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DUOMO
di Giacinto Borsella (1770-1856)
Noi lo mediteremo.
Esso alto grandeggia pel gotico campanile come ben si ravvisa
in ciascuna delle logge del second'ordine, che ha nel mezzo una colonnetta con base,
e capitello, con in cima una specie di cappelletto traforato da un occhio,
solito ornato degli edificii gotici, secondochè apparisce,
non meno dalle finestre esistenti nel Castello del Monte ma anche del campanile di Trani.
Tiene un gallo di rame in cima, il quale rammemora, come fama suona,
la venuta del primissimo custode delle somme chiavi;
mentre calato S. Pietro di Antiochia in Italia predicò la divina parola
in Taranto, in Trani, in Andria.
Vi hanno popolari tradizioni che tanto affermano;
e noi nelle tradizioni del popolo riconosciamo gli elementi più sicuri della storia.
Di esso campanile é massimo ornamento la campana della Madonna,
preziosa per fior di metallo, e per copia di argento visibile,
sicchè pare di Bronzo Corintio; veneranda perchè alla cupa malinconia degli squilli,
terremoti, bufere, morbi, fuggono; e perchè spose sofferenti
a sciogliere il grembo doloroso, facile si alleviano di loro pargoli.
La iscrizione, che vi si legge in caratteri gotici, è ricordatrice
che venne fusa da un Prete di Andria, D. Giacomo Dardanelli,
in onore della Vergine per aver liberato Andria da un micidiale contagio nel MCXI.
Oltre questa, nel campanile esistono tre altre campane,
che nelle ricorrenze festive producono gratissima armonia.
Quì ne giova notare che nell'umbilico della città havvi un campanile per l'orologio
con due campane, una per le ore, e l'altra per i quarti.
Sopra la macchina é scritta questa memoria, che l'artefice fu Giuseppe Fenicia Tranese
e che il Campanile venne eretto o rifatto a tempo di Riccardo Tupputi nobile Andriese.
Convien sapere che ai tempi di Tupputi l'orologio suonava ad ore, senza quarti,
con una sola campana semisferica fusa fin dal tempo di Francesco II del Balzo,
e che alle ore 22 [cioè due ore prima del tramonto, che erano le ore 24] dava 22 colpi ed era il segno di far cessare il travaglio
ai zappatori nelle campagne tant'era sonora.
Il Tupputi commise l'errore di fonderla onde farne due
distruggendo questa memoria antica.
Ma il superbo pinnacolo,
il vestibolo di pietre vive con ben costrutti archi,
e pilastri, che dà ingresso nel tempio per tre porte raffinatamente raffinate
negli stipiti e negli architravi con varie cornici, e con certe quasi orlature ricamate,
ti aggradiranno assai. Senza parlare di tre nicchie della stessa pietra
da servire per collocare delle statue. Da questi travagli
e da altri esistenti in città e in tutte le nostre Chiese,
può ben raccogliersi quanto l'arte dello scalpello stata sia sempre quivi in fiore,
dandocene incontrastabile pruova le non poche figure dei Vescovi
rilevate sopra i rispettivi avelli.
Ne ti piacerà meno il frontespizio ornato di non ispregevoli stucchi,
con sei porte fornite d'inferiate, con lance e festoni in cima di ferro fuso;
non che l'ampia loggia sporgente in Chiesa a commodo dei cittadini
assistenti alle solennità, che sarebbe propriamente l'orchestra dei Latini
[1]
son cose tutte che ben s'accordono al lustro del tempio.
A manca della gran porta trovasi spazioso Oratorio, illuminato da cinque finestre,
fornito di volta solida, con orchestra, ed organetto sulla porta per le sacre funzioni.
Mette in esso un coretto del Vescovo.
Sonovi cinque altari, compresovi il maggiore in cui elevasi una cupola.
In fondo del muro dello stesso è affisso un gran quadro,
in cui è espressa la Vergine degli Agonizzanti da buon pennello.
A pié sta genuflesso un confratello sacerdote, vestito di sacco.
Quindi non manchiamo accennare, che questa Congrega, anzi Arciconfraternita,
era in origine composta di soli preti per assistere ai moribondi.
Ma introdottisi quindi pochi secolari col braccio della Casa Ducale,
finì l'amministrazione Ecclesiastica, e pose piede quella dei secolari,
dai quali è regolata tuttora.
Sonovi altri quattro altari, dedicati alla Concezione, cui soggiacciono S. Gennaro,
S. Giovanni Neupomiceno, con lunetta in cima dipintovi S. Carlo Borromeo.
Rimpetto scorgesi la gran Diva del Carmine, con S. Sebastiano, e S. Stefano protomartire,
con altra lunetta in testa indicando S. Andrea Avellino in atto di celebrare
il sacrificio della Messa, tele tutte di mano perita.
Il terzo quadro rappresenta, S. Paolo, S. Giovanni e S. Giuda Taddeo
illuminati da raggi della Divina Colomba, che loro sovrasta.
Quadro non ben ritoccato. L'ultimo del quarto altare palesa il Redentore
col cuore squarciato, cui prostrandosi un Serafino offre con turibolo
odorosi timiani, stando sottoposti S. Vincenzo de' Pauli e S. Alfonso.
Questa tela non è punto ignobile.
L'architettura è in tutto soddisfacente, anche per gli ornati.
Elevasi nel mezzo una grand'urna di noce quadrilatera,
chiusa da ampii cristalli ben congegnata nei lavori,
contenente la statua della Concezione, Opera Ammirabile della moderna
Scuola Romana le bellezze di questa effigie spirano la maestà del Paradiso,
ha il capo cinto di stelle poggiando sopra un gruppo di nubi
donde emergono l'argentea luna e tre teste di Angioli,
oltre due Serafini a destra e a manca, tenendo in mano lo specchio
(Speculum Iustitiae) una stella Maris o Matutina.
Il bambino che la madre stringe e sorregge, sembra sceso dal Cielo.
Non poco spavento desteratti poi la deforme livida biscia
che calcata dal sacro pié della Eroina, mette fuori la lingua di fuoco,
mentre dagli occhi si torvi dà a divedere l'interno cruccio che lo divora.
Alzando quindi i lumi dall'acque infernali, ti sarà grato rimirare
il manto matronale, e la veste; l'uno e l'altra bellamente screziati di fiori,
con lembi di oro, di cui rifulge la Genitrice;
mentre il Pargoletto indossa vesticciola tutta fregiata di ricami
tenendo in mano un globo di Argento, con crocetta in cima.
Il capo, dell'uno e dell'altro vien decorato da corone di argento.
Il pavimento di questo Oratorio è intarsiato di mattoni verniciati,
figurante alternativamente teste di morti, fiori, stelle, campagnuole, ed altre fantasie.
In uno di essi è scritto 1757 che forse fu l'epoca in cui venne formato.
Uscendo, nel muro a sinistra leggesi questa lapide:
Me ligat hic lapis, at volo, vosque requiro
Volando sub saio cunctos hoc aperire volo.
In fronte scorgesi un teschio di morte, tenendo stretto tra denti
un libro suggellato delle umane sorti.
Due orologi ad arena con ali spiegate a destra e sinistra,
sono rilevati in pietra, significando come cantava il Petrarca.
Il tempo vola e non si arresta' un' ora
E la morte vien dietro di gran giornate;
E le cose presenti, e le passate
Mi fanno guerra, e le future ancora.
Nel muro apposto lo stemma di Monsignore Resta,
consistente in una tunica col motto charitas, con questa iscrizione
Haec Agonizantium Concregatio
Sub patrocinio Sanctæ Maria de Monte Carmelo
Ab illustrissimo D. Luca Antonio Resta
Episcopo in hac Cathedrali et unica parochiali Ecclesia
Canonice erecta est anno Domini MDLXXXII
Questa Vergine porta tre titoli, cioè, degli Agonizzanti, del Carmine,
e della grandine sicché sotto alle sue figure leggesi il seguente distico
composto dal celebre Canonico D. Giacomo Brunetti,
onore della patria letteratura e delle scienze Matematiche,
che meriterebbe il luogo più distinto fra gli altri ritratti esposti
nella sala Comunale di cui avrem o occasione di parlare in appresso;
Grandine tu fruges, tu nos in mortis agone
Defunctos, Virgo, tangier igne veta.
Sulla porta stan rilevati di stucco due scheletri sedu ti destra,
e a manca dello stemma degli agonizzanti apposta nel mezzo.
Rappresenta un teschio di morto coronato, con due orologi ad arena;
e in cima altro piccolo teschio con crocetta nel cucuzzolo.
Soggiace la Vergine delle fiamme espiatrici con le anime che vi si purgano.
Nell'andito prima di uscire, a destra e sinistra sono sospesi
nel muro due gran quadri, con ampie rabescate cornici in oro,
dedicato l'uno all'Immacolata, coi ritratti del padrone del Regno,
e col Protettore della Patria; il secondo alla Vergine del Carmine,
fiancheggiata da S. Sebastiano e da S. Stefano.
Rientrando in Chiesa,
tre navi si prolungano, corrispondenti alle tre porte,
fiancheggiate da colonne di diaspro, vestite di stucco a pilastri con capitelli,
onde difenderle dalle rovine dei Barbari.
Meravigliosamente è
il soffitto della navata di mezzo dipinto,
con immagini diversi di Evangelisti, Dottori ad altri Santi tutelari,
oltre tre maestosi quadri in tela.
Il primo di essi presenta la gloriosa morte di S. Giuseppe assistito dalla Vergine
e dal divin figliuolo, con l'Arcangelo S. Michele accanto:
in cima del quale rifulge la SS. Triade.
Nel secondo è figurato anche l'Augusta Triade a piè di cui sta S. Riccardo
in atto di orare, cui soggiace la nostra Città con vari angioli intorno.
Il terzo è dedicato alla beatissima Assunzione di Maria,
corteggiata da Serafini, tra lo stupore degli Apostoli, che, le soggiacciono.
[2]
Quadro questo donde prende titolo il nostro Duomo.
Dessa va dolcemente elevandosi verso la celeste Sionne quasi Aurora
che sorge eletta come il sole, bella conce la luna, in mezzo
a splendida nuvoletta di Angioletti, i quali portanla in trionfo a colui,
che crea quanto è buono, bello e santo.
E poiché andremmo per le lunghe farne minuto dettaglio ci contentiamo accennar
solo che la mnano del Pittore era ben provetta con lode, simili dipinti
a grandi figure, ove l'arte dei chiaroscuri, delle proporzioni,
e delle ombre ha bisogno di lungo esercizio di accurata meditazione,
di un ingegno non ordinario.
Onde abbassando gli occhi ai muri delle navi laterali,
coperti di volte più che solide, dall'intercolunnii veggonsi dieci cappelle
tutte coperte di volte a spicchi, o sia a croce nel mezzo,
messe a dirimpetto, talune abbellite di balaustre, come andremo divisando.
I suddetti altari sono sacri al crocifisso al SS. Sacramento,
a S. Filippo e Giacomo, a S. Francesco di Paola, e a S. Pietro, a parte destra.
Nella sinistra sonovi gli altari d'Ognissanti, di S. Michele,
S. Giuseppe della Nascita e di S. Riccardo.
Nel primo si venera un ammirabile Crocifisso sculto in legno,
di cui ne farem parola in appresso. Per ora notiamo che l'altare di questa Cappella
é fiancheggiata da due colonne di legno, fornite di capitelli, e di base,
e piedistalli, che poggiano a terra in fronte dei quali sono rilevati
due teste di Serafini. L' architrave anche di legno, che siede sulle colonne,
sporge dal muro con doppie cornici, dentellatura, e fascia.
Dietro le colonne si osservano dei medaglioni.
Queste varie parti color cilestre sono rabescate con fogliari ad oro,
secondo 1'uso del tempo. In cima dell'architrave vi è lo stemma
della famiglia Lupis, (vulpis) che mette fuori due lupi,
e due lupicini sottoposti, oltre tre stelle, e due crocette, sostenuto
da due angioli dorati. Nel mezzo si legge questa lapide
Antonius Lupis
Et lohannella Cognitor
Coniuges urnam hanc
Viventes mortalitati posuere
Anno Domini MDCXLVI
La entrata dalla Cappella è costrutta ad arco sopra pilastri di pietra.
L'arco è abbellito da rosoni.
Viene appresso la Cappella del SS. Sacramento, con altare di marmo
e balaustra di marmo paesano, chiamato breccia, che è misto di pietre rosse,
bianche, e nere, la inferiata é fornita di lavori di ottone con gran fascia
dello stesso metallo in cima. Nel mezzo vi è lo stemma del calice coll'Ostia
tra gli altri fregi. A fianchi dell'altare sono affissi due quadri,
il primo che figura il sommo sacerdote Melchisedec in atto di compiere
il sacrificio del pane, e del vino; e il secondo che rappresenta il sacrifizio
di Abramo, in atto di scaricare il colpo sull'innocente Isacco,
genuflesso ai suoi piedi, mentre un Angiolo, che scende dall'alto,
sta in atto di trattenergli la destra.
Il pavimento è lastricato di mattoni verniciati. Vi si osserva effigiato
il ritratto di Monsignor Anelli con questo breve elogio
Dominicus Anellis
Patritius et Episcopus Civitatis Andriæ
Die XIV Mensis lulii Anno MDCCXLI
Requievit in Domino
Ha un rilievo animato questo ritratto in gran zazzera, mitre, e vesti pontificie,
con guanti e sandali, e grandi origliere sottoposto al capo.
Due stemmi fiancheggiano la iscrizione, esprimenti un albero;
nel mezzo il pastorale, e quindi un braccio, che tiene un anello nella mano.
A destra della porta avvi una lapide di marmo così scritta
D. O. M.
Altare hoc privilegiatum
In perpetuum
Pro animabus Fratruum et Sororum
Huius Archisodalitatis SS. Sacramenti
Atque charitate unanimes in Cristo
Requievere
Quantocius ab exspiatricibus flammis
Æterna beatitate donentur
Idque præterea privilegium
In obitu et deportatione fratrum, sororumque
In quolibet huius Catthedralis Ecclesiæ altare
Quo pro ipis sacrum piaculare fiet
Ampliandum fore
Pius VI Pontifex Maximus
Ex brevi sub die VI Maii MDCCXCIV exarato
Benigne indulsit
Hanc lapidem in perenne monumentum
Devota Archisodalitas
Apponi curavit
La iscrizione congegnata dall'insigne Canonico Don Francesco Saverio Vallera,
Prete della Cattedrale che per più anni insegnò belle lettere alla capitale,
nonche poesia latina, e lingua Greca, cui non era ignota pure la lingua Ebraica.
A dritta e sinistra di questa cappella sonnvi due stipiti,
per conservarsi i sacri crismi e la chiavetta della custodia.
Il quadro dell'altare esprime la cena del Redentore fra i suoi apostoli.
Giuda ben si distingue nel suo ciglio di Traditore.
[3]
Ai due corni dell'altare son collocati nel muro due grandi cornucopii di ottone,
lavoro eseguito dal valente artefice Andriese Giuseppe Riccardo Civita
terminando ognuno a tre bracci, il medio con calzuolo per conficcar un cerio,
e gli altri due laterali con Angioletti, che portano in testa due coppe
per le lampadi che si tengono accese.
Intorno a detti cornocopii son rilevati bellamente dei fogliami.
Lavoro del medesimo Mastro sono i due ordini di candelieri,
delle giarre, dei fiori rilevati in lame di ottone che sono allogati
sù i gradini dell'Altare, e delle carte di gloria, non che dei festoni
dell'Architrave, in gran fascia dei quattro pilastrini
finamente traforati con basi e capitelli, che elevansi sopra la balaustra
a colonnette; non che le ampie lastre scorniciate attaccate agli stipiti,
e per tutta la lunghezza della porta bivalva, che chiude la Cappella
sopra la quale sono allogati sei giarre di ottone massiccio.
Viene appresso l'altro di S. Filippo e Giacomo, S. Filippo Nero
e di S. Teresa, fondatrice dell'ordine Teresiano.
Nei muri opposti sonovi due ripostigli chiusi a chiave,
contenendo le ossa miracolose dei rispettivi bracci di S. Liborio e S. Biagio,
i di cui ritratti decorati degli abiti pastorali e di mitre mostratisi dignitosi.
In testa del quadro dell'Altare vi è un quadretto della Madonna di Costantinopoli,
che stringe il caro frutto cieli dell’intemerate sue viscere,
corteggiata da Serafini che sembra opera di Greco pennello.
Sussiegue quella di S. Francesco di Paola e di S. Colomba,
la di cui testa custodivasi nell’Armadio delle molteplici altre sacre reliquie
furata nelle calamitose vicende del 1799.
Si osservano nelle mura a dritta, e a sinistra in tele ovate i due portenti,
cioè quello del maraviglioso viaggio del Taumaturgo per lo mar Siculo,
inginocchiato sul mantello, che servigli di palischermo e la canna
che faceagli le veci di timone accompagnato da un fraticello
tutto rannicchiato dietro le sue spalle.
E l'altro quando il santo arrivando in Francia spezzava al Re
le sue monete dalle quali stillava vivo sangue,
quel vivo sangue ch'erasi da lui spremuto ingiustamente dalle vene dei miseri sudditi.
Alla cui vista quel Monarca coi suoi Ministri rimase altamente compreso dal terrore,
e rabbrividito. Tutte queste figure non mancano d'una vivace e naturale espressione,
sicchè attraggono la compiacenza dei riguardanti.
In cima di questo altare è posto un quadretto di S. Giovanni
in atto di scrivere l'Evangelo; immaginetta più che bella.
Questa cappella ha pure la sua balaustra; ma di pietra con inferiata guernita di ottoni.
La quinta è sacra a S. Pietro Apostolo, ornata di balaustra di pietra,
e d'inferiata con dei fregi di ottone. Vi si osserva il divin Maestro
in atto di affidare il sacro deposito delle chiavi a Pietro,
che gli stà genuflesso ai piedi. Gli altri Apostoli stanno alle spalle del Redentore.
In cima vi è un quadretto di S. Antonino martire,
vestito con una specie di Ferraiuolo alla greca orlati di pelli,
con mustacchi, che tiene, poggiata la destra sull'elsa della spada
e con 1'altra stringe la palma del martirio. Questa figurina da sè mostra il suo pregio.
Il sesto altare formato di pietra dura di buon disegno, munito di balaustra,
e d'inferiata con freggi di ottone è benedetto ad Ognissanti.
Rifulge in alto la Triade veneranda cinta di Serafini.
Mirasi sottoposta l'umile Ancella Maria e a lei accanto S. Anna
sostanno S. Nicola da Mira, S. Gennaro, S. Riccardo, S. Francesco d'Assisi,
S. Luigi Conzaga, S. Pietro, S. Gregorio Magno, S. Francesco Saverio,
S. Antonio ed una delle Vergini. Due Serafini accennano
a questo glorioso drappello la Triade sullodata.
Questo quadro anche a causa dell'antichità ha il suo merito.
Sopravviene l'altare di S. Michele la cui statuetta bella quanto mai,
e chiusa in nicchia con lastra, opera di esimio scalpello.
In alto è spaziosa tela con ampia cornice; pei di cui quattro angoli
è affissa una specie di ala dorata. Vi è espresso S. Luca nel mezzo,
con manto dignitoso di porpora dai di cui lembi sporge la testa
d'un vitello così ben dipinto, che sembra veramente staccato dalla pittura.
A fianco Ciro Alessandrino, Medico, Monaco, Solitario,
cui giornalmente offronsi dei voti in cere per la insigne protezione
che spande agli infermi. E all'altro lato S. Geltruda dell'ordine Benedettino
di Danimarca, Eroina del Cristianesimo, che squarciasi il petto con ambo le mani,
donde esce un nastro con queste parole.
Tu sei la mia sposa ed io farò dolce dimora nel túo amatissimo seno,
così parlava il celeste di lei sposo. Non è quindi a stupirsi,
se venne essa di buon ora arricchita del dono della rivelazione,
e dello spirito profetico. Laonde istituita com'era a sufficienza negli studii
della Bibbia videsi alla portata di scrivere degli eccellenti trattati diretti,
ad infervorare alla fede ed alla carità le anime pie.
La maestria di questa tela balena da sé agli sguardi e si ammira
quel pregio che si scopre tosto da chi non è volgo.
Il S. Luca è fiancheggiato, come da due ali, in cui spiccano
S. Antonio Abate, e S. Antonio di Padova, lavoro di mano più recente.
Altro quadro attaccato al muro espone S. Rosa di Lima,
mediante un Crocifisso sostenuto da serafini, mentre degl'Angioletti
rimangono attoniti in osservare quelle fervide emozioni del di lei cuore.
Quindi potrebbesi di essa ripetere ciocché cantava il Filicaia nella canzone 46
È dell'alma i mirabili divorzii
Per man d'amor, dal mortal nodo sciolta
Sappia e gli alti consorzii
Ch'ebbe anzi. tempo col suo Amante Eterno
In santi lacci avvolta.
A di lei piedi soggiacciono un diadema ed uno scettro.
Due altri quadretti sono ben anche lateralmente esposti alla divozione dei fedeli.
S. Giorgio da Guerriero a cavallo, nelle mosse di soccorrere un seminudo mendico,
e S. Eligio che con le pontificali insegne in molta venerazione
presso i nostri maggiori per la special protezione, che largisce
circa il benessere dei Cavalli, Muli, Asini, Bovi ecc. che formano il sostegno
dell'agricoltura cui cotanto attendono gli Andriesi.
Oltre i suddetti vi è Stanislao Costa generoso rampollo di un senatore Polacco,
che giovanetto godeva di un miglior conversare col suo Dio,
e che visse così tenero verso la Vergine che chiamavala Madre.
Per li suoi intemerati costumi fú ammesso nella società di Gesù
da S. Francesco Borgia. La leggenda appropria a lui le parole di S. Agostino
«Tribulatio et necessitas invenerunt me; mandata tua meditatio mea est».
Venne quindi per i di lui portenti eletto da Clemente X
tra i primi padroni, di quel Regno.
Viene quindi in seguito la Cappella di S. Giuseppe col figliuolo suo,
che sorge nella destra avendo nella sinistra il suo bastone fiorito,
la di cui statua in gran nicchia di noce chiusa da cristallo
venne riformato da Michele Brudaglio, benemerito scultore Andriese
sicché rendesi ornai ragguardevole, per la espressione più propria, che mancavale.
Di poi prende luogo l'altra Cappella della Natività del Verbo fatto uomo,
giacente nudo in culla su poca paglia dentro una grotta,
le di cui labbra muovono celeste sorriso; che in contemplarlo la Genitrice
e lo sposo, accesi di Santo amore, genuflessi rimangono venerandi.
Tre statue sono queste di epoca remota di raffinato disegno.
L'altare privilegiato elevasi con grandiosa spalliera, e capitelli
decenti in buoni marmi, per lo più giallognoli fini, con decenti cornicioni,
ed altri ornati, In cima dell'altare lo spirito settiforme sfolgora
da una sfera dorata raggiante. Venne costrutto a spese del Capitolo,
avendone gli emblemi ne’ due corni, la suddetta Cappella è benanche
decorata da balaustra decente di marmo, con cancelli guerniti
di varii lavori in ottone, nella costruzione vi ebbe parte
l'Arciprete Scesa, come mostra il suo stemma messo a fianco dell'Altare.
L'Emblema del Capitolo mette in campo le lettere S. M. (Santa Maria);
quella dell'Arciprete una linea traversa fra due rose.
Tralasciamo di far parola del Cappellone dedicato al nostro Protettore,
onde discorrerne a miglior luogo.
Notiamo che ogni cappella non manca di ampia finestra,
onde renderla luminosa, mentre la Cattedrale, che forma un’isola,
è tramessa a due larghi chiamati Corte e la Catuma
[4].
Su tutti i divisati altari eminentemente primeggia il Maggiore,
a causa delle teste di tre grandiosi Cherubini, che soli costarono ducati mille,
collocati con ali spiegate nei due corni, e nel mezzo di esso,
le di cui penne possonsi senza difficoltà numerare nella loro spessezza,
tanto bene scolpir le seppe l'industre scalpello.
I loro volti gravi e maestosi, abbelliti di ricciuti capelli senza dubbio eccitano maraviglia.
Dai fianchi del Cherubino di mezzo svolgonsi due vaghi festoni di marmo bianco,
che s'intreccian tra loro, dai quali sorton fuori spiche di grano,
frutta, e grappoli d'uva, simboli dell'incruento sacrificio.
In tutto il resto adorno dei più fini marmi, che formano li più graziosi rabeschi a varii colori.
È ammirabile il paliotto di prezioso basalto, con rabeschi variopinti
artificiosamente contorti, che terminano con fiori, e frutta.
Opera dell'immortale scalpello del Cavaliere Napoletano Iacopo Colombo
[5].
Sorge questo magnifico altare su ampio presbitero marmoreo,
montato a quattro spaziosi gradini. Vien recinto il presbitero da estesa balaustra,
con pilastrini di scelto marmo, intarsiati di rosso, tramezzato da uscio a due valve
lavorato di solide lastre scorniciate di ottone vagamente traforate
con nastri dello stesso modello. Sicché l'occhio ne rimane ben pago e sodisfatto.
Questa balaustrata fu fatta a spese del Vescovo Giambattista Bolognese,
come attestano gli stemmi gentilizii apposti a destra, e a sinistra
dell'entrata, poggiante sopra tre gradini di breccia.
A fianco sopra quattro gradini del medesimo marmo paesano, si alza splendido
il trono Episcopale, dorato profusamente ad oro pretto, fissato
sotto dell'Ampio Coretto del Vescovo a modo di Baldacchino,
fregiato egualmente di oro, con due Serafini seduti ai lati,
egregiamente architettato con eleganti rabeschi in cima, e fiori,
terminante con fiocchi. Si osserva nel mezzo una grande impresa,
che consiste in braccio fra le di cui dita si stringe un anello.
Sotto lo stesso risplende il divino Amore. Vien fiancheggiato
da due pilastri forniti di basi e capitelli, sopra de' quali seggono
due grandi Cherubini con ali aperte. La sedia del Vescovo a grande spalliera,
e a bracciuoli sta nel mezzo, artificiosamente lavorata,
avendo in cima concava lucida chiocciola, e la testa di vago Angioletto
e altri fregi che lateralmente l'adornano, consistenti in festoni
sparsi di rose, con grappoli di uva. Quest'opera stupenda di bella Architettura
venne eseguita da Tommaso Porziotta, nostro concittadino
a spese del vescovo Domenico Anelli Andriese, che da Acerra
in Principato citra ottenne da Benedetto XIV di f. m. la traslocazione
in questa sede, avendone preso possesso in Luglio del 1743.
Il di cui primo pensiero fu il lustro e il decoro del suo capitolo;
giacché al di lui zelo devonsi fra l'altro le insegne Maggiori, di cui
è si nobilmente rivestito il ceto dei Canonici e dei Mansionarii nostri.
A fronte del suddetto trono esisteva il coretto Ducale, ben costrutto,
di legno, con finestre dirette e laterali, onde osservare le funzioni chiesiastiche,
il quale sporgea dal palazzo del Feudatario.
Il nobil sentire di Monsignor Cosenza e di non pochi Canonici,
nella notte del 26 Giugno 1848 fece distruggere quest'ultimo avanzo del Feudalismo,
che mal si conveniva non solo al trono del Pastore, e al di lui Coretto;
ma parimenti alla dignità, e all'Ecclesiastica disciplina.
Da ciò si arroge, che tal costume era contrario alla mente della Chiesa Romana,
stante il decreto emanato dalla S. Congregazione dei Riti nel 1666,
ed anche altri due della medesima posteriormente pubblicati.
Rimpetto all'enunciato trono è fissato ampio abaco di marmo, in cornu epistolae,
a guisa di altare, con ispalliera e gradini superiori, ornato lateralmente
da due teste di Cherubini alati; la di cui mensa è svariatamente rabescata
a marmi di varii colori, nella guisa stessa dell'altare maggiore.
È sostenuta la mensa da tre cornicioni di marmo bellamente scorniciati, e scanalati.
Sull'apice è sita la impresa del Capitolo di marmo statuario.
Questo magnifico Abaco si addentra in
una antica cappella, oramai chiusa,
benedetta alla nascita del Messia. Il cornicione a triangolo che sporge fuori
dall'Architrave della porta, i pilastri, le basi, i capitelli,
non che una fascia arcuata che cingela, il tutto di pietra viva,
mostrano a prima vista lo stile gotico. Nel mezzo corre una seconda fascia
tra cornici, avendo in cima Aquile con vanni spiegati, emblema svevo.
Ai fianchi rilevansi intagli di fiori, scudi, festoni, vasi rabescati,
ed altri capricci. Nei piedistalli dei pilastri osservansi altri scudi
con nastri pendenti, e nel fondo tre chiocciole, due contigue orizzontali,
e la terza sottoposta emblema della famiglia Pellegrini, gentilizia di Andria
[6].
Assunto senz'altro tal costume dai Pellegrini, che portansi per voto
a visitare i santi luoghi di Gerusalemme, ed altri Santuarii;
indossando essi per l'ordinario una mozietta nera impeciata,
guernita di chiocciole, appellate comunemente di S. Giacomo.
Sotto dei pilastri stanno due Leoncini e due teste di Angioletti alati.
Siffatte strutture gotiche cominciarono dal V e progredirono sino al XV secolo,
si resero pregevoli per li troppi artificiosi lavori in pietra, in bronzo,
in marmo, in legno. La fascia rabellita di figure di cui testé si è fatto
motto comincia con l'intaglio d'un teschio di morte in cima ad un bastone,
dalle cui tempia diramansi due ali simbolo non ambiguo del tempo,
che fuggi irreparabile come cantava il Venusino, Ode 14 L. 2.
Eheu, fugaces Postume, Postume,
Labuntur anni, nec pietas moram
Rugis et instanti senectæ
Afferet indomitæque morti
E lo stesso lamento fa sentire nell'Ode 18 dello stesso Lib:
Truditur dies die
Novæque pergunt interire Lunæ
Tu secanda marmora
Locas sub ipsum funus et sepulcri
Immemor, struis domos
Ne dissimilmente il Sulmonete:
……… velut unda impellitur unda
Urgeturque eadem veniens, urgeturque priorem
Tempora sic fugiunt
Ma che poi designar vogliono i due corni di abbondanza sottoposti
al detto geroglifico? Non altro a nostro giudizio che lo spietato impero
di morte che tutto disperde, ed atterra; e che non vi han beni
di qualunque specie, che augurar si potessero di sottrarsi, dal edacente Tempo
[7]
cosa notabile degli antichi che coprivano con molto senno i sensi morali
nelle opere artistiche benanche. Uso certamente attinto
dalla sapienza degli Egizii, Da' quali forse apprese Timante,
che
quicquid penicillo exsprimere non posset, velo contegebat.
Appresso la ridetta fascia miransi due quadretti, il primo dei quali
porta in mezzo A. D. e l'altro l'epoca del 1544,
quadretti che stanno orizontalmente in linea retta tra loro.
Vengon di poi altri ornati di piante intesti, con colombe e manichi.
Idea pur ingegnosa, suggerita alla mente degli Artisti dalla natura
degli uccelli, che fermansi a beccar l'erbe nelle teste per nutrirsi.
Succedono in prosieguo degli altri fregi e specialmente due chiavi messe in croce,
simboliche della podestà Chiesastica, di cui goder dovette taluno
di quella famiglia. Veggonsi inoltre lance traforate, e scudi,
armi di quei tempi guerreschi. Questo monumento pregevole è formato
sul modello del frontespizio della Chiesa di Porta Santa,
a due ordini di architettura, una rientrante e l'altra sporgente,
come sarà detto a suo tempo.
Ma quello che fa stupire ogni ingegno sottile e con gli estrani
il volgo ed i Re, è
l'arco stupendo a sesto acuto di ben settantadue palmi di corda,
che divide il presbitero dalle navate. Rallegratevi, Andriesi,
che il glorioso obblio non ricoperse il nome del nostro Alesandro Guadagno,
che valorosamente a tant'opera ardiva.
Eccone la cara leggenda sculta a piè di una delle due mostre di marmo
del zoccolo giacente all'arco:
Alexander Guadagno Andriensis hoc opus arcuatum 1465 construxit.
Indi sull'apice due Lioni che si rampicano ad una quercia,
impresa della Città, sostenuta da due Angioli.
Dall'umbilico di questo arco scende brillante grandiosa Lumiera
congegnata in Boemia, con varii ramosi bracci diversamente ritorti,
formando una specie di ampia corona, che accesa per li diversi lumi
produce maraviglioso effetto. Nella chiesa di S. Antonio di Padova
ammirai un candelabro di bronzo opera di Andrea Riccio,
il Lippo Veneziano, che costogli dieci anni di lavoro,
ed è forse il più bello del mondo.
[8]
L’organo è messo rimpetto il trono del Vescovo, ricinto di lunga
e comoda Orchestra, per li cantori. Fù lavoro pregevole di un tal Hircher, Tedesco.
Venne costruito da Monsignore Alessandro Egizio, Arcidiacono di Minervino,
eletto Vescovo nostro, che non lo vide terminato.
Egli era abate Virginiano, che resse questa sede nel 1720
traslato quindi in quella di Aversa. In cima allo stemma vi sono le lettere M. V.
che dinotano montevergine. Nell’impresa avvi un leone che
tra le branche ha un bastone; vedesi pure un serpente, un fiore.
S’aggiunsero i flautini, i fagotti e la Sampogna. È bastantemente armonico.
Non meno di stupore desta il coro di nobilissima noce a due ordini
con sessantuno stalli stando in mezzo la sedia, o tribuna del Vescovo,
sporta dal muro e dalla linea dei fedeli facendo la figura d’un baldacchino.
In esso la materia vien di gran lunga vinta dal lavoro per le sue molteplici
capricciose fantasie di fini intagli che il rabbellano.
Questo monumento cotanto illustre fece costruire Ascannio Cassiano,
venerabile vescovo di questa Città, nel XVII secolo con troppe sue migliaia,
a piè di cui leggesi, «Magister Infante Scipio a Balineo (Bagnuoli)
in principato ultra faciebat» e nell’opposto lato l’epoca del 1650.
Generoso veramente, ed imitabile esempio a’ Mitrati, che di loro dovizie
far vorranno memorabili usi. La cresta di questo Coro a forma di parallellogramma,
eretta sopra spaziosa cornice, presenta figure di scimmie,
sostenenti lo stemma del Vescovo, che mette in campo tre colline,
con rosa e stella in cima. E cosí sussiegue mano mano fra due teste di fiori
eretti sopra i piedistalli riquadri a tal cresta, alta palmi due e mezzo circa,
abbellita di dentellate cornici, soggiace una gran fascia staccata dal muro,
della stessa dimensione della cresta, nella quale alternativamente
si vede sculta la suddetta impresa del vescovo, e la testa alata
di un angioletto per tutta la estensione. Sussieguono gli stalli
ognuno dei quali ha un parallellogramma liscio alle spalle con colonnette
striate ai fianchi, fornite di piedistalli e capitelli Corintii e di bracciuoli.
I parallellogrammi hanno le loro cornici. Sopra la base di ogni bracciuolo
elevasi doppia cornice ricurva con in punta la testa d’un putto,
ed in testa dei parallellogrammi uno scudo contornato da elaborate cornici.
Nella gran fascia che ricinge questo prim’ordine di sedili, sorgono Genii,
che suonano strumenti da corda e da fiato, leoni, draghi capricciosi,
teste di orribili serpi e di quanto in quanto il riferito stemma del Vescovo,
e cappelli prelatizii, struzzi con lunghe canne, teste di fiori, trofei,
fiori conserti a piramide, pesci, uccelli, aquile grifagne, lupi, centauri
e sotto taluni teste di aspri serpenti. Inoltre dei puttini intenti a sradicar
la lingua ad Orsi, con altri cavalcati stranamente sul collo lungo lungo di qualche Drago.
Altra fascia estendesi alle spalle della seconda fila di sedili ventisei,
lavorata conforme alla prima, con figure di grifoni, puttini a cavalcione di leoni,
rinoceronti trattenuti per corno; Ercoli clavigeri, uno dei quali strangola un leone,
stelle, fiori, uccelli, fangiulli lattanti, ippocentaurii, con alti cappelli vescovili,
e puttini che suonano tibie, cetre, non senza qualche maschera tragica
[9].
Si osservi che avanti la tribuna del Vescovo vi è il suo leggio e genuflessorio.
Susseguono altri scanni anche di noce, fatti costruire da Monsignor Cosenza,
forniti di spalliere, a comodo dei Diaconi e Suddiaconi e seminaristi,
per cui è fissato un quarto ordine di scanni semplici anche di noce.
Non è quindi a stupirsi se rendesi tanto ragguardevole questo coro,
che finisce con due grandi spalliere fissate a destra, e sinistra,
che danno adito agli Stalli, in cui è incisa la testa di orribile drago,
con bocca spalancata, che sorge dallo sbuccio di un giglio rabescato.
Quanto alle due entrate veggonsi impresse nel muro le imprese del capitolo
e dirimpetto quella di Monsignor Franceschini, che mette in veduta
tre colli con altrettante stelle codute, e corona in cima;
in memoria di aver fatto edificare il vano del ridetto coro dietro
l'altare maggiore. Alla sedia del Vescovo sovrasta non solo lo stemma
del ridetto Cassiano a di cui spese odeum constructum fuit,
come leggesi nelle antiche carte; ma il ritratto pure di Monsignor Ferrante,
a motivo di aver fatti ornare di stucchi, lunette la volta ed i muri del coro
e di marmorio lastrico il presbiterio; non che per altri di lui meriti,
e beneficii, di cui avrassi occasione farne cenno in appresso.
L’arco della sublime volta di questo coro, nel cui apice è scritto
a caratteri cubitali in uno scudo sostenuto da due Serafini:
Si vis cum Maria ad coelum ascendere descende,
poggia su due altre colonne, nei di cui zoccoli di marmo splende un Cappello,
con bandiera nei merli, impresa di Monsignor Palica che occupò
questa sede per anni 17 avendone preso possesso nel I. Maggio 1773.
Per essere stato egli assai caro a Riccardo Carafa,
e Margherita Pignatelli Duchi di Andria, che in allora
domiciliavano in questa città, riportò da essi un tumulo di marmo,
che esiste nella cappella di S. Francesco di Paola, con iscrizione di questo tenore:
Quod habuit Ovile
In eo et conditorium
Xaverius Palica
Patricius Barulitanus
Olim huius Catthedræ decus
Atque ad Petri solium Adsistens
Antea vero cœlestinæ Congregationis
Et filius et Abbas
0
Oneri dilectissimo
Animequæ, incomparabili
Sul pignus Amoris
Richardus Carafa Andriæ Dux XVI
Lacrumans P
Anno MDCCLXXXX
Questo mostra a sufficienza la valentia del ridetto canonico Vallera
che il compose, e che ebbe il vantaggio studiar con profitto
la epigrafia latina, che in quell'epoca vigea, e le archeologiche discipline,
specialmente sotto quel miracolo dell'umano sapere Canonico Mazzocchi.
Del quale insigne soggetto, decoro di nostra patria, non che
dell'altro Canonico Giacomo Brunetti, insigne lume specialmente
delle scienze esatte, pure nostro concittadino, sincrono del primo,
che per molti anni vissero nella Capitale nel secolo d'oro di ogni sapere,
ci proponiamo dare cenno biografico. Se la divina misericordia degnerassi
aggiungere altro spazio alla nostra vecchiaia inoltrata, sino agli anni settantacinque,
che godiamo nondimeno grazie simultanee alla Vergine, sani e robusti
[10].
E siccome si è parlato pocanzi del Coro, non fia bello il tacerci
dei grandi libri di pergamena scritti alla gotica con vive miniature
e con preziosi doramenti, e rabeschi. Essi fur composti prima della riforma
dei Missali dal V Pio compilati. E qui ragion vuole sapersi dal lettore
che quest'arte fu studiata dai primi Pittori, e fiorì dal tempo
delle antiche epoche di Bisanzio fino a' capi d'opera del secolo XVI.
E Dante istesso ce ne parla in quell'Artista da Gubbio detto
Oderisi minatore di codici quando nel Purgatorio incontrandosi disse
Oh ‘diss’io lui, non sei tu Oderisi
L’onor di Agobbio, e l’onor di quell’arte
Ch’alluminar è chiamata in Parisi ?
Io non so se per poco vezzo di spacciare i patrii monumenti sia rimasto
ignoto agli scrittori, che fra noi serbansi i suddetti libri miniati.
E mentre desiosi gli stranieri muovono in Montecasino a contemplare
l'arte presso che spenta deli'alluminare, di cui esemplare credesi
solo ivi rimanere superstite; niuno si è fatto spettatore dei nostri
libri non inferiori per finezza e precisione di stile a quelli.
Ora non dispiaccia, che io di essi ne faccia menzione bastevole a definire il pregio.
Noi possediamo sei dei suindicati libri, dei quali uno è di gusto squisitissimo
per le miniature che lo abbelliscono nei singoli margini e nelle lettere iniziali.
Peccato che in esso sole due lettere, e parecchi margini rimangono ancora intatti
dalla mano distruggitrice de’ barbari cittadini. N’è da stupirsi,
giacché ogni secolo, ogni popolo, ogni municipio ha i suoi vandali.
Ma in quello che avvanza è mirabile vedere nelle lettere capitali,
foggiati a ricami perlati, contenersi un gruppo di personaggi rappresentanti
la nascita del Messia. In altra lettera in breve diametro figuravi
l’adorazione dei Magi col loro lungo corteggio. Più in là de’ Pastori
che menano a pascolo la loro greggia e parecchie altre scene riguardanti
il fatto principale raffigurato. Tutta la pagina poi incatenata di graziosi meandri
di lungo rabesco, ghirlande di fiori e di frutta, con uccelletti, pavoni, farfalle,
bruchi e mostri favolosi, che ne adornano il margine.
Tra questi fregi è bello ravvisare collocato appositamente un Profeta,
che annunzia in un nastro spiegato nella mano una profezia concernente la Carità.
Questo ci ricorda l’amorevole studio dei Pittori, che fiorirono dopo la metà
del secolo XV. Chi non è ignaro dell’incremento che ebbero le arti nella età di mezzo,
non può con occhio indifferente contemplare questi miracoli Artistici.
Gli altri cinque libri, benché non di egual pregio del primo tuttavolta
segnano la stessa epoca, hanno la stessa freschezza di caratteri, le lettere capitali,
benché non così rabbellite, pure si hanno il loro pregio nei semplici ghirigori
e perlature che lo adornano.
I colori per altro son così freschi, precisi, che sembrano or ora gittati
dal pennello dell’artista sulla fina pergamena. Non voglio dilungarmi punto sul merito
delle cantilene che ci rinnovellano le melodie di quattro secoli addietro,
che ci aggregano per così dire a quei Cori; ci ricompongono con quei ministri dell’Altare,
come se fossimo loro contemporanei, presenti al medesimo sacrificio,
partecipi della medesima preghiera. Se questa non è per noi una gloria unica,
invidiabile da’ nostri vicini ed anche lontani, quale ella sarà mai?
Se questo non è il vero lustro del Tempio, che può attestare allo straniero l’antichità
del suo culto in che noi il riporremo? Abbiansi altri lo sfoggio degli addobbi
degli stucchi, dei marmi, e delle tele da mano maestre eseguiti ne’ propri tempii;
a noi basterà per la gloria del nostro Duomo il serbare, come tanta divina cosa,
i libri nunziati, il cantare quelle armonie, innebriarci in quei prodigi dell’arte.
Conveniva quindi che i medesimi fossero situati in Armadio apposito in un leggio condegno.
Chepperò feceli appositamente costruire il nostro benemerito Cosenza.
E nel leggio veramente il Maestro diede una pruova del suo valore, lavorandolo
di buona noce con fregi di pampini e grappoli d’uva, e con due serpenti
che vi si attortigliano con lunghe spire intorno ai piedi.
Né preferiscasi
il Battistero di noce formato a spese dello stesso Vescovo,
la cui gran fonte orbiculata, modellata a specchi levigati,
divisi da pilastri con basi e capitelli, e con tante cornici, che l’abbellano,
contiene quanto occorre al sacramento avendo in cima vaga statuetta del Battista
[11].
Il cupolino e recinto da ritondate cornici, e nel mezzo vi è inciso
lo stemma del nostro Cosenza. Quest’opera elevata sopra tre gradini,
sita a manca dell’ingresso di porta maggiore, fornita di alti cancelli
con lance in punta onde non essere sormontata, e fregiata,
di varie teste di fiori di ferro fuso e di altri ornamenti di ottone,
aggiunge un certo decoro al culto, mentre l’antico battistero era affatto indecente.
Ragguardevole è parimenti il pulpito di noce sufficientemente ampio,
di figura ovale troncata nel mezzo, con pilastrini sporgenti, e teste di fiori dorati
nella spalliera abbellito pure con cornici con fregi d’oro.
Lo stesso termina a cono con gran fiocco inaurato in punta. Spicca sul calcavoce
rabescata ghirlanda in oro fra varii vasi con orlatura graziosa a fiocchi pendenti indorati.
L’increato Amore sorge da un gruppo di nubi sfolgorante di raggi.
È allogato in faccia ad un pilastro nel mezzo del tempio.
Venne fatto costruire con dieci comodi Confessionarii dello stesso legno
dall’ottimo prelato Monsignor Ferrante di cui si è parlato.
Opere pur queste d’un nostro valente ebanista Giuseppe Gigli,
che non omise apporvi i corrispondenti stemmi di un ferro di cavallo.
Questa bigoncia nell’anno 1866 montò già egli il Parzanese,
invitato a celebrare le glorie di San Riccardo, ricorrendo ai 23 Aprile,
la di cui festa con pompa ecclesiastica si onora. Mentre la seconda festa
si solennizza con maggior fasto ed apparati esterni nel dì 9 Giugno.
Fa mestieri intanto che dalle sculture in legno, in pietra, in marmo,
passiamo agli
altri dipinti. Il coro ne ha tre grandiosi.
In uno mirasi Davide che coll’arpa precede l’arca del Signore.
Questa cerchiasi dal popolo affollato, trammisto di cori plaudenti
e di Ebree ebrifestanti con timpani e sistri e i figli di Abinadab Oza, ed Ahio.
Si vede miseramente giacere a terra l'infelice Oza morto vicino
alla ruota del carro per avere stesa la mano sull’Arca.
Nel quadro opposto Aronne rivestito delle Infule, e del efod,
sagrificare un ariete sopra grande altare suffuso d’incenso,
ed Israello che venerabondo gli si affolla intorno.
E nel terzo è affisso nel mezzo della cupola la stessa Israelitica gente
devota e prostrata avanti il Vitello d’Oro; ed Aronne insignito pontificalmente,
obbligato ad offrirgli olocausto ad una turba di vecchi, di fanciulli,
di donne con lattanti, sbucanti, da diversi lontani
padiglioni concorrere ad adorare l’aureo idolo
[12].
Poco lungi il Serpente di bronzo, posto sublime nel deserto,
come amuleto contro i micidiali morsi degli angui che affliggeva Israele,
per avere parlato con poco rispetto e contro il Signor, e contro Mosè.
Onde a liberarne lo fa d’uopo che Dio imposto avesse al suo fido condottiere.
«Fac serpentem venenum et pone eum pro signo. Qui percussus aspexerit eum vivet»
Num. 218. Ed in fondo in fondo il Sinai, di fumo e di fiamme convolto,
con sopra Mosè avente dall’Icora le tavole della legge.
La naturalezza delle persone lo splendido decoro degl’ornamenti
le attitudini più che congrue, la proprietà dei vestiti, la freschezza delle tinte,
i chiaroscuri, la perfezione insomma tutta loro di questi tre quadri
senza parlare dei punti di prospettiva è tanta:
Che la natura gli avrebbe a scorno
Sono essi opera pregevolissima di Nicola Porta.
Uscendo dal coro ti si presentano a destra e sinistra del presbitero
due superbi cornucopii di ottone solido, alle cui punte sono infisse
dentro due corone i calzuoli per li cerii che si accendono
nelle solennità della Chiesa. Opera di getto dello stesso artefice Civita.
Venendo poi al quadro che mostra l’arrivo del nostro Protettore in Andria,
affisso al muro della sua Cappella, l’anima è compresa da una tempesta di affetti,
se l’innamorata s’india in lui, che tanta parte di Nume splendegli in volto.
Se stupefatta profondasi nella maraviglia d’un cieco veggente
per la prima volta il sole. Se dubbiosa come lo storpio guata le gruccie
già inutili alle raddrizzate gambe. Se trepida s’impaura di una spiritata,
che diresti pur mo fatta sana. Se fervida s’immerge nella tumultuante gioia
della calca circumfusa alla venuta del Santo, oltre quei che
affacciansi dai veroni. I tre miracoli del quale, se lece dirlo,
da miracolo di pennello furono eternati.
Sorprendente del pari è l’
altro dipinto messo rimpetto al primo
dello stesso nostro Santo pastore, in atto d’incamminarsi alla Gargania vetta
[13]
insieme con S. Sabino, e S. Ruggiero. Lo incesso dignitoso, la magnificenza
dei panni episcopali affatto negletta, e un so che di celeste,
che nei tre pii viandanti traspare, sono pennellate maestre,
senza tacere di una severa Aquila loro guidatrice, e schermo
contro le sferze solari, che sembra viva e vera, tanto quegl’occhi fulminei,
e la movenza dei robusti vanni illudono.
Ed eccoci al terzo quadro, ornato di ampia cornice a traforo dorata
che sta sublime dietro l’altare in cui delineasi il nostro Anglicano
in pastorale paramento, tenendo la dritta in mossa di benedire,
e nella sinistra il libro, ed ai suoi pie’ un Angelo che gli offre la Città.
Questa tela non meno delle due precedenti soddisfa non poco l’altrui attenzione,
se con la debita attenzione riguardasi la mossa di quell’Angelo,
il crederai forse distaccato dal fondo della pittura. Quando i veggenti
non gustano e non rimangono attoniti a queste mosse, o son morti,
che non fur mai vivi hanno perduto il ben dell’intelletto.
Altri dipinti non essendovi, basti averne discorso con quei deboli lumi
che meglio abbiam saputo, con lasciare agl’iniziati e provetti
in questa difficile nobil arte parlarne con giudizio più franco vero.
Con che protestiamo di non isdegnarci punto, se taluno ci emendi
di qualche errore da noi preso sull’assunto involontariamente,
mentre non pensammo mai di esporre all’altrui credulità maraviglie immaginarie.
Però se n’è forza passare dalle pitture alle sculture, noi ne vanteremo una vetustissima, venerabilissima.
Ella è un Crocifisso nerognolo sculto certamente da mano arciperita per le proporzioni
e per la naturalezza della notomia che seopronsi prestantissime, oltre ad una veneranda tristezza
del viso e del capo declinato, che profondamente ti occupa veggendolo e meditandolo.
Quindi il tuo labbro susurri devotamente col Filicaja (Sonetto 13.°).
Vostre piaghe a mirar mentre in un guardo
Signor, quest’alma desiosa corre
Di vena in vena freddo orror mi scorre
Ahi sa pur ch’io vi uccisi, ed or vi guardo!
un altro simile adorai nell’arcivescovato di Napoli, ed ambo ponno dirsi primissimi lavori Napoletani.
Sottoposto a questo Crocifisso si venera
un quadro dell’Addolorata
con lastra e larga cornice di argento, largito alla cappella dalla pietà
di Vincenzo Morselli, onesto, e dovizioso nostro con cittadino trapassato senza eredi.
Questa tela di un disegno raffinato, a niun secondo per la precisione del lavoro
anzi il primo fra gli altri di questa Chiesa, ben manifesta l’acerbissima doglia
di quella spada che trafisse la Vergine desolata: che con le palme conserte
al petto par che dica nell’alta sua mestizia:
«
O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus»
[14].
Nella facciata esterna poi della Cappella suddetta leggesi questa seconda lapide.
Scipioni Vulpi
Maturo ævi in juventute excelsi indole animi
Desiderio omnium præmature erepto
Antonius felicissimæ sobolis pater infelix
Cui nec unum ad dolorem sat fuit cor
Nec sat gemini ad lacrymas oculi
Et lohanella Cogniter
[15]
Mæstissima genitrix filio amatissimo
Monumentum officii et doloris
Lacrymantes P. P.
Vixit Scipio annos supra viginti menses XI diem I
Obiit anno Salutls Humanæ MDCXLV
Clara post obitum fama
Discorreremo ormai delle altre tombe che racchiude la nostra Cattedrale,
i di cui orrori hanno pur essi la loro splendidezza, comecché
Sul muto degl’Eroi sepolto frale
Eterna splende di Virtù la face.
Molte dunque se ne ravvisano, specialmente di più Pastori nostri Concittadini,
e forestieri, come attestano le lapidi ornate dei rispettivi ritratti,
nel pavimento, e nei muri, chepperò rivolgendo l’occhio da quella di Scipione Volpi,
scorgerai altra con mezzo busto in marmo, costrutta ad onore di Monsignor Adinolfi
con la leggenda: Nicolaus Adinolfi Neapolitanus, Aepiscopus Andriensis,
natus die XVI Iulii MDCXXXXVII. Obiit die XIII Mensis Iulii MDCCXV.
Accanto il suo stemma con tre rose, tramezzato da una sbarra.
La cappella di S. Riccardo ne contiene tre, la prima di Monsignor Ferrante,
fiorita, come molte altre di ogni eleganza, congegnata con quello stile e torno
che si addice a tal genere, che ti acquista con l’assidua lettura
dell’antica epigrafia, donde s’impara l’armonica disposizione delle parole,
nonché lo stile energico, grave, antiquato.
Ecco la prima:
Franciscum Ferrantium
Ex antiqua Rheginorum procerum familia
Patricium Virum
Ecclesiæ Andriæ Episcopum
Omnium lacrumabili luctu cessum in fata
Die XXIX Octobris MDCCLXII
Quo nullum Civitas tristius accepit vulnere
Post suae ætatis Annos LXIX menses X dies XII
Ac sui præsulatus XVI
Virtutibus clarum ac meritis onustum
[16]
Et quamvis maxumum.
Cajetanus Ferrantius Frater
Brevi hac urna clausit A. D. MDCCLXXIII
La seconda tomba del Vescovo Franceschini con questa lapide:
F. Felix Franceschinus
Episcopus Andriensis
Sepulcrum hoc sibi, vivens preparavit
Anno MDCXXX
Obiit die XII lulii MDCLVII
Ætatis suae ann. LI
[*]
Dietro l’altare leggesi quest'altra Iscrizione di Monsignor Basso Vescovo pure di Andria:
D.O.M.
loannes Franciscus Basso Cremensis
Patricius Romanus
Vir mire probus
Qui vixit ann. XXXXVI menses Ill dies X
Flagrandi desiderio post aliquot lustra
Videndi Vincentium Bassum
Episcopum Andriensem Fratrem
Andriam venit
Fratrem vidit
Ad Deum iit
V Idus xbris anno a partu gloriosæ Virginis
MDCVIII
Vincentius Fratri dilecto P.
Le ceneri di Iolanda ed Isabella; Auguste consorti di Federico II
eran sepolte pur elle nel soccorpo in età vetustissima aperto
[17].
Stanno ancora i ritratti lapidei delle due Vergini.
S’interza fra questi avelli Regali, quello di Beatrice d’Angiò con questo elogio:
Rex mihi pater erat Carulus Fraterque Robertus
Loysiusque sacer, regia mater erat,
Bertrandi thalamo non dedignata Beatrix
A quo deducta est Baucia magna domus
Si tangunt animos hæc nomina clara meorum
Esto memor, cineri dicere pauca: vale
La memoria di quest’Augusta Angioina durerà mai sempre onorata e diletta nei petti Andriesi,
redando da Lei ornamento di Paradiso,
una delle principali Spine,
che martoriarono la divinissima fronte di Cristo.
La perdita di cotanto dono nel 1799 il ricupero nel 1837,
il miracolo dei fiori nel 1842, sono cose già annunziate nel foglio periodico
la Religione e la Fede.
[NDR]
Non disgradirà pertanto al lettore, se qui riportiamo i versi,
ch’erano scritti nel piè dell’antica Teca che custodiva la reliquia:
En Cuspis de tot majoribus una coronæ,
Qua diræ pupugere manus pia tempora Iesu
Quando Parasceve, et Martis vigesima quinta
Cuncurrunt (veluti Majores ore probarunt,)
[18]
Tunc hæc, (oh quam mirum!) tota cruenta videtur,
Qua solet esse alias guttis aspersa quibusdam
Ad nos Trinacriæ Carolus Rex ille secundus
Transtulit ex Paridis quæ Aras regia Galliæ habetur.
Pectore devoto, venerandaque poplite flexo est
Spina Redemptoris roseo suffusa cruore,
Cum sentes ut acus totidem tolleraverit Ultor
Humani sceleris, gratissima metra canamus.
Gloria Victori et monumenta perennia palmæ
Cornua enim satanæ spinosa fronte repressit;
Detque illi Dominus pro tanto munere vecto
Cuncti exoremus, felicia regna Polorum
Di queste spine, asserisce il dotto Berti, alcune per virtù divina reviviscono,
quædam virtute divina reviviscere, siccome scrive pure
Gregorio Turonenses - Carlo II il Zoppo, per quel che s'è detto,
Re di Napoli e di Sicilia trasferì questa Santa Spina ex Urbe Paradisio
o quando venne col padre, o a sentimento di altri nel suo ritorno
da Francia nel 1300 in Napoli donde per mezzo della figlia Beatrice - a noi fu recata.
Al fin qui detto fia pregio dell’opera aggiungere gli altri versi,
che per lo riacquisto della stessa vennero composti, e che qui riportiamo:
Quam cernis Spinam hinc peregrina de littora traxit
Dextra rapax ferro, quum sterneret omnia Gallus,
Iosephi intemerata manus, pietasque verenda
Antiquam in Sedem Venusinam ex urbe reduxit
Inclitus at vivat Praesul per secula. sospes.
Quest’urna novella chiusa con quattro cristalli, nel cui mezzo in tubo
anche di cristallo sta ritta la preziosissima reliquia infissa in calzuolo d’oro,
contornata di pietre preziose. Fu lavorata nella Capitale a spese
del ridetto Morselli. Spiccano in essi varii Angioletti a rilievo,
portanti i tormenti della Passione. Opera che costò più centinaia,
senza comprendere le altre pietre preziose, e le perle
che l’abelliscono anche con fregi d’oro.
Tornando alle tombe, perdono esse immensamente a fronte della santissima
e venerabilissima Custode delle sacre ossa del nostro Anglicano.
Dei marmi degl’altari, e di quant’altro l’adorna, non lasceremo passarne in prosieguo.
Passeremo quindi agl’altri sepolcri effigiati, esistenti parte
nelle altre cappelle, e parte negl’intercolunnii delle navate.
Rimpetto alla Cappella del SS. in fronte di un pilastro, ergesi
il tumulo benanche di elegantissima struttura in bianchi marmi di Carrara
ad onore del Vescovo Bolognese col suo ritratto, orlato con le teste
di Aquila bicipite, che con le sue ampie penne ricopre bellamente
due vaghi Genii scarmigliati a destra e a sinistra che ne compongono la perdita.
A piè sta sculta la impresa di famiglia che offre in testa una Croce.
Sussieguono cinque gigli, sbarra nel mezzo, ed indi due alberi
pomiferi sottoposti. In cima due mitre per avere avuto due Vescovi quest’illustre Casa
[19].
Iohanni Baptistæ Bolognesio
Iohannis Xaverii Patricii Teatini filius
Religione Iustitia morum novitate
Et prolixa in pauperes beneficentia
Spectatissimo
Qui divini humanique Iuris Consultissimus
Thermarum primum Antistes renuntiatus
Inde ad Andriensem translatus Ecclesiam
Fidem Constatiam Prudentiam
Et admirabilem tam in adversis
Quam in secundis rebus
Animi Æquabilitatem
Omnibus cumulatissime comprobavit
Evangelicæ Virtutis Cultoribus
Exemplar factus ad imitandum
Vixit annos LXXXIV menses II dies IX
In Episcopali Sacerdotio ann. p. m. XII
[20]
Obiit idibus Septembris Anno MDCCCXXX
In pace
Viro incomparabili
Patruo Benevolentissimo
Ioannes et Ioseph Bolognesii
Fl. M. PP. [21]
Giace inoltre sottoposto all’Organo il sepolcro con mezzo busto in marmo di altro Vescovo,
che governò questa Chiesa con la breve iscrizione
Nicolaus Adinolfi Neapolitanus
Episcopus Andriensis
Natus die XXI lulii MDCXXXXVII
Obiit die XIII Mensis lulii MDCCXV
Prima di morire, dispose che sull’avello si scrivesse
Ex Nicolaus Adinolfi Neapolitanis
Episcopi Andriensis
Ter maximi peccatoris ossa
Nella cappella di S. Lucia parimenti trovasi altro monumento
effigiato espresso in questa guisa:
Hic iacet Dominus Bartolomeus Quartus
[22]
Qui obiit septimo Iulii MCCCCLXIX
E nell’intercolunnio della Cappella di S. Giuseppe contiensi un tumulo
di Monsignor Resta; ma senza epigrafe, la quale fu rinvenuta
nelle parieti del pozzo della Sagrestia, degna del di lui alto merito.
Qual contrapposto pegno di considerazione nella storia degli umani eventi!
Colui che diessi tanta cura di perpetuare il suo nome
con tanti splendidi mezzi, restar doveva in un pozzo così oscuro ed obliato.
Lucas Antonius Resta Messapiensis Episcopus
Primum Castren, deinde Nicoteren, postremo Andriensis
Quorum prum in Religione Ecclesiastica, Disciplina
Bonis moribus universalibusque Cathedralis
Tum Ecclesiae ipsius palatii rebus instaurandis
Ampliandis et obnixe tuendis acerrime
Imitatur exemplum. Hic igitur immemor
Æque ac benemeritus successor resuscitans
Perpetuæ, ut par erat, memoriæ addici iussit
Anno salutis Umanæ MDLXXXIV. Præsulatus
In iisdem Ecclesiis XIX in hoc vero Andrien
III. Mensis Augusti. Feliciter Amen
[23]
Con questi altri due versi a piè dell’emblema
Præsul Testa Patres imitando resuscitat ipsos
Secul ne iterum pereant, sua stemmata jussit.
Questo distico bastantemente fa vedere l’impegno, che assunse in ravvivar
la memoria de’ Vescovi trapassati, suoi antecessori, con le imprese loro.
Onde si deduce che la parola abbreviata "prum" nel suddetto elogio dinota Patrum,
o Pastorum, che è lo stesso.
E qui lasciamo annotare, che nella sala dell’Episcopio vedonsi
i ritratti di tutti i Vescovi pro tempore incominciando da S. Riccardo
fino a Bolognese, elenco trascritto da Ughelli, autore non tanto accurato.
L’altro vescovo tumulato nell’intercolunnio della Cappella del Sacramento,
è Martino de Sotomaggiore, di Nazione Spagnuolo.
Manca l’epitaffio che era così concepito:
Martinus tumulo quem reddunt stemmata
[24]
[25]
Sibiliæ genitus contigit Ausonia
Parteno Vati Franc.... ad sidera notum
Concilia Baucium Andria magna Ducem
Andriæ est effectus Præsul Montisque Pelosi
Condidit in templo multa sacella, latus
Campanilis et arcem hic exit provvidus aere
[26]
Atque human superatis extruit sacrarium
[27]
Maioris pius aere præsentium opus
[28]
Quippe animam Superis occulto
Accanto la porta della Sagrestia e propriamente sullo scanno di S. Nicola
in cui seggono le dignità e i Canonici di questa Collegiata, sito in cornu Evangelii
mentre gli altri del secondo Collegio, della SS. Annunziata seggono in cornu Epistolæ,
nei giorni di assistenza delle principali funzioni,
vedesi anche lo stemma del suddetto vescovo con questi altri versi
Martinus de Soto, major Episcopus olim
Plurima in hoc templum Sanctorum transtulit ossa.
Nello stesso luogo vi è pure la impresa di Monsignor Florio agnominato
Vaccarella in cui è sculta una piccola vacca con un fiore,
di che se ne rende ragione nella sù indicata Storia di Durso.
Eccone il tenore:
Andrius Antistes hanc Florius Angelus aedem
Ornavit donis muneribusque suis,
Optima Præsulibus tradens exempla futuris
Divino culta quos decet usque frui.
Hic Christum in medii suspendit culmine templi
[29]
Sanguine qui lavit crimina nostra suo
Ipse etiam multo præsepia finxit in auro
Nata Redemptoris, quæ pia membra fovent,
Condidit, atque Chori numerosa Sedilia, nec non
Struxit Episcopei diruta tecta sui.
Isque libros plures sericoque auro quoque tecta
Qualia sacra docet pallia multa dedit.
Condidit hic Divi Richardi in honore sacellum,
Corpus ubi atque ossa condita sancta iacent.
Hoc quoque de niveo monumentum marmore factum
Erexit, sub quo conditus ipse iacet
[30]
Est tamen in patrio Pastor bonus factus ovili,
Cuique datum est merito pontificale decus
Sentiat ergo Deum sibi faustum propitiumque,
Tot bona qui templo donat habere Dei
MCCCCLXXXXV
Nella parete, vicino al Sacrario, leggonsi eziandio a di lui onore quest’altri versi:
Florius unde suum genus Angelus, urbi
Præfuit Antistes, templi patriæque levamen.
Riccardo primo Normanno, Conte di Andria fece circa l’anno 1063,
per effetto della sua pietà, ingrandire la Chiesa, aggiungendovi le navate,
che oggi si vedono, cominciando da sotto il presbitero.
In effetto nell’intonacarsi i pilastri di detta aggiunzione
in uno si scoperse la lapide:
Non timet aerumnam, talem sibi virgo columnam
Fabricat in cœlis, gaude Comitissa Fidelis
Vir tibi Ricardus, tu Conjux nobilis Emma
Ille velut Nardus, tu sicut splendida Gemma.
Perciò possiam dire, che la Chiesa prima dei Normanni consisteva
nell’attuale presbitero col suo soccorpo. La entrata si aveva
dalla parte del largo della Corte; ed in compruova esistono le antiche finestre.
L’Altare maggiore antico era situato dove attualmente sta eretta
la Cappella di San Riccardo. Quindi possiamo dedurre che il pavimento delle tre navate,
costrutto a lastre quadrate di un palmo e mezzo l’una,
fecesi a spese dello stesso Duca Riccardo.
Il quale per renderlo più decente lo fece intarsiare da lunghe parallele
di mattoni verniciati neri in tutta la estensione a destra e sinistra in varie guise.
Si ha pure altro sarcofago del Pastore Andriese Giannotto, così espresso:
Hic iacet Frater Antonius de Ianotto,
Civis Andriensis, eiusdem Episcopus, ac
Montis Pelusii, cuius industria hæc
Ecclesia refecta est
Anno MCCCCLXIII
Dopo costui fu Vescovo di nostra Patria Ruggiero de Atella,
la di cui lapide sepolcrale esisteva sul presbitero
dal lato dell’Evangelo con questi versi:
Hoc sua sub tumulo defuncta Rogerius ossa
Duxit Atellana qui genus urbe trahit.
Pontificis tumulum, cui græca salubria quondam
Tradidit et tanto dignus honore fuit
[31]
Negl’intercolunnii verso l’oratorio giacciono due Coperchi sepolcrali
di altre due cospicue famiglie esistenti tutt’ora, cioè di Cocco e de Robertis.
Sul primo è intagliato un albero di Cocco che sta in piedi sulle radici,
avendo disotto due Colombe, ed a fianco un braccio,
che sostiene una bilancia ed a piè leggesi
Coccorum
Non qui plura pluris, sed qui unum
primum omnium intelligit
1604
Nel secondo coperchio sta scritto
Hoc est sepulcrum
Richardi De Robertis, et hæredum ejus
1540
Ed un terzo coperchio nell’intercolunnio della Cappella di S. Michele con questo titolo:
Præclaræ Familiæ de Tota
Heu dura hæreditas.
La lapide tiene incise due Volpi rampanti ad un albero fronzuto, come lauro.
In testa dello stemma un elmo con pennacchi cristato.
Altra lapide esiste fuori la Sagrestia con questo epitaffio:
Doctor Thomas Candidus Doctoris Dilectosi filius
Ex nobili origine Liparensi Romæ inde Iofoum
[32]
Nunc Andriæ diffusa hanc urnam erexit
Pro suis illustribus fratribus ejus et eorum
Heredibus, et successoribus Te ipsum cognosce
Candidus
1655
Questa iscrizione in gran rilievi e contorni, porta in fronte una testa coronata,
e dalla impresa della famiglia Lupicini di nostra patria,
che presenta due lupi aggrappati ad un albero. Intorno la lapide
spiccano due code di delfini trifalchi in punta.
Ognun si persuaderà che le code di quei mostri marini spiegano il luogo
della origine di famiglia Liparese. Ma verrà forse curiosità a taluno,
come soggetti forestieri si tumulino in avelli di casati illustri del paese.
Non è difficile a sciogliersi il nodo di questo dubbio: Si può rispondere,
o perché le due famiglie vennero ad imparentarsi fra loro,
o che per effetto di buona corrispondenza ed amicizia permetteasi di accogliere
un forestiero insigne in sepolcro particolare. Ci istruisce la storia
che in Atene l’accademia era fiancheggiata dalle tombe dei cittadini morti
per la patria, e da quelle dei più grandi uomini, che vantava.
Fu in vero nobile idea di unire in uno stesso campo le ceneri di quegli uomini famosi
che vissero in diversi tempi, e che come i membri della stessa famiglia illustre,
lungo tempo dispersa, eran venuti a riposarsi nel grembo della loro madre comune.
Su quelle tombe veniva accennato il nome solo e la tribù di quei sommi,
mentre la epigrafe più breve riesce la più eloquente.
Ne resta a parlare, dopo l’orrore delle tombe, degli ori, degli argenti, ed arredi,
che son tanti e tali, che umilmente ne superbiamo, non invidi alle altrui massime ricchezze sacre.
Fra i quali rilucono eminentemente il baldacchino che spiegasi
nelle processioni solenni, del gonfalone parrocchiale, le campane
[33]
che possono dirsi una spuma d’oro, l’uno di raso chermisè, l’altro di raso bianco,
con grande crocifisso di argento egregiamente lavorato. I ricami e le fimbrie
di oro che ornano i gonfaloni sono ammirabili e ricchi e fra tali arredi gareggiano
i paramenti di raso chermisè, pur anche ad uso dei grandi pontificali,
e per la messa e per li vesperi, come altresì gli altri di lama d’oro violacea
e pontificali bianchi di argento, tutti a dovizia ricamati e forniti di larghi galloni d’oro,
i quali paramenti feceli venire da Napoli il zelantissimo Cosenza.
Preferiremo gli altri parati di non minor costo e nobiltà, tutti acquistati
a spese dello stesso nostro Pastore.
Fra questa ricchezza ne porremo la massima e l’altera
statua di S. Riccardo nostro tutelare, messo per l’oro e per l’argento
e per le gemme diverse che per la eccellenza dei fini travagli raguardevole,
decorata da più che raro cordone d’oro da cui pende la croce.
Questa immagine che costò al disopra di lire cinquemila fu lavorata
in Napoli da due valenti artisti D. Gaetano Coppola e D. Gaetano Capozza,
insieme al mezzo busto e braccio d’argento in cui racchiudesi l’urna
per esporsi alla pubblica venerazione e al bacio dei fedeli,
che uniti al valore della statua, oltrepassano di molto i ducati seimila.
Alla vista delle quali opere lavorate con diligenza e fatica resta ognuno ammirato.
Intorno al ridetto braccio è scritto «Miserere nostri Deus omnium,
et respice nos. Innova signa, et immuta mirabilia. Glorifica manum,
et brachium dextrum. Eccl. 36.»
Aggiungasi a tanta ricchezza il palliotto di argento fregiato a destra e sinistra
con gli stemmi del Vescovo Cosenza, figurando due Castelli con merli mezzati
da due festoni di fiori e di frutta, con la Vergine assunta nel mezzo.
Tutti i suddetti lavori di rilievo con larga cornice dorata per la quale
si spesero ducati mille ottocento.
[integralmente tratto dal libro di Giacinto Borsella,
"Andria Sacra",
edito a cura di Raffaele Sgarra, Tip. Francesco Rosignoli, 1818, pagg. 41-93]
[1]
Orchestra est locus ad spectandum destinatus.
Cantorum autem locus Edaeum est.
(Odeone in Atene era il teatro destinato alla musica.
Vedi gli storici sulla sua magnificenza); e Giovenale Sat. 7.
[2]
La tradizione, e gli scritti di S. Giovanni Damasceno c' insegnano,
che la vergine 23 anni dopo la risurrezione del Redentore andò a ricongiungersi
con esso lui nell'empireo, essendo allora della età di anni 72.
Gli Apostoli si trovarono raccolti a Gerusalemme per disposizione dell'Altissimo,
intorno al suo letto, e dopo il beatissimo transito di lei
La sepellirono onorevolmente nella valle di Iosafat.
Recatisi eglino dopo tre giorni al sepolcro, non rinvennero in quello
che i pannolini e le fascie in cui avvolgevasi il suo SS. corpo.
Ora la tradizione ed i padri della Chiesa ne assicurano che
la benedetta salma di Maria non solo fu esente dalla corruzione,
ma che insieme alla sua beatissima anima venne assunta in Cielo dagli Spiriti celesti.
[3]
Prima di passare oltre, non dispiacerà alla gioventù studiosa sapere ciò che avvenne
a Lionardo da Vinci pel celebre quadro della cena da lui dipinto.
Questo sommo pittore perseguitato dal suo Duca con la pena di morte,
rifuggissi in un oscuro convento di Cappuccini celando il suo nome.
In premio della ospitalità ricevuta promise fare un quadro nel Refettorio.
Cominciò l'opera, che lentamente pogrediva.
Faceano al pittore grave ostacolo per compierla le due fisonomie di Cristo e di Giuda,
per trovar le quali ogni mattina scendeva tra il popolo,
ispezionando le fisonomie che se gli offrivano.
Al Cristo dette il modello la testa di uno svizzero,
non riuscendosi ancora rinvenire quella di Giuda.
Che però pel ritardo veniva acremente rimproverato dal Guardiano del Convento.
Corrucciatosi oltremodo costui, nel caldo della stizza videsi la di lui fisonomia,
a così brutto ghigno atteggiato, da meritare di essere atteggiato
con la testa dell'empio traditore. Pensato, fatto.
Nel dì seguente uscito il Lionardo al solito passeggio,
i Monaci spinti da curiosità violentarono la stanza misteriosa
in cui nascondevasi il quadro non ancora visto.
Con sorpresa scorsero allora tramutato il Guardiano in Giuda.
Pensi ognuno in quali gradi di sdegno montò questi non meno che i Monaci.
Chepperò il primo dando di piglio ai pennelli intinti di colori
comincia a gittar degli strasci in faccia alla testa del novello Giuda
per cancellarla. Sopraggiunto il Pittore manifestò subito chi egli fosse,
e presentandosi al Capo politico esposegli l'accaduto,
con dichiarare di esser contento di soffrir la morte piuttosto
veder maltrattato il capodopera del suo genio.
Il Podestà accorse immantinenti al convento, sorprendendo il quadro meraviglioso
e salvollo dalle unghie dei monaci inveleniti.
Riferì quindi l'avvenuto al Duca di Firenze il quale
in grazia del dipinto portentoso dona la vita al Vinci,
e quella mirabile tela oggi forma l'ornamento migliore del Museo Fiorentino.
[4]
Di sopra si è fatto un cenno dello spirito di agricoltura,
che anima questa popolazione. In conferma di che facciamo rilevare,
che il largo della Corte vien così chiamato, perché ivi anticamente
regevasi giustizia tanto sotto i Borboni che quanto amministravasi da Giudici,
e Governatori di nomina regia, oltre del Mastrodetti.
La Catuma fu cosi chiamata dall'aggregato delle fosse per conservare i cereali,
che si caricavano nel littorale di Barletta. La parola è tutta greca,
composta da
cata circum etimbos tumulus, mentre i granai rassomigliano alle tombe,
alle fosse dei morti. E difatti quel luogo nei vari scavi ha mostrato
i tanti granaii che vi erano. Si aggiunge, che il largo vicino alla Catuma
ancora oggi chiamasi Vaglio, sito questo in cui vagliavasi.
[5]
Quest'opera insigne fu fatta a spese di Andrea Ariano,
Vescovo di carissima rimembranza agli Andriesi.
Nacque egli in Napoli e fu Parroco in Ischia. Ebbe tal grado il merito,
che ad onda dei replicati rifiuti videsi costretto in virtù di tanta ubbidienza
ad occupar questa sede nel 14 marzo 1697.
Educato tra Gesuiti in tutti i giorni festivi scendeva in chiesa,
e alle ore solite dispensava a' Fedeli la parola di Dio, nei mercoledi
di ogni settimana spiegava al Clero una lezione scritturale.
Fondò egli per la più felice coltura delle piante novelle,
che prosperar dovevano in la Vigna del Signore, il Seminario;
ingrandì l'Episcopio, e in questo duomo tutto parla di sua magnificenza.
Lo stemma di famiglia rappresentante un'Aquila, è collocato a destra
e sinistra dello altare. Lasciò comune opinione di santità,
dopo essere mancato ai viventi a 16 agosto 1706 sul di lui tumulo
con la effigie di pietra sistente nell'antica Cappella del sacramento,
accanto all'altare maggiore, leggesi questo elogio
Hoc monumentum positum est mihi
Immo tibi qui legis. Ego Andrea Arianus
Nolens volui Andriæ Praesul
Consecrari die XXIX Ianuarii MDCLXXX[X]VII
Seminarium erexi pene episcopale palatium
Ædificavi. Ecclesiam decoravi
Divinum cultura auxi, feci omnia,
Nichil omisi pro Deo onore. Et ideo
Coronam cepi gloriæ die XVI Aug. MDCCVI
Ætatis meæ Ann. LV
Hic expecto tubam et vocem Angeli, et resurgam
Per ciò che si attiene alla vita del Colombo, accenneremo, che
nella sua origine era intagliatore, e per la stretta amicizia
che si ebbe con Francesco Solimene, Pittore rinomato,
animossi a prendere lezione di disegno, onde riuscì egregio scultore.
Nicola Antonio Brudaglio, nostro concittadino stando in Napoli
fu discepolo del Colombo, onde divenne chiaro statuario,
e i di lui lavori vennero ricercati dalla Repubblica di Venezia
ed altre opere trovansi in Rimini di costui sarà parlato nel corpo di quest'opera.
[6]
La casa di questa illustre famiglia e sita all'angolo della strada
appellata Calderisi esiste tuttavia un gran portone di pietra,
con mostre striate a fianco, avendo in cima uno scudo ben lavorato
in mezzo del quale vedesi lo stemma predetto.
La capacità del portone mostra che ben ampio era il palazzo,
lavorato in pietra. Il muro pero di questo antico palazzo é di tufi
formati a bozzetti o a punta di diamanti, come molte altre case di questa città.
[7]
In vergar questa nota, supposi che non senza piacere sarà letta
da chiunque ignora i racconti mitologici sentendo cosa stato fosse
il corno della copia. Cornucopia, secondo la favola ebbe origine
dall' infanzia di Giove. Ovidio nei fasti I. 5 Vol. 115 a 124
racconta che una delle capre di Amaltea la quale allattava Giove
nell'isola di Creta, avendo perduto un corno rimasto spezzato
in faccia ad un albero, venne raccolto da quella Ninfa,
che coronatelo di fiori, e riempitolo di frutta presentollo al Nume,
che appena Giove divenne sovrano degli Dei pose meritamente fra gli altri
la sua nutrice e fece del suo corno l'imblema dell'abbondanza,
onde chiamossi cornucopia, o dell'abbondanza.
I Greci lo appellavano Ceras Amallhias. Lo stesso poeta
nella metamorfosi L. 9 N. 82 fa derivare il cornucopia da altra parola.
Quivi dice che il corno fu strappato da Ercole al fiume Acheloe
raccolto e consacrato al Re Niade: Niadas hoc ponit, et odore flore repletum Sacrarunt.
Il cornacopia (notisi prima il diverso genere) incontrasi
spessissimo sulle antiche medaglie e specialmente in quelle della Sicilia
attesa la sua feracità di ogni genere di fiori, frutti, e Cereali.
[8]
Gabata nell'antica chiesa chiamavasi un vaso di terra cotta,
tondo e corpacciuto nella figura, a guisa di Bacino, che serviva da lampiere.
Al presente se ne veggono tuttavia in Roma, dentro certe vetuste chiese
e specialmente nella Basilica Lateranense nell'altare maggiore,
donati dal Cardinale Ascanio Colonna. Questi vasi erano chiusi,
ornati di varii fregi pendenti da catenelle attaccate a' manichi,
con foro nel mezzo, da cui usciva la fiamma dei lucignolo, alimentato ad olio.
Riscontrasi il Ierolifico di Domenico Magri a questa voce.
La corona era pure un ornamento sacro, che pendeva davanti gli altari,
sostenuto da catenelle, come rapporta lo stesso autore.
Tornando all'umbilico da cui scende la lumiera sul presbitero,
osservasi, che in voce umbilicus é diminutiva di ambo ambonis,
che dinota propriamente il mezzo, dove concorre, e si unisce la volta
secondo la forza della parola greca amphalos, Umbo dei latini
ch'era il nodo in cui univansi le crespe a pieghe della toga,
come nota Tertulliano. Cosl pure chiamossi la parte più rilevata
in mezzo allo scudo: Umbo orbis chypei est.
[9]
Parergo vengono chiamati da Vitruvio gli ornamenti aggiunti all'opera principale,
che non hanno che fare a buon conto, colla stessa, ma si tollerano,
come una specie di lusso non dispiacevole. É parola greca,
che significa circa opus. Intorno a che non sia fuor di luogo osservare,
che le Chimere, ed i dragoni dipinti, o sculti nelle porte negl’Archi,
nei frontespizii degli altari delle vecchie chiese Cattedrali;
i mostri inventati dei Pittori e scultori del medio Evo, tuttociò che
l’immaginazione dei Poeti ha sognato di più fantastico,
sembra che la natura siasi compiaciuto raccoglierlo dal fondo dell’oceano.
Ella vi ha adunato le forme più orribili, vi ha associato i colori più opposti,
vi ha rovesciato, l’ordine dell’organi dissimulato l’organismo della vita,
come se avesse voluto crearsi un mondo a parte senza analogia,
col nostro e dare all’uomo lo spettacolo di una fecondità quasi infinita.
E magnifica cosa vedere le conchiglie marine rifulgere di mille colori,
e brillanti al par di lucidissimi metalli. Ne ha di tante specie
che la vita d’un uomo non basterebbe a classificarle.
Alcune danno le perle, oltre la madre di esse; di alcune si fan cupole,
alberi, palazzi chiese, obelischi, ed altri consimili manifatture.
E mangiansi inoltre infiniti molluschi in esse racchiusi.
Danno finalmente della lana preziosa al par della seta,
che si lavora per guanti, calzette, ed altro.
[10]
Ben a ragione fia qui pregio dell'opera di rendere alla virtù di sì chiari soggetti
un tributo di riverenza, esaltandola con nobil rispetto in ogni tempo,
in ogni luogo, in ogni stato come debbesi alle sue divine attrattive.
[11]
Nell'antica disciplina di ciascuna Città, vicino la chiesa Maggiore,
eravi edificata una cappella per lo sacro fonte, ove tutti i Cittadini si battezzavano,
come ho veduto costumarsi nella bellissima città di Firenze e in altre della Toscana.
In Firenze incontro al Duomo si vede la Cappella dedicata a S. Giovanni Battista,
riguardevole, per le porte di bronzo di superbo artificio, nella quale vi è
il Battistero per tutta la Città. E in Roma vicino la chiesa Lateranese
si conserva in una cappella ben ornata con colonne di porfido,
ed altri marmi bellissimi il battistero, ove fu rigenerato il gran Costantino;
nel qual fonte sogliono ogni anno nel giorno di Sabato Santo
battezzarsi alcuni Catecumeni. Negli antichi tempi non era lecito
ad altri se non al solo vescovo amministrare il sagramento del Battesimo.
Si drizzava il Battistero fuori la Chiesa; per dinotare, che l'uomo
per mezzo del Battesimo è ricevuto nel grembo della Chiesa.
Gregor Furon. L. 18 c II. Durand c 19. Fu poi al tempo di Clodoveo Re dei Franchi
decretato che i fondi battesimali si facessero in Chiesa dalla parte sinistra.
Gregorio Furon de Mire: S. Mat. L 2. c 21. Si deve pure avvertire,
che detti fondi poneansi in luoghi profondi per dinotare la sepoltura di Cristo,
di cui è figura il battesimo secondo l'insegnamento dell'apostolo:
Consepulti enim sumus cum illo per baptismun; ad Romam: Qual costume viene
fin oggi osservato nella Lateranense, ove il battesimo di Costantino sta posto in luogo basso,
scendendosi per alcuni gradini. Così il Maori nell'opera predetta.
[12]
Aronne, sommo sacerdote come il dotto conosce ed il volgo ignora, per espresso
comando di Dio unissi al germano, onde liberare gli Ebrei dal gioco di Faraone,
e condursi nella terra promessa. Dopo il passaggio del mar rosso,
e durante la dimora nel deserto non mostrò quella ferma resistenza
ed opposizione alle mormorazioni popolari, che faceansi contro la condotta
di suo fratello. Si aggiunse la debolezza e la timidità che mostrò nel cedere
alla superstizione della moltitudine, innalzato avendo un vitello d’oro
da adorarsi. Chepperó non gli fu dato giungere alla terra di promissione,
come neanche a Mosé. Salito egli alla vetta del monte Hor, col fratello,
ed Eleazaro di lui figlio primogenito, ivi morì dopo che Mosé
per Divino comando tolsegli di dosso gli abiti sacerdotali,
investendone il figlio. La storia è riportata nell’Esodo
e nel 3 e seguenti del Pentateuco.
[13]
L'apparizione più che miracolosa dell' Arcangelo S. Michele al Monte Gargano,
precedé la gita di. S. Riccardo. Di poi a richiesta del Vescovo di Siponto
venne egli invitato a conferirsi colà coi prelati San Sabino e San Ruggiero
onde consecrarsi quell’altare. Lo che non ebbe effetto essendosi udita
una voce meravigliosa, ch’era già stata consegrata dall’Altissimo,
Siponto oggi Manfredonia, detta
Sipontum Novum da' Lessici.
[14]
Ad onore del defunto cade in acconcio sapersi, che lasciò egli l’intero usufrutto,
del pingue suo patrimonio, di circa ducati ventimila per li seguenti legati.
Per sorteggiarsi ogni anno cinquantadue orfanelle, onde potersi collocare
in matrimonio con la dote di ducati 30 che si celebrasse in suffragio dell’anima sua.
Che si dovesse sollenizzare annualmente con tutta la pompa chiesastica
in ogni venerdì di Passione in memoria della gran Diva una messa cantata,
dovendosi nello stesso dì pubblicamente dispensare agl’indigenti larga elemosina.
All’effetto ordinò che il Priore della Cappella di S. Riccardo e gli amministratori,
pro tempore del Cumulo, di cui verrà fatta parola a suo luogo invigilar
dovessero sotto la presidenza del Vescovo all’esatto adempimento de’ suddetti legati.
[15]
Cognitor, cioè Conoscitore, antica, ed illustre famigl’andriese che s’estinse
nell’ultimo suo rampollo Federico letterato, e poeta.
Alla stessa opulenta di territorii, e semoventi, apparteneasi il grandioso palazzo
adiacente al convento di S. Agostino, riedificato dal sig. Riccardo Porro
ed alla medesima pure il gran giardino murato detto volgarmente il
Parco di Pisano.
I Conoscitori erano antichi Patrizi di questa nostra Città, nella quale eravi
un sedile sito nel largo della Corte, sul suolo, in cui è posta la casa di Parlati.
Circa il Patriziato dei tempi bassi convien sapere che esso era una dignità
istituita da Costantino Magno, superiore a tutte l’altre anche al Prefetto
del Pretorio, e inferiore al Consolato. Le ultime parole della formola
presso Paolo Diacono, conservate nella biblioteca vaticana, e riferite dal Durange
contengono una gran diversità da quella, che leggiamo qui:
Tunc induat, sidice ivi, cum Imperator mantum, et ponat ei in dextro indice anulum,
et detei bombacinum (bombycinum veste di seta) propria manu scriptum:
«Esto Patricius misericors, et justus» perciocché le chiese, e i poveri
erano raccomandati al Patrizio. Da quest’Epittaffio,
e dagl’altri molti esistenti in Città può dedursi,
che i dotti della stessa conoscevano a fondo l’epigrafia.
[16]
Si hanno per li tipi della Simoniana gli opuscoli di questo Dottissimo Prelato, contenenti:
carmi, epigrammi, iscrizioni, ed altre cose, con la sua pastorale in latino.
Inoltre dodici sonetti, e quattro canzoni di stile robusto ad imitazione
di Giovanni Della Casa, il quale infastidito dei svenevoli Patriarchi,
aprissi altro glorioso arringo nella poesia Italiana, che tanto onore e fama
gli guadagnò. Narrasi di questo vescovo che giorni prima di consecrarsi
gli si presentò persona, esibendo a formargli, se gli gradisse, la pastorale.
Cui egli modesto rispose che ne aveva fatto borro falso,
accomiatossi dimandogli scusa giacche egli n’era, Maestro.
Anche la sua lingua latina era tutta Ciceroriana.
[*]
Ecco la terza.
[
Si notino gli errori di stampa nell'epigrafe di mons. Franceschini:
gli ultimi due righi dell'epigrafe di Cassiano sono trascritti anche, erroneamente,
in quella del Franceschini, dove è errata anche la data di preparazione, 1630, data che
non può essere anteriore al 1632, anno nel quale divenne vescovo di Andria]
Ascanius Cassianus a Monte Regali
Episcopus Andriensis
obiit XII Mensis Iulii MDCLVII
aetatis suae annorum LI
[17]
Che dirò poi del numero infinito dei sepolcri, che qui di giorno in giorno
si scoprono? Non possono essi paregiarsi lo confesso con quelli di Ruvo e di Canosa,
in riguardo alla dovizia, ed al lusso dei vasi, e delle monete,
essendo state queste città Colonie Romane; ma intorno orse più frequenti
nella loro nuda semplicità. In effetti qualunque piccolo scavo
che venisse praticato nel d'intorno delle mura, e principalmente nelle fornaci,
ossia nella contrada S. Lorenzo sull’alto come parimenti sull’orto episcopale,
e sue adiacenze, sullo spianato di S. Michele al lago ed in tutto il contorno
di quella chiesa; nelle vicinanze ed accanto la chiesetta rurale di S. Lucia,
tosto diceva, si scoprono tante piccole nicchie, capaci a ricettare
un cadavere di cui ancora sono visibili gli avvanzi polverosi.
Quei sepolcri, che appaiono intorno le nostre chiese suburbane
segnano un’epoca più recente cioè quando il popolo andriese
aveva gia abbracciato il Cristianesimo: indicano il VI secolo,
mentre fino al secolo nono fu vietato darvi tomba agli estinti nelle chiese,
credendosi contaminazione del sacro luogo. O essendo immenso il numero
di questi sepolcri, ne viene per necessaria illazione di essere passato
per gli Andriesi un lunghissimo tempo anteriore a quest’epoca.
[NDR]
[
Mi piace qui trascrivere il sonetto che l'autore Giacinto Borsella compose in riferimento a questo evento,
sonetto riportato da Riccardo Zagaria nell "Osservatore Romano" del 30 gennaio 1932:]
"Sposa Augusta de' Balzi, inclita Madre,
Splendor del popol nostro, alma pietosa,
La Spina, il sai, delle più crude ed adre,
che di Cristo stié fitta, in cranio ascosa,
Già preda un tempo di nemiche squadre,
Ve' che riede tra noi lieta e pomposa!
Ah! Ben dovea d'inique mani e ladre
Il contatto aborrir schiva e ritrosa!
A te più dolse quell'avverso fato
finché il nostro Pastor, tanto felice,
La torna al culto, al prisco suol beato.
Vieni e l'adora. Il gaudio a Te più lice:
Fu tuo quel dono, a nostro ben rinato,
Qual vera a' rai del sol bella Fenice.
[18]
Il primo atto circa tal miracolo fu rogato dal Notaro Gian Lorenzo Gurgo di Andria,
che attesta come combinatosi il venerdì Santo del 1633 col 25 Marzo,
la spina apparve verso l’ora nona del mattino rossegiante di fresco sangue.
Chi è vago di altre particolarità rivolgasi alla storia di Andria
compilata dal Cantore d’Urso. Il Prevosto D. Giovanni Pastore scrisse
sul miracolo della S. Spina avvenuto nel 1787. Egli fu anche il primo
a comporre la storia d’Andria era un soggetto di gran merito
e vari anni dimorò in Napoli e in Roma. Mori ottuagenario nel 1806.
[19]
Per chiunque, cui nascer potesse la curiosità, onde sapere che dinoti la mitra,
ci facciamo a trascrivere quanto sull’assunto ci dinota Macri nel suo Terolepico,
ossia Vocabolario Ecclesiastico. La mitra egli dice, significa la magnificenza
di Cristo; le due corna dinotano la scienza dei due testamenti vecchio e nuovo,
che devono risplendere nel capo dei sacri Pastori. Le due fascie pendenti
sulle spalle sono simbolo dello spirito, e della lettera racchiusa
nella Divina scrittura. Perchè il Prelato deve conoscere i due sensi
e deve portare sopra le spalle tutto quello che insegna colla voce.
[20]
cioè: plus minus, in circa; sigle solite ad usurparsi dagli Antichi.
[21]
cioè; flentes morentes posuerunt. Questa iscrizione fu composta dal Sac. D. Gaetano Rugiano di Napoli.
[22]
Questa famiglia Quarto, oggi dei Duchi di Belgioioso è pure una
delle assai generose di questa città. Il Paciucchelli nella sua opera
del regno in prospettiva, osserva ciocche segue intorno alla nostra patria:
Civilissimi e di ottimo garbo sono gli Andriesi.
Distinguonsi alcuni con gli abiti di Malta e di S. Giacomo, come gli Accetto,
i Braidi, i Carbutti, Conoscitore, Fanelli, Fellecchia, i Guadagni, Mele,
Pelusi, Rimedii, Zagaria, si aggiungono Vitaliani, i Paladini, Tota, Curtopassi, Tupputi.
[23]
Di questo Vescovo si ha per le stampe un Sinodo al clero e al popolo di Andria
per restituir la disciplina e correzione di costumi, copia di cui avendo egli diretto
al Cardinale Antonio Carafa costui risposegli con la più affettuosa riverenza.
[24]
La parola, che manca allo spondeo del secondo verso potrebbe supplirsi
colla parola
notum, o
clarum.
[25]
Sibiliæ, Siviglia, oggi appellata Ispalensis.
[26]
Arcem, cioè il culmine, o Cuspide del Campanile, giacché prima mancava di cima,
o fastigio al pari di altri campanili.
[27]
Il senso porta, che debba spiegarsi per
humanis rebus superatis,
cioè dopo compiute le cose umane, attese alle sacre.
[28]
L’ultimo distico è sì malconcio che non offre una interpretazione facile.
All’esametro, il [=al posto di]
præsentium si potrebbe immettere
præstantius.
L’ultimo verso si risanerebbe cosi:
Quippe animam Superis occulo post obitum.
[29]
Christum cioè la Cappella del SS. Sagramento.
[30]
Questo sontuoso altare in occasione di essersi scoperchiato l’avello
del nostro inclito Vescovo Cosenza in cui giaceva la Santa spoglia
del nostro Protettore onde prendersi l’alma per esporsi in teca di argento
con cristallo all’adorazione dei fedeli, venne arricchito di altri preziosi marmi
nel paliotto, formato a tumulo, e con verde antico.
A’ fianchi del quale vi si aggiunsero due graziose teste di Serafini,
scarmigliati e dimessi per la mestizia che gl’investe nella perdita del Santo.
In mezzo a questo tumulo è affissa una statuetta di metallo dorato
in onore del nostro Taumaturgo.
[31]
Che di nota ornai la parola greca salubria? Potrassene a nostro giudizio dar ragione,
leggendosi la vita di Callisto III, il quale si ostò acremente alla elezione
di un Pontefice di nazione greca, quasichè la chiesa latina ne soffrisse penuria.
Pare probabile che fosse stato egli scelto a motivo della salutare benefica influenza,
che godea allora presso la corte Romana il celebre Cardinale Bessarione di Trebisonda.
(La Fraperus) Arcivescovo prima di Nicea, eletto poscia da Niccolò V
Arcivescovo di Siponto e di poi nel 1449 Cardinale Vescovo di Sabina,
e appresso di Tuscolo o Frascati. Costui, come narra la storia,
dopo essersi a tutt’uomo impegnato a riunire le due Chiese Latina e Greca,
avvertitosi dell’errore, desistè dall’impegno sposato, onde attirossi l’odio degli Scismatici.
Onde videsi costretto restarsene in Italia, e in Roma, ove in breve tempo
egli apprese non solo le maniere e gli usi Romani, ma anche la lingua latina
in siffatto modo, che se la rese famigliare.
Fu già egli Patriarca di Costantinopoli, e uno dei principali ornamenti del secolo XV.
Visse anni settantasette, lasciando sincero rincrescimento e memoria degna d’immortalità.
Morto Niccolò V credesi che sarebbe stato creato Papa, se il Cardinale Alano
non fosse riuscito a persuadere che sarebbe stata gran vergogna per la Chiesa Latina,
dar la tiara ad un greco. Si hanno vagii monumenti del suo sapere,
pei quali più splende l’opera contro il Cardinal Trebisonda,
impegnatosi ad innalzar Aristotile sopra il suo Maestro Platone.
Fra contemporanei ed amici del Bessarione si annoverano il Valla, Teodoro Gara,
il Fidelfo, l’Arcipopolo, il Calderino, e Giorgio Trebisonda.
Tutti i preziosi suoi libri, e manoscritti acquistati con tante migliaia,
li regalò al Senato Veneziano, che gli prodigò di tanti onori durante la sua vita.
Le opere che ci restano del suo ingegno, sono: In calumniatorem Platonis L. 4;
varie lettere, una orazione contro il. ……. 4 Xenofontis,
de dietis et factis sacratis, varie altre opere contenute nella raccolta dei Padri.
[32]
Iofum, Cifone, o Giffone paese in Principato citeriore, che comprende molti villaggi
credesi aver preso il nome dal tempio di Giove ivi eretto, quasi Iovis Fanum
di niun’altra spiega adeguata ci sembrò capace tal parola.
[33]
Baldacchino specie di drappo di levante cosi detto da Babilonia che i Levantini
chiamavano Bagdad ed i nostri antichi dissero Baldano.
Con questo ricco drappo i nostri maggiori coprivano la bara ov’era la cassa
del corpo che era di seta e di oro. Dicesi inoltre l’arnese che si porta,
e si tiene affisso sopra le cose sacre, e sopra i seggi dei Principi
e gran personaggi in segno d’onore, con fregi pendenti intorno.
Lat. Umbella, o pannus sericus Babira. Leggesi negli annali manoscritti
Calmanuti dell’anno 1276: Rea veste pacum prætiosissimum Paganici operit.
Drappo bracato di seta ed oro ricco. Feretrum coopertum fuit baldacchino,
quod Ecclesiæ reliquerunt, oggi comunemente diconsi cultroni, coltri, coltrici.
Gonfalone Lat. Labarum. Cosi venne chiamata una insegna militare
usata da Costantino Magno. Il labaro era certa asta lunga con una traversa
dalla quale pendeva un sottil velo, in cui era con lettere d’oro
cifrato il nome di Cristo, il qual nome alcune volte ponevasi sopra l’asta
e nel velo scompariva l’immagine dell’Imperatore.
Viene descritto da Prudenzio con i seguenti versi. Cristus purpureum gemmanti
textus in auro signabat Labarum summis, crux addita cristis
«afferma Eusebio» nella vita di Costantino, che nella sommità era collocata
una corona d’oro ingemmata col nome del Salvatore, espresso con le due lettere
greche X. P. come avealo egli veduto. La etimologia del Labaro,
secondo il Nazianzeno, vale laboris terminus, in Orat. 2, in Iulien:
Apost: nominandolo Costantino, perché liberato avendo Roma dalla tirannide
di Massenzio, poneva fine ai tanti gravosi mali e fatiche, ovvero perché
rilucendo la croce nell’impero Romano, terminaronsi le persecuzioni
contro i fedeli, finalmente perché l’arrivo di quel segno faceva svanire
i pericoli, e le fatiche ed i nemici rimanevano vinti.
Non mancarono scrittori che lo chiamarono labron, in greco cioè veloce,
rapido, perchè in esso astringeasi pure l’aquila imperiale.
Altri traggono la etimologia dalla parola Laphiron che significa spoglie
tolte al nemico. Oggi i religiosi nelle processioni, e negli accompagnamenti funebri,
ritengono nelle croci la forma dell’antico Labaro, perché le processioni
sono in guisa di eserciti clericali schierati, che militano
sotto le gloriose insegne della croce. Ed anche perché la Chiesa
quasi Castrorum acies ordinata cammina con ordinanza militare,
a similitudine di quella, con cui marciava il popolo Isdraele quando portava l’arca.
Genesi 46 c. 68. Oltre a ciò fanone significa un velo pendente benanche da un’asta,
come bandiera il vessillo detto confalone o volgarmente gonfalone.
Pare voce Germanica, perché così chiamarono stendardi.