in poi, è bensì vero che “scompaiono molte diocesi”,
tanto che “nel 649 i vescovi di Puglia presenti al concilio romano sono quelli di Siponto e Lesina”
(28)
ma quel papa Gregorio che si preoccupò tanto del clero canosino, in grave afflizione dopo la distruzione
della Chiesa di Canosa da parte dei Longobardi di Autari, avrebbe affidato al vescovo di Andria –
anziché a Felice di Siponto, che reggeva una diocesi tanto distante –
l’incarico di soccorrerlo, se la diocesi di Andria fosse esistita.
Se poi anche il clero e il vescovo di Andria fossero rimasti coinvolti nella rovina e nella distruzione
che si erano abbattute sulla Chiesa canosina, Gregorio I non avrebbe mancato di preoccuparsene
e di farsi carico anche delle sorti della Chiesa andriese.
Ma queste sono vane ipotesi. Il Coniglio stesso, nonostante che – come già visto – mostri di credere all’esistenza di una diocesi di Andria nel V secolo, non dev’esserne intimamente convinto, dato che poi conclude: “Possiamo ritenere poco verosimile che ad Andria vi sia stato un vescovo nel V secolo” (29).
Comunque il nostro studioso, che pur in tante opere è degno di ammirazione per la sua acribía e per la sua dottrina, nel lodevole intento di “risalire indietro nel tempo” e di trovare già esistente la comunità cristiana di Andria – ch’è poi anche il mio intento – prende in esame la “carta” del Prologo del 915/911, da me più volte “interrogata”. Riscontrando che vi si nomina il “locus” Andre, ricava dal Du Cange la notizia che “locus” equivale a “locus monachorum” e che “loca” equivale a “loca venerabilia, ecclesiæ, monasteria, xenodochia, seu quæ Christianorum venerationi dicata sunt” (30): e ne conclude: “È chiaro che nell’ottobre di anni compresi tra il 911 e il 915 l’oppidulum monasticum di Andria era una realtà” (31).
È ben vero che il Coniglio, se nel caso di Andre prende l’appellativo “locus” nell’accezione di “locus monachorum” (ma quello proposto dal Du Cange è riferito ai Veneti dell’Armorica!), insegue una sua “ipotesi di lavoro” con cui tenta di far risalire l’esistenza di Andria almeno al secolo VII, quando S. Riccardo sarebbe venuto “a trovarsi in Puglia” al seguito di S. Colombano (32); ma tale ipotesi non può rimaner suffragata solo da un’assunzione del termine “locus” così riduttiva, tutt’al più valida per un territorio limitato e notevolmente distante dalla nostra regione.
Da noi i “loci” non è detto che debbano essere degli “oppidula monastica”:
sono talmente numerosi che nella loro diversa genesi postulano un contesto
socio-economico-politico-religioso di ardua, se non impossibile, lettura.
Anche a voler ipotizzare che Andre sia stato originato da una presenza monastica, i documenti esaminati
ci rinviano ai Benedettini cassinesi che “in finibus canosinis” possedevano
dei beni e avevano istituite delle “grange”. Nei loro pressi, certo, si può ammettere che
si sia radunata una comunità rurale, “che prese il nome dal particolare aspetto del paesaggio”
(33).
Pertanto, escluso che fino alla metà dell’XI secolo circa, Andre, locus o villa, sia stata sede vescovile – e al riguardo mi sembra opportuno ricordare che i decreti dei papi Damaso e Leone e i concili di Sardica (347) e di Laodicea (366) proibivano la presenza di sedi vescovili nei villaggi – (34); possiamo con valide ragioni sostenere che la nostra città, fintantoché fu un “locus”, ecclesiasticamente dovette far parte di un “distretto archipresbiteriale”, in quanto “chiesa minore” o “ecclesia billana” affidata ad un “rector” (35). Non diversamente troviamo nel “locus” Trimodie il diacono Arrioaldo, in qualità di “rector Sancti Pantaleonis” (36).
Quando poi diventò “villa” poté ben salire al rango di “chiesa archipresbiteriale”, retta da un arciprete e da un capitolo, dipendente dalla sede vescovile o arcivescovile di Trani.
La vita religiosa del clero e dei laici nei nostri centri rurali si svolgeva in modi e forme estremamente ridotti:
preti e diaconi, costretti a vivere in mezzo ai barbari – per lo più longobardi e/o saraceni
– ed impegnati a procurarsi con grande fatica e mediante il lavoro manuale il proprio vitto quotidiano
(37),
non avevano una vita facile; d’altra parte i loro costumi non si diversificavano molto da quelli dei laici,
se è vero che i “canoni” imponevano al clero di non vivere in compagnia di donne, fossero religiose o laiche,
prescrivevano di non portare abiti secolari ed esortavano ad astenersi da abitudini mondane, come giochi o banchetti o cacce.
I componenti del clero, secolare o regolare, influenzati anche dai costumi del clero greco –
presente almeno nella Salentia – si ammogliavano ed avevan figli,
com’è agevole riscontrare dalle “carte” del Codice Diplomatico Barese, del Chartulario Cupersanense
e dell’Archivio Metropolitano di Trani.
Il livello generale della vita religiosa non era certamente elevato. Dalle prescrizioni dei concili si sa
che per i laici gli obblighi positivi erano pochissimi: frequentare l’ufficio domenicale; conoscere a memoria
il pater noster e il credo; comunicarsi possibilmente a Natale, a Pasqua e a Pentecoste; comunque almeno a Pasqua.
Più numerose erano le prescrizioni negative intese ad un miglioramento graduale dei costumi:
erano vietate la bigamia e l’unione con meretrici ed, in genere, era prevista una minuziosa casistica sugl’impedimenti matrimoniali;
era proibito darsi alla crapula, specie nei giorni festivi, e c’era l’obbligo di astenersi
dal celebrare riti pagani o dal ricorrere a sortilegi e ad indovini.
I riti pagani erano specialmente quelli “agrari”, connessi ad antiche divinità agresti o agli
“dei falsi e bugiardi”. Persino il culto dei santi risentiva di magia e superstizione,
collegato com’era alle istanze di protezione della propria vita e dei propri beni e alla tutela
delle proprie case e della propria città
(38).
Frequentissimi in quest’epoca erano lasciti e donazioni a favore di “luoghi pii”, “pro remedio animæ”:
in tal modo ci si creava per la vita futura un “capitale compensativo” per controbilanciare vizi
e malefatte a cui ci si era abbandonati durante il corso della vita terrena.
Al riguardo c’è da rilevare che, durante il quarto di secolo circa che i Saraceni tennero sotto il loro dominio la Terra di Bari,
il clero pugliese in parte fuggì verso le coste tirreniche; quello che rimase, poi, decadde moralmente e disciplinarmente
a tal punto che giunse ad islamizzarsi e ad arricchirsi, o almeno a sottrarsi alle molestie dei Saraceni.
Anzi, i sacerdoti avevan preso “la brutta abitudine di appropriarsi a titolo personale dei beni
che i fedeli donavano per la salvezza della propria anima alle chiese da quelli amministrate”
(39).
È probabile che all’origine della rescissione del contratto di donazione tra Maiulo di Rattiperto
e Pietro di Landone, entrambi del “locus” di Tretaso
(40),
ci sia stato un tentativo di Pietro – forse un “clericus” –
di appropriarsi degli “inclita rebus sua in supranominato loco Tretasi”,
ricevuti in donazione da Maiulo “pro anima sua”.
Il sospetto che Pietro possa essere un “clericus” non sorge tanto dalla donazione fatto da Maiulo
“pro anima sua”; quanto dalla constatazione che nell’atto di donazione del 911 il “donatario”
non risulta aver corrisposto il “launegilt” al “donante”: un mantello di lana o di seta
o una coperta di pelle o di zendado o di lana o di seta, o altro del genere.
Detto “launegilt” accompagnava sempre la donazione o “thinx”, tanto che,
secondo la legge longobarda, se mancava la prestazione di “launegilt”,
la donazione stessa poteva essere annullata.
Ora, se si tien presente che nelle donazioni “a scopo pio” si faceva a meno del “launegilt”
– o lo si sostituiva con preci e con messe di suffragio –,
non è improbabile l’ipotesi da me avanzata che il “documento” del 915 sia la testimonianza di una vertenza
“rientrata”, il cui oggetto era un maldestro e fallito tentativo di appropriazione di beni destinati
“a scopo pio”. La vertenza, appunto, non ci fu più dal momento che donante e donatario
consensualmente decisero di rescindere l’atto di donazione davanti al giudice.
[da “Andria nel Medioevo”, di P.Barbangelo, tip Guglielmi, 1985, pp.63-80]